L’indissolubile legame tra il territorio e le genti che l’abitano «Urihi», la madre infinita e generosa
La terra non come parte della vita, ma come fonte stessa della vita: è questo il significato che tutti popoli indigeni d’America latina hanno sempre dato al problema del rapporto di ogni singolo individuo e di ogni comunità con il territorio su cui è nato. Nel suo libro Memoria del fuoco, a fine anni Settanta, lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ricordava la sorpresa di un indio a cui veniva spiegato il problema della compravendita delle terre. «Vendere, comprare la terra?», obiettava l’indio, «ma se siamo noi ad appartenere a lei. Lei ci cura e noi la curiamo. Siamo figli suoi».
Se in America del Nord la guerra per il possesso del territorio con i «bianchi» è finita oltre un secolo fa, in America latina il contrasto è presente a tutt’oggi, reso ancor più drammatico dai «riaggiustamenti» economico-finanziari che in alcuni casi hanno risolto i problemi macro-economici ma hanno il più delle volte peggiorato le condizioni di vita delle fasce meno protette della popolazione. E il controllo della terra tuttora costituisce una questione primaria perché Urihi - come chiamano la terra con la sua foresta gli Yanomani, il popolo indio che vive tra Brasile e Venezuela - è sempre meno disponibile per le necessità di base dei popoli nativi.
Che sia in Messico per i progetti turistici nelle regioni che videro lo sviluppo della civiltà Maya, o in Brasile dove avventurieri senza scrupoli invadono zone riservate alla ricerca di minerali preziosi, o ancora nella selva amazzonica ecudoriana dove le multinazionali del petrolio cercano il prezioso «oro nero», la terra continua a sfuggire al controllo di quelli che per secoli si sono considerati e ancora si considerano i «custodi della terra», ponendoli davanti a una drammatica alternativa: la lenta estinzione o la ribellione. «Custodi della terra» perché vivono da millenni in armonia con la natura nelle zone più ricche di biodiversità del pianeta, come l’Amazzonia.
Per quasi tutti i popoli indigeni, infatti, terra e vita umana sono inestricabilmente connesse. Legandoli al passato e al futuro, la terra è custode del tempo: dimora degli antenati, fonte di cibo e riparo, ma anche il luogo della creazione, dove gli antichi eroi delle mitologie affrontarono e vinsero il male e il caos per poi fondare la società umana con i suoi ruoli complessi. E, cosa più importante di tutte, è l’eredità custodita per i loro figli e i figli dei loro figli. Se espropriati dei loro territori, i popoli indigeni sono condannati. Con terra adeguata, invece, possono affrontare il futuro con la stessa fiducia di tutti gli altri popoli.
È questa sfida per la vita o per la morte che ha guidato tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 ade esmpio una rivolta generalizzata di gran parte dei 300 mila indigeni che si stima tuttora vivano in Brasile. In Amazzonia le terre indigene sono costantemente alle prese con le infiltrazioni costanti dei cercatori d’oro clandestini - i cosiddetti garimpeiros - e degli agricoltori e piantatori abusivi. Un altro motivo di scontro tra i latifondisti e indios è il disboscamento: gli indios vogliono preservare la «loro» foresta, mentre fazendeiros e coltivatori vorrebbero radere al suolo quella che considerano «terra improduttiva». In molti casi, visto che lottano contro lo stesso «nemico», gli indios hanno stretto un patto tacito di alleanza con i sem terra, le centinaia di migliaia di contadini senza terra brasiliani, il cui movimento organizzato rappresenta oggi la realtà sociale più combattiva del Paese, adottandone in alcuni casi le tecniche di occupazione di terre.
Ma parlando di «custodia» della foresta pluviale dell’Amazzonia non si può dimenticare l’importanza rivestita nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale al problema, la lotta condotta negli anni Ottanta da Chico Mendes, il raccoglitore di caucciù, dello stato brasiliano dell’Acre, assassinato il 22 dicembre 1988 da latifondisti locali. Il sindacato dei seringueiros di cui era leader si batteva per l’«estrazione» sostenibile delle risorse naturali della foresta, e in primo luogo del caucciù, il lattice ricavato dalla hevea brasiliensis in Amazzonia, che tra fine Ottocento e inizi Novecento prima, e poi durante il secondo conflitto mondiale, rappresentò una materia prima «strategica» per l’Occidente.
Mendes, al cui fianco è cresciuta anche l’attuale ministro dell’Ambiente Marina da Silva, si batté per salvare la foresta contro i latifondisti che bruciavano e tagliavano gli alberi, e per salvare con essa i seringueiros, che della foresta appunto vivono. Grazie al suo impegno che ottenne solenni riconoscimenti negli Stati Uniti e in Europa, gli stessi ambientalisti si avvicinarono al dramma della deforestazione in Amazzonia comprendendo il nesso strettissimo che lega - prima di tutto nel Sud del mondo ma non solo - la tutela dell’ambiente e la difesa del futuro dei popoli, l’azione per far fronte al rischio climatico dell’effetto serra con la lotta al sottosviluppo.
(g.c.)