Perche' marciamo da Perugia ad Assisi

8 maggio 2002
Francesca Ciarallo, Giovanni Grandi


"Qui ogni cosa sembra inutile ma ogni cosa si deve provare: è fondamentale non rimanere fermi". Sono le parole che il Patriarca latino, Michel Sabbah, ci ha detto due settimane fa a Gerusalemme, quando, abbattuti nel nostro sentirci tanto impotenti, gli abbiamo chiesto "cosa possiamo fare?" L'attenzione sul conflitto in Israele/Palestina sta lentamente affievolendosi sui mezzi d'informazione, dopo un overdose dovuta soprattutto al dilagare della violenza. "Israele si ritira, la situazione si normalizza", questo sembra essere l'attuale messaggio mediatico. Perfino Arafat è di nuovo un "uomo libero", e il mondo occidentale prepara l'ennesima conferenza di pace... Si può tirare un sospiro di sollievo ? Ma la realtà, testimoniata quotidianamente da tutti i volontari internazionali che si trovano lì, è un'altra.

Solo per fare qualche esempio: da circa venti giorni l'Idf (Israeli Defence Force) sta chiudendo e mettendo sotto coprifuoco una parte di Gerusalemme Est, (i quartieri/villaggi di Al-Asawaya, Beit Hanina, Abu Deis, Al-Azarraha e altri) con il motivo formale di rastrellare la zona alla ricerca di terroristi, ma con lo scopo reale, neanche troppo mistificato, di sfollare la popolazione araba della città, distruggendo alcune case e lasciandone in piedi altre perché vengano occupate da coloni. Da anni non veniva imposto il coprifuoco su quartieri di Gerusalemme. L'invasione di Hebron è stata liquidata dai nostri giornali con la formula "incursioni israeliane per arrestare terroristi". Ad un osservatore un po' più attento non sfugge che il pacifismo, soprattutto di parte israeliana, non è mai stato così fervente.

Scorrendo le pagine web dell'organizzazione pacifista Gush Shalom (http://www.gush-shalom.org) si scopre che le mobilitazioni hanno cadenza quasi giornaliera. "Il massacro di Jenin esige verità e giustizia", ha urlato sabato 27 aprile Uri Avnery, uno degli uomini-simbolo della protesta israeliana, da un'affollata piazza di Tel Aviv. Il fatto che, all'apparenza, una fase di violenza cruenta si stia concludendo, non deve tranquillizzarci, non possiamo sentirci autorizzati a distogliere la nostra attenzione. "Normalizzazione" in Terrasanta vuol dire sfacciata colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi, umiliazioni continue ai check point, e vuol dire anche città israeliane nel terrore degli attacchi kamikaze. La comunità internazionale, in primis l'Unione Europea, ha dimostrato tutta la propria inettitudine. L'assenza di un progetto politico e di una modalità efficace di intervento nel conflitto da parte dei governi occidentali sono tra le cause di questa "crisi infinita". La logica del più forte è l'unica risposta accettata e legittimata, la prova di ciò è che l'"unica democrazia del Medio Oriente" si fa beffa di tutti i principi delle Nazioni Unite, degli appelli del Papa, e l'Unione Europea non ha neanche il coraggio di sospendere l'accordo di associazione con Israele, perfino nella lampante evidenza delle violazioni dell'art 2 dello stesso. In questo scenario è doveroso ricordare che una piccola parte della società civile internazionale (tra cui degli italiani) è riuscita a rompere il silenzio sui reali drammi dei popoli palestinese e israeliano, al di fuori della logica delle diplomazie ufficiali e in disobbedienza alle disposizioni dell'esercito israeliano. Queste persone hanno saputo portare sollievo e soprattutto un seme di speranza alle popolazioni assediate delle città e dei campi profughi palestinesi, e hanno dato un'informazione alternativa alla propaganda. Ma tutto ciò non basta per fermare la guerra.

E' necessario che ognuno di noi provi tutte le strade per diventare protagonista della politica e dell'azione diretta a favore della pace. In Italia la Perugia/Assisi, proprio nello spirito di Aldo Capitini, suo ideatore, è sempre stato uno dei pochi momenti fondanti di tutti i gruppi impegnati nella costruzione di iniziative e di una cultura di pace dal basso. Alla marcia della pace del 12 è importante ritrovarsi per ascoltare chi in Israele e Palestina chiede da anni pace e giustizia. E' proprio in momenti del genere che la marcia ritrova la sua forza, divenendo così azione diretta e nonviolenta rispetto a obiettivi precisi: la fine dell'aggressione israeliana nei Territori Occupati, la fine del terrorismo, l'attuazione concreta da parte dell'Europa di quei valori di democrazia e umanità di cui sono piene le Costituzioni, il sostegno all'Onu per la conquista di una effettiva autorevolezza internazionale. Certo partecipare ad una marcia può sembrare gesto da poco, forse inutile. Noi però vorremmo dare significato a questa presenza, per toccare con mano l'efficacia che potrebbe avere la diplomazia del basso, l'inizio di un cammino per una forte pressione internazionale.

A livello personale, partecipare vuol dire non dimenticare il grido di tanti amici palestinesi, nei cui sguardi abbiamo visto solo disperazione. Il grido di Noah, professore universitario di Betlemme, che sbattendo sul tavolo di fronte a noi la carta delle Nazioni Unite ci chiede "E ora cosa insegno io ai miei ragazzi? Queste menzogne?" Quello di Abdel, medico del campo rifugiati di Aida, quando sotto coprifuoco non ci permette di rifiutare il suo pasto spartano, e ci dice "Non vogliamo soldi, non vogliamo cibo, vogliamo smetterla di essere schiacciati come mosche, che ci sia riconosciuto lo status di esseri umani". O di tutti i bambini incontrati al Mohaian Jenin il cui unico sogno ora è quello di farsi scoppiare, diventare dei martiri. E delle loro madri, che non si sentono capaci di proteggerli.

O ancora il grido di amici israeliani. Di Sergio Yahni, che è appena uscito di prigione e il giorno dopo durante una manifestazione al check point di Salem, sulla strada per Jenin, ci racconta entusiasta di come in prigione con gli altri "refusenik" abbia cercato di lanciare una campagna di sensibilizzazione contro l'occupazione israeliana. Di Adam Keller, alla cui madre, reduce dalla Shoah, lui deve "Tutto, ma proprio tutto quello che sono" e che ci dice quanto sia duro l'isolamento di un pacifista israeliano, e ciononostante sfida il coprifuoco a Ramallah gridando alla gente prigioniera nelle proprie case "Sono ebreo ma sono vostro fratello!"? E tante altre storie ancora, storie di persone che forse la Storia, quella con la S maiuscola, non scriverà mai. Ma noi possiamo e dobbiamo farlo.

La stessa Storia che alla data 28 settembre 1995 scrive "Firma a Washington degli accordi di Oslo" ma dimentica di consegnarci (nella forma e nella sostanza) le parole che allora pronunciò Yitzhak Rabin: "Per ogni cosa c'è una stagione e un tempo per tutti gli scopi sotto il cielo. Un tempo per nascere e uno per morire, un tempo per uccidere e uno per sanare le ferite, un tempo per piangere e uno per ridere. Un tempo per amare e uno per odiare. Un tempo per la guerra e uno per la pace." Quanto vogliamo farlo ancora aspettare il nostro tempo?

Note: Francesca Ciarallo, Giovanni Grandi - PeaceLink - Papa Giovanni XXIII
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