L'acciaio "green" taglia del 75% la forza lavoro
Giuseppe Romano, Fiom-Cgil di Taranto, è un sindacalista attento e ben documentato. Sull'ILVA di Taranto ha dichiarato al giornalista Guido Ruotolo: "A oggi, purtroppo, siamo fermi al piano industriale di gennaio scorso, il forno elettrico è previsto che parta non prima del 2024 in ciclo ibrido. Poi sull’idrogeno si vedrà".
Come è evidente, tutta la discussione sulla compatibilità ambientale dell'ILVA gira attorno alle nuove tecnologie e ai forni elettrici alimentati da "spugna di ferro" (il preridotto, o DRI) che sono il passo decisivo verso la "decarbonizzazione". Su questo nuovo ciclo produttivo - che abolisce cokeria, agglomerato e altoforno - abbiamo già scritto e nel campo note forniamo ulteriori dettagli.
La questione che preoccupa i sindacati è che questa decarbonizzazione taglierà drasticamente la forza lavoro. Giuseppe Romano, che a Roma ha partecipato agli incontri con ArcelorMittal e con Acciaierie d'Italia poi, ha detto a Guido Ruotolo: "La questione vera, oltre alla compatibilità ambientale e sanitaria, è come si tiene l’occupazione attuale che prevede per il ciclo integrale l’equazione un milione di acciaio prodotto e mille dipendenti. Già col forno elettrico il rapporto scende a un milione di acciaio e 350-400 lavoratori".
Il trend occupazionale attuale nel settore siderurgico italiano (grafico a destra) è in netta e costante discesa dopo il 2009 e non lascia molte speranze a chi ancora pensa ad una stabilità del posto di lavoro. Facciamo alcuni calcoli e vediamo subito cosa cambia con lo scenario di "decarbonizzazione" a 6 milioni di tonnellate/anno di acciaio.
Occupazione con i Riva: 12 mila lavoratori a 8 milioni di t/a
Durante l'epoca dei Riva lo stabilimento siderurgico di Taranto poteva andare in pareggio e produrre anche profitti con 8 milioni di tonnellate/anno di acciaio e 12 mila lavoratori circa (con le ditte dell'indotto ancora di più). Quindi 1.500 lavoratori per ogni milione di tonnellate/anno di acciao. Questo assetto consentiva di mantenere l'occupazione senza investire nelle migliori tecnologie per ridurre l'impatto ambientale. Trovava d'accordo sindacati e imprenditore, pagando però lo scotto di un impatto sanitario inaccettabile sia per i lavoratori sia per i cittadini. Questa è probabilmente la ragione per cui i sindacati non hanno mai scioperato per chiedere un cambio del ciclo produttivo allo scopo di "decarbonizzare" lo stabilimento.
Occupazione con ArcelorMittal: 6 mila lavoratori a 6 milioni di t/a
Quando è arrivata ArcelorMittal il leit motiv è stato quello di uniformare lo stabilimento di Taranto al modello produttivo dello stabilimento di Gand (si scrive anche Gent) in Belgio: 1.000 addetti ogni milione di tonnellate/anno di acciaio. In quello stabilimento gli occhi sono puntati sull'efficienza e sono state introdotte tecnologie dell'industria 4.0 all'interno del ciclo siderurgico.
Attualmente la produzione non arriva a 5 milioni di tonnellate/anno di acciaio e quindi la forza lavoro necessaria per ArcelorMittal scende sotto i 5 mila addetti. Anche arrivando all'obiettivo di 6 milioni di t/a sarebbero 6 milioni gli addetti. E aumentando la produzione a 8 milioni di t/a con i forni elettrici le unità lavorative necessarie sarebbero solo 800. Sarebbero solo 800 perché i 2 milioni in più si otterrebbero con i forni elettrici che offrono 400 posti di lavoro per ogni milione di tonnellata di acciaio all'anno in più. Quindi (6x1000)+(2x400)=6.800 addetti con 8 milioni di t/a. Quindi una produzione a 8 milioni di t/a (ammesso che il mercato le richieda in futuro) non arriverebbe a 7 mila unità.
Occupazione con ciclo decarbonizzato: 2.500 lavoratori a 6 milioni di t/a
Con i forni elettrici e il DRI tutto cambia e si scende a 350-400 addetti per milione di tonnellate/anno di acciaio.
Il nuovo ciclo produttivo "decarbonizzato", altamente automatizzato, è di tipo labour saving e compensa i maggiori costi iniziali di investimento con una netta riduzione della forza lavoro e, in prospettiva, con una minore tassazione, in vista di una carbox tax sempre più pesante per i cicli produttivi basati sul carbone.
Concludendo la nuda contabilità dei tagli occupazionali, possiamo dire che un'ILVA totalmente "green" passerebbe da oltre 10 mila posti di lavoro a un numero di occupati di un quarto: 2500 lavoratori, e anche meno. Il taglio è almeno del 75% rispetto ai tempi dei Riva.
Nella nuova equazione economica della decarbonizzazione accade qualcosa che fa parlare di un "bagno di sangue" al ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani. Si passa infatti da un assestato rapporto fra occupati e produzione che viene tenuto in piedi a costi ambientali e sanitari altissimi a un nuovo ciclo produttivo che incorpora l'imperativo globale della decarbonizzazione - posto dalla Commissione Europea - e che contemporaneamente consente di attuare l'imperativo locale della riduzione dell'impatto sanitario e ambientale.
Un bivio per i lavoratori: decarbonizzazione o no?
Se il mondo sindacale continuerà a fare resistenza per conservare la situazione attuale rischia la sconfitta perché dall'altra parte non c'è più solo il movimento ambientalista locale ma un imperativo globale appoggiato ormai da tutti gli economisti più avveduti e, soprattutto, dalla Commissione Europea. Il movimento sindacale, se dovesse difendere la fabbrica attuale, anziché il lavoro basato sulla transizione ecologica, rischierebbe di finire sconfitto come i minatori inglesi che negli anni Ottanta volevano tenere aperte le miniere di carbone.
Non solo. Se i lavoratori europei della siderurgia diventassero oppositori della decarbonizzazione, finirebbero politicamente nelle braccia di un nuovo Donald Trump, che ha fatto della classe operaia il proprio serbatoio di voti portando avanti una difesa intransigente del passato come garanzia del posto di lavoro.
Molto più lungimirante sarebbe una strategia sindacale di transizione ecologica basata sulla giustizia ambientale (non a caso si parla di Just Transition e non solo di Green Transition) che preveda l'utilizzo dei lavoratori in esubero nelle bonifiche ambientali e nelle attività di compensazione delle emissioni di CO2. Immaginiamo se, invece di acquistare certificati verdi per compensare la CO2 dello stabilimento siderurgico, fossero gli stessi lavoratori siderurgici in esubero ad essere protagonisti delle attività green per l'assorbimento della CO2, a partire dal rimboschimento della città di Taranto che è una delle città italiane a più basso indice di verde pubblico per abitante.
La strategia potrebbe essere quella di marcare la tassazione delle attività basate sul carbone per esigere che i frutti della carbox tax servano a una nuova occupazione green dei lavoratori espulsi dalla fabbrica. Da operai destinati a inquinare a lavoratori finalizzati a sanare le ferite di una società ecologicamente compromessa dal carbone.
Un nuovo sindacato, illuminato e lungimirante, potrebbe inserire, fra i propri economisti di riferimento Arthur Cecil Pigou che coniò il principio "chi inquina paga".
Nella storia della siderurgia sono stati effettuati molti tentativi per utilizzare il minerale di ferro per la produzione di acciaio senza passare attraverso il tradizionale processo dell’altoforno con gli impianti a esso collegati, come cokeria e impianto di agglomerazione, tutti a forte impatto ambientale. Uno dei processi sviluppati in tale ottica è quello della riduzione diretta, che consente la trasformazione del minerale in spugna di ferro, chiamata anche DRI (Direct Reduced Iron) se in forma di pellet, oppure HBI (Hot Briquetted Iron) se in pezzatura maggiore. La DRI ha un contenuto maggiore del 90% in ferro metallico e può essere direttamente utilizzata nella carica del forno elettrico, con indubbi vantaggi nella riduzione del contenuto di elementi non desiderati per alcuni impieghi come il profondo stampaggio. La produzione mondiale di DRI è dell’ordine di 60 milioni di t/anno ed è realizzata con i processi Midrex (60%), HyL (20%) e altri diversi sistemi (20%). Sia il processo Midrex sia l’HyL si basano sulla riduzione del minerale di ferro in forni a manica (shaft furnace), mediante gas riducenti prodotti per combustione parziale di idrocarburi gassosi su catalizzatore. Altri sistemi di produzione, come Accar, o SL/RN (Stelco-Lurgi/Republic steel National lead), prevedono invece l’uso di carbone e di forni rotativi. Tali processi hanno trovato sviluppo principalmente nelle aree dove sono presenti giacimenti di minerale di ferro. In alcuni Paesi, piccole quantità di ghisa vengono anche prodotte utilizzando la tecnologia detta smelting reduction (secondo cui la riduzione avviene in due fasi), in sostituzione del processo altoforno. I processi associati, che assumono nomi diversi secondo la tecnica adottata e i brevetti, sono essenzialmente di tre tipi: a forno rotante (Redsmelt), a letto fluido (Finex, DIOS, Direct Iron Ore Smelting), a reattore smelter-converter (Hismelt, Corex, CleanSmelt). Essi sono adottati particolarmente in impianti costruiti nelle vicinanze di giacimenti di minerale di ferro e, nelle più recenti configurazioni, possono produrre fino a 1,5 Mt/anno di ghisa liquida (impianti in Cina, Repubblica Sudafricana e Repubblica di Corea).
Fonte: "ACCIAIO: NUOVA METALLURGIA E NUOVI PRODOTTI"
di Francesco Iacoviello, Renzo Valentini (2010)
Enciclopedia Treccani
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