Il futuro dell'industria agroalimentare in un mondo senza carne
La nuova generazione di aziende che producono carne senza carne è esplicita nella sua ambizione di trasformare il nostro sistema alimentare. Pat Brown, amministratore delegato di “Impossible Foods”, ha dichiarato l’intenzione di mettere fine a tutti gli allevamenti prima del 2035. Ethan Brown (i due Brown non sono parenti), amministratore delegato di “Beyond Meat”, è dell’idea che il lavoro della sua azienda sia quello di creare “la prima generazione di umani che separa l’idea di carne da quella di animale”.
Per quanto ardua possa sembrare l’impresa, non è di certo irrealistico pensare che nell’immediato futuro alcune delle nuove aziende che producono proteine alternative possano incominciare ad assorbire quote dal mercato dei prodotti a base di carne e latticini.
I primi segni di questo cambiamento stanno incominciando a emergere. Stando a un rapporto finanziato dall’USDA [Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti d’America], uno dei fattori del declino nel consumo di latte vaccino potrebbe essere proprio l’aumento delle vendite del latte vegetale (anche se per via del formaggio, il consumo complessivo dei latticini è comunque in crescita). Una nuova azienda israeliana che produce carne in vitro ha appena aperto una struttura pilota che ogni giorno produce 5.000 hamburger cruelty-free. Per quanto riguarda il futuro, secondo l’amministratore delegato della multinazionale della carne di manzo Cargill, in pochi anni la carne a base vegetale potrebbe sottrarre fino al 10 percento all'attuale mercato della carne.
Un futuro prevalentemente a base vegetale sarebbe una conquista per gli animali da allevamento (il 99 percento dei quali viene allevato intensivamente) e per l’ambiente (dato che l’allevamento industriale è una delle principali cause d’inquinamento). Ma si tratterebbe anche di un cambiamento enorme per una grossissima parte dell’economia, e potrebbe portare sconvolgimenti e disordini tra le centinaia di migliaia di produttori agroalimentari e di impiegati nella lavorazione delle carni che si guadagnano da vivere allevando e macellando animali. Che tipo di futuro li aspetta?
Il Breakthrough Institute, un’organizzazione no-profit che promuove lo sviluppo di soluzioni tecnologiche per problemi ambientali, ha di recente condotto una ricerca per provare a rispondere a questa domanda. Nell’inchiesta, dove si interrogano 37 esperti sulle sfide di un possibile futuro a base vegetale, emergono tre tipi di soggetti il cui sostentamento potrebbe essere particolarmente a rischio: agricoltori che coltivano soia e mais per foraggio, allevatori a contratto che allevano maiali o pollame per i giganti della carne, e impiegati negli impianti di lavorazione delle carni. La loro posizione non è diversa da quella in cui circa vent’anni fa si è trovato chi lavorava nel campo del carbone e del petrolio prima che il gas naturale, l’energia eolica e quella solare prendessero il controllo di una grossa fetta di mercato. Nel corso degli anni alcuni di questi hanno intrapreso dei percorsi di formazione per lavorare come tecnici nelle centrali eoliche o per installare pannelli solari, mentre ce ne sono stati altri che non sono invece riusciti a trovare lavoro nel settore dell’energia rinnovabile.
Proprio come è successo nel passaggio all’energia rinnovabile, anche per il settore dell’industria della carne ci sono delle potenziali opportunità. Il report del Breakthrough ha concluso che se l’industria delle proteine alternative alla carne è in grado di implementare in modo significativo sia ricerca e sviluppo che produzione – e le risorse necessarie ci sono – potrebbe svilupparsi un mercato domestico per gli ingredienti utilizzati nella produzione di alimenti a base vegetale, come piselli, avena, fagioli mung e altri legumi alla cui coltivazione alcuni produttori di foraggio potrebbero plausibilmente passare. Gli impiegati nell’industria della carne (anche se probabilmente in un numero minore) potranno comunque dedicarsi alla produzione di hamburger o nuggets a base vegetale.
E alcuni allevatori a contratto che vendono maiali e pollame stanno già provando ad adattare le loro strutture alla coltivazione di canapa e funghi. Ma non si può comunque negare che si andrà incontro a cambiamenti radicali e trasferimenti, e quanto prima i politici verranno a capo di questa transizione in tutta la sua complessità, tanto meglio il paese sarà equipaggiato per affrontarla.
Finora si sono avuti diversi tipi di risultati. Per quanto riguarda la capacità finanziaria non c’è un percorso ben definito che illustri le opportunità che si prospettano per gli imprenditori agricoli e gli ostacoli cui questi dovranno far fronte per uscire dal mercato delle multinazionali della carne. E nemmeno è chiaro quali nuove politiche serviranno per affrontare le inevitabili difficoltà economiche cui si andrà incontro in un ipotetico futuro a base vegetale.
I produttori di soia e mais possono passare a piselli e avena?
Molti dei produttori che si guadagnano da vivere nell’ambito dell’industria della carne di fatto non allevano animali, ma coltivano la soia e il mais usati per il foraggio. Di solito si tratta di processi di lavorazione intensiva, progettati per produrre la più alta quantità di soia possibile per ogni ettaro.
E stiamo parlando di tantissimi ettari. Stando ai numeri dell’USDA, circa 40 milioni di ettari di terra agricola del Midwest sono usati per la produzione di soia. Di questi circa il 38 percento delle coltivazioni di mais e più del 70 percento di quelle della soia vengono destinate al foraggio.
Di per sé i raccolti non creano poi chissà quale profitto, ma i coltivatori di mais e di soia ricevono miliardi di dollari in sussidi federali. Ed è per questo che interferire con il mercato del mais e della soia risulta particolarmente difficile.
La possibilità che questi imprenditori passino con successo a una produzione a base vegetale dipende in parte dal modo in cui i produttori dei prodotti alternativi alla carne si procurano i loro ingredienti. In passato molte di queste aziende hanno prodotto i loro hamburger vegetariani servendosi principalmente di soia e di grano, e molti continuano a farlo anche adesso. Per esempio “Impossible Foods” usa la soia, e anche “Rebellyous Food”, una nuova azienda della zona di Seattle, continua a servirsi di grano e soia per la preparazione dei suoi nuggets vegani.
Christie Lagally, amministratore delegato di “Rebellyous", fa presente per loro questa è una scelta voluta, un modo per riuscire a tenere dei prezzi bassi che possano competere con quelli della carne. Se la produzione di aziende come “Impossible” e “Rebellyous” continua a crescere, e se riescono sottrarre fette di mercato ai colossi della carne, la richiesta di grano e soia potrebbe rimanere stabile, e questa sarebbe un’ottima cosa per chi li coltiva.
Ma se è vero che nel corso degli anni l’industria a base vegetale è cresciuta, si può dire lo stesso anche per la varietà dei suoi ingredienti. Per esempio “Beyond Meat” è priva di soia, e per la produzione dei suoi hamburger vegani ha optato per la proteina del pisello, scelta che ha fatto crescere la domanda di quest'ortaggio. Per la sua alternativa vegetale alle uova il produttore “Eat Just” si serve di fagioli mung. Entrambe le aziende si rivolgono al mercato estero per procurarsi la maggior parte di queste materie prime.
Ma questa è una situazione che alcune aziende e attivisti sperano di riuscire a cambiare grazie alla creazione di più opportunità per gli agricoltori statunitensi che vogliono dedicarsi alla coltivazione di queste proteine. Cargill ha investito cento milioni di dollari in “Puris”, un produttore statunitense di proteine del pisello che si rifornisce da circa quattrocento coltivatori statunitensi.
Carl Jorgensen, un consulente agricolo della Plant Based Food Association, è impegnato in un progetto che mira a incrementare l’inserimento dei contadini statunitensi nel mercato a base vegetale. Jorgensen ha visto come alcuni agricoltori hanno prontamente colto delle nuove opportunità economiche, e pensa che il loro successo potrebbe incoraggiare altri a seguire i loro passi. Secondo Jorgensen “I primi che entrano a far parte di un nuovo campo sono sempre i più flessibili”.
Jorgensen porta l’esempio di Steve Tucker, un agricoltore del Nebraska che coltivava derrate di mais per foraggio. Per derrate agricole si intende qualsiasi tipo di raccolto che si può vendere in un mercato finanziario, come per esempio il Chicago Mercantile Exchange: dato che il produttore non ha voce in capitolo sul prezzo, Tucker era costretto al prezzo stabilito dal mercato. Un giorno, mentre a un convegno agroalimentare ascoltava un relatore che parlava di quello che interessa ai consumatori quando fanno la spesa, ha avuto un’epifania.
Quello che si è chiesto è chi mai gli vietasse di vendere direttamente alle aziende. La maggior parte dei produttori di derrate di soia e mais vendono grandi quantità di un tipo di raccolto che è praticamente identico a quello coltivato dai loro vicini, e lo vendono per un prezzo fisso a impianti di lavorazione industriale nei quali viene poi smistato per i vari utilizzi, come per esempio la produzione di etanolo o di foraggio. Ma Tucker ha capito che con una piccola azienda produttrice di prodotti vegani avrebbe avuto più possibilità di negoziazione. Così ha incominciato ad approcciarsi direttamente alle aziende alimentari mettendo a disposizione il suo terreno per il tipo di coltivazione di cui queste hanno bisogno per i loro prodotti. Oggi, tra le altre cose, coltiva mais da popcorn e ceci, e sta pensando di cominciare coltivare fagioli mung.
Tucker racconta come ogni tanto gli capiti che ci sia qualcuno dei coltivatori suoi vicini che gli domanda cosa stia coltivando: “Gli dico che sono ceci, e che con il commercio di ceci guadagno di più che con qualsiasi altra cosa… e allora sai, la cosa risveglia il loro interesse”.
Ci sono all’opera anche un paio di programmi sperimentali per i produttori di latte vegetale. Per esempio a New York un allevatore che produce latte ha dedicato 3.000 dei suoi ettari alla coltura di avena per “Halsa Foods” (pur mantenendo ancora la sua mandria da latte).
Un allevatore svedese che coltivava avena per foraggio adesso invece la vende a Oatly, e altri dieci produttori agricoli, inclusi due produttori di latte, hanno seguito la stessa strada prendendo parte a un progetto pilota di un anno.
Miyoko’s Creamery, un famoso produttore di formaggi vegani, ha assunto un program manager per guidare il progetto di transizione e per reclutare produttori di latte che possano mettersi a coltivare ingredienti per i suoi prodotti.
Ma per molti coltivatori di foraggio non si tratterà di un cambiamento semplice. L’economia che ruota intorno alla soia e al mais non è nemmeno vagamente paragonabile a quella generata dalla richiesta di piselli (per fare un esempio). I produttori di soia e mais si muovono entro un’infrastruttura economica che include i rapporti con i fornitori di pesticidi e gli investimenti in costose attrezzature per i raccolti e per la semina. Inoltre bisogna tenere in conto la possibilità che questi produttori possano anche non essere interessati a coltivare per l’industria alimentare a base vegetale: quella dei produttori agricoli, come osserva il rapporto fatto dal Breakthrough Institute, è una popolazione tendenzialmente più anziana, e l’idea di cambiare il loro intero sistema di affari potrebbe non sembrargli particolarmente allettante.
Per di più i produttori hanno comunque delle limitazioni geografiche: seppure in certe parti del Midwest i piselli crescono, vi crescono comunque in quantità ridotte rispetto alla soia e al mais. Coltivazioni che richiedono tanta acqua, come per esempio le mandorle, la base più richiesta per la preparazione di latte a base vegetale, crescono soltanto in climi più caldi, come nel sud della California e in Florida.
Se il cibo a base vegetale incomincia a prendere campo nel mercato, i colossi della carne potrebbero essere nella posizione migliore per spingere i loro produttori agricoli a coltivare ingredienti per le loro linee di prodotti vegani. E se questi piccoli esperimenti di Halsa e Oatly continuano ad avere successo, non sarà difficile immaginare che le nuove aziende produttrici di alimenti a base vegetale cominceranno a reclutare sempre più produttori tra quelli connessi all’industria della carne e dei latticini.
Ci saranno meno posti di lavoro, ma sarà un tipo di lavoro più sicuro
Le aziende che producono alimenti a base vegetale come hamburger e nuggets, avranno comunque bisogno di impiegati per la preparazione, e la presenza di nuove strutture nelle aree suburbane e rurali implicherebbe comunque dei nuovi posti lavori. Nel 2018 “Beyond Meat” ha aperto il suo secondo impianto di produzione a Columbia, nel Missouri, e l’anno successivo “Eat Just” ha acquisito una struttura ad Appleton, nel Minnesota.
Come hanno fatto notare alcuni esperti intervistati nel rapporto del Breakthrough Institute, la lavorazione delle proteine alternative tende a essere più automatizzata. In particolare, come osserva Lagally (Rebellyous Foods) non ci sarà niente che somiglia alla parte più pericolosa e difficile del lavoro di macellazione, ovvero il processo iniziale che rimuove la carne dalla carcassa dell’animale. Nella struttura di "Rebellyous Food", che Lagally mi ha mostrato su Zoom, i lavoratori non devono dismembrare nulla. Piuttosto quello che fanno è l’opposto, ovvero mettono la soia e il grano in un mixer industriale per formare dei nugget pronti da impanare e friggere. E la squadra di Lagally sta lavorando a un sistema per automatizzare ulteriormente il processo.
È vero che per via di questa automazione le strutture in questione offriranno meno posti di lavoro, ma è anche vero che potranno esserci nuove opportunità per la manutenzione e l’assistenza tecnica di queste macchine più avanzate: questo sempre se l’industria sarà disposta a investire in programmi di formazione.
Il cammino incerto degli allevatori a contratto di polli e di maiali
Molta della carne che mangiamo è allevata a contratto, stando ai numeri dell’USDA si tratta di circa il 60 percento di maiale e quasi il 90 percento di pollame e uova. Dato che nel mercato agroalimentare guadagnarsi da vivere a contratto può essere difficile e rischioso (se ne parlerà più avanti), alcuni stanno già provando la transizione alla coltura di vegetali. Ma anche uscire da questi rapporti comporta i suoi rischi.
A differenza degli agricoltori da foraggio, che hanno a che fare con centinaia o migliaia di ettari di terreno, molti degli allevatori a contratto lavorano invece con dei grandi capannoni industriali climatizzati dove allevano maiali e polli. Questo limita molto le loro possibilità di svolta. Una possibilità potrebbe essere quella di continuare ad allevare animali, ma garantendo condizioni di benessere migliori, per esempio scegliendo razze tradizionali che non sono state progettate per diventare particolarmente grosse in poco tempo, e modificando i capannoni per fargli avere più luce, più spazio e l'accesso a uno spazio esterno.
Un’altra possibilità è quella di abbandonare del tutto l’allevamento degli animali. Alcuni hanno lasciato alle spalle la carne – sia quella degli animali che le sue imitazioni – e hanno incominciato a dedicarsi ad altro, come per esempio funghi, coltivazioni idroponiche di microverdure e canapa industriale.
Ma come fa osservare Jeri Devereaux, una consulente aziendale vegana che lavora con i produttori agricoli per portare a termine questo tipo di transizioni, riuscire a convertire i capannoni destinati all’allevamento di polli in luoghi in cui coltivare la canapa o i funghi richiede una progettazione dettagliata. Per esempio non ci si può permettere di avere buchi nei pavimenti, perché questi potrebbero interferire con le delicate condizioni climatiche che servono per la coltivazione dei funghi.
Un’altra delle principali sfide per una svolta del genere è che l’industria a base vegetale non può avere lo stesso livello di prevedibilità offerta dal mercato della carne a contratto. Quando si tratta di polli, basta allevare allo stesso modo un solo tipo di “prodotto” (1) e venderlo a un acquirente certo. Il mercato delle alternative alla carne, siano esse canapa, funghi o microverdure, presenta comunque un grado maggiore di incertezza.
Come osserva Leah Garcés (presidente dell’associazione no-profit per i diritti degli animali “Mercy For Animals” e ideatrice del “Transfarmation Project”, nato nel 2019 per aiutare gli allevatori a contratto al passaggio alla coltivazione di prodotti vegetali) nel caso dei funghi i piccoli produttori potrebbero vendere ai ristoranti locali e ad aziende che producono proteine vegetali per frullati. I produttori di canapa possono coltivare per usi industriali (ad esempio per la produzione di corde) o per chi produce prodotti a base di CBD, ma nel loro caso c'è anche il rischio di perdere il raccolto nel momento in cui gli ispettori federali dovessero trovare un livello troppo alto di THC nelle piante.
Ma il limite più grande di fronte a cui si trovano i produttori a contratto che vogliono cominciare una nuova attività è di natura finanziaria. Per poter costruire i capannoni industriali che servono all’allevamento di polli destinati a una grossa azienda (come per esempio la multinazionale Tyson) si fanno prestiti di centinaia di migliaia di dollari, a volte anche milioni. Per qualcuno non è affatto facile saldare questo debito, a maggior ragione se si considera che più o meno ogni dieci anni le aziende dei colossi della carne richiedono dei costosi rinnovamenti. In più, se capita che uno o più gruppi di polli si ammalano, il rischio è quello di rimanere indietro con il ripagamento del prestito e di restare intrappolato in un circolo di debiti.
“Avremo bisogno di un grande cambiamento delle politiche”
Questo eccesso di debito potrebbe finire con l’essere cruciale nel determinare che posto avranno i produttori di oggi in un futuro a base vegetale. Garcés per esempio crede che il primo passo fondamentale sia la cancellazione del debito, e aggiunge che per questo primo passo “avremo bisogno di un grande cambiamento nelle politiche”.
Questo grande cambiamento potrebbe essere la Farm System Reform Act [Riforma del sistema dell’allevamento], avanzata per la prima volta nel 2019 dal Senatore Cory Booker (New Jersey) e poi nel 2020 da Ro Khanna, rappresentante dello stato della California alla Camera dei Rappresentanti: il mese scorso entrambi hanno reintrodotto la proposta di legge. Questa riforma si propone di mettere una moratoria sulla costruzione di nuovi stabilimenti intensivi, di chiudere prima del 2040 quelli già esistenti, e di istituire un fondo annuale di 10 miliardi di dollari per aiutare gli operatori agricoli nella transizione verso standard migliori di allevamento, nella coltivazione di colture speciali, oppure nel ripagamento del loro debito. Non sembra ci siano molte possibilità che la riforma venga approvata a breve termine, ma è fondamentale che i politici incomincino a discuterla adesso.
Secondo Newton and Blaustein-Rejto il governo potrebbe aiutare con degli altri incentivi, come per esempio sussidi e detrazioni fiscali per la salvaguardia del territorio in uso, inclusa la rinaturalizzazione di alcune sue parti.
Sebbene la prospettiva di smantellare l’economia delle multinazionali della carne negli Stati Uniti sembra particolarmente difficile, la storia ci mostra che i grandi cambiamenti sono invece possibili. Per esempio, quando nel XIX secolo gli agricoltori hanno lasciato il New England, una parte dei territori è tornata alla foresta. Molto più di recente nell’industria dell’energia solare ed eolica si è verificata una crescita costante dei posti di lavoro, mentre invece quelli nell’ambito del combustibile fossile sono adesso in declino. Alcuni ex impiegati del mercato petrolifero sono riusciti a trovare lavoro nel campo dell’energia rinnovabile, e ci sono alcuni ex impiegati nel settore del carbone che stanno acquisendo le competenze necessarie per nuovi lavori nel campo dell’agricoltura sostenibile e dell’energia rinnovabile.
Sta al governo decidere le sorti di questa transizione: il numero di nuovi impieghi nel campo dell’energia rinnovabile è sceso per la prima volta dal 2015, ma il settore potrebbe riprendersi con delle politiche di creazione del lavoro sia a livello statale che federale. Non ci sono certezze a questo punto, ma la cosa importante è che in un futuro a base vegetale esistono dei percorsi possibili per chi lavora con gli allevamenti industriali. È importante che la politica incominci a guardare oltre l’orizzonte in modo che possano venire a galla ancora altri aspetti di questa faccenda.
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