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Berlusconi: l’energia è cara il nucleare va riconsiderato

Premier atomico

21 gennaio 2005
Pietro Greco

Berlusconi e Bush Ripensiamo il nostro piano energetico nazionale. Ripensiamo al nucleare. Nella sua ormai ineludibile provocazione quotidiana e nella sua altrettanto sistematica esigenza di doversi giustificarsi al cospetto degli altri paesi dell'Unione Europea, Silvio Berlusconi ieri ci ha prospettato una necessità e una fuga all'indietro.
La necessità, questa sì davvero ineludibile, è quella di ripensare la politica energetica del paese. La fuga all'indietro è quella di ripensarla titillando l'idea del nucleare.

I fatti sono questi. Nei giorni scorsi l'Unione Europea ha di fatto ammonito il governo italiano perché il nostro paese non rispetta gli impegni energetici, diventati stringenti con la ratifica definitiva del Protocollo di Kyoto. Si tratta di un ammonimento serio, che già prefigura sanzioni economiche. E, infatti, da un lato l'Enel ci ha fatto sapere che il rispetto degli impegni europei e del Protocollo di Kyoto si trasformerà in un ulteriore aumento della bolletta della luce. E dall'altro esponenti più o meno autorevoli della maggioranza (ultimo, l'ex ministro dell'economia Giulio Tremonti) hanno ricominciato a sparare ad alzo zero contro la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti del Clima e il suo protocollo attuativo firmato a Kyoto nel 1997.
Il fatto è che questa maggioranza non ha mai creduto che il Protocollo di Kyoto sarebbe stato ratificato, dopo la denuncia unilaterale che ne avevano fatto gli Stati Uniti. E, pertanto, non ha mai pensato che gli impegni assunti sul piano europeo e planetario prima o poi dovessero essere rispettati. Invece il Protocollo di Kyoto sta diventando operativo. E l'Unione Europea passa all'incasso dei patti. Così oggi Berlusconi e la sua maggioranza, giunti impreparati alla meta, scartano come un mulo che rifiuta il morso.
Lo scarto di Berlusconi ieri è consistito nel prendere atto di una mera necessità: dobbiamo rivedere la nostra politica dell'energia, perché quella attuale non solo ci rende il paese forse più vulnerabile dell'intero Occidente sul piano energetico ma anche perché, ormai, ci pone fuori dal sistema dei vincoli internazionali liberamente sottoscritti.
Quali sono le condizioni non più sostenibili di questa politica? Almeno tre, peraltro tra loro correlate.

La prima è che l'Italia è tra i paesi dell'occidente che hanno meno diversificato le loro fonti energetiche. Dipendiamo troppo dal petrolio. E, più in generale, dai combustibili fossili. La seconda è che l'Italia è tra i paesi dell'occidente che dipendono, per i loro approvvigionamenti energetici, di più dall'estero: il petrolio, il metano, il carbone che usiamo li importiamo quasi per intero da paesi stranieri. Infine il paese poco diversificato e troppo dipendente vede aumentare, invece che diminuire, la sua capacità inquinante. Dovremo, entro il 2012, abbattere le emissioni di anidride carbonica del 6% rispetto al livello di riferimento del 1990, le abbiamo invece aumentate del 7%, cosicché nel giro di sei o sette anni dovremo abbatterle del 13%.
Il guaio non sta solo nella cifra assoluta: diminuire del 13% è un impegno serio, ma sopportabile se avessimo almeno predisposto il sistema. Se cioè avessimo almeno approntato un piano energetico volto in quella direzione. Ma Silvio Berlusconi sa bene (o, almeno, ci auguriamo che lo sappia) che la politica energetica del suo governo sta andando esattamente nella direzione opposta: più combustibili fossili, maggiore dipendenza dall'estero, maggiore carica inquinante. Ecco perché scarta. Perché sa che finora il suo governo ha tirato in direzione opposta a quella che l'Unione Europea, il protocollo di Kyoto e l'interesse strategico del paese richiedevano.

Occorre, dunque, ripensare davvero la politica energetica. Ribaltando completamente quella fin qui perseguita. Il morso è duro. E, come spesso gli accade in queste situazioni, Berlusconi cerca disperatamente e improvvisamente di ribaltare i tavoli. Di qui la proposta - la boutade - di ripensare al nucleare.
Si tratta, per l'appunto, di una boutade. Anzi, di una fuga all'indietro. Perché il nucleare a cui pensa Berlusconi è quello delle centrali francesi o slovene. Un nucleare vecchio, per l'appunto. Perché produce energia ad alto costo e rifiuti difficili da gestire. Ma anche ammesso che questo nucleare fosse un'opzione sostenibile, entrano in gioco i tempi. Progettare e costruire decine di centrali nucleari, formando i tecnici adatti a gestirle, richiederebbe tempi enormi: non meno di una ventina di anni o forse più. Il nucleare, giovane od obsoleto che sia, non è un'opzione spendibile in tempi brevi. Non è il modo per ripensare la nostra politica energetica e rispondere alle domande che vengono posti all'Italia qui e ora.

Cosa fare, allora? È facile dirlo. Elaborare un piano energetico realistico. Fondato su una visione politica coerente, prendendo atto che - lo voglia o no la maggioranza berlusconiana - non possiamo “uscire da Kyoto” e che - lo voglia o no la maggioranza berlusconiana - dobbiamo rispettare lo spirito e per quanto possibile la lettera del piano energetico europeo. Ciò, in pratica, significa: migliorare, con il risparmio, l'efficienza energetica del sistema Italia; puntare finalmente in maniera decisa sulle fonte alternative ai combustibili fossili diverse dal nucleare (non è possibile che il “paese del sole” continui a produrre meno energia solare della piccola e alquanto brumosa Austria e che la lunga penisola che affonda a mo' di stivale nel Mediterraneo continui a produrre meno energia eolica della Danimarca); iniziare a investire in ricerca scientifica per nuove fonti di energia. Compresa la ricerca in campo nucleare. Ma per un nucleare, piccolo e sicuro, di IV generazione, che diventerà produttivo, se tutto andrà bene, dopodomani: fra tre o quattro decenni. Non per quel nucleare di II generazione, elefantiaco e obsoleto, cui sta ripensando Berlusconi e che non è in alcun modo proponibile per risolvere i problemi di oggi e di domani.

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