La sicilia di Rita Borsellino

Generazioni antimafia

Dopo "il partito di Falcone e dei ragazzini", e l'esperienza della "Rete", questa è la terza generazione del movimento antimafioso.
7 dicembre 2005
Riccardo Orioles (Giornalista indipendente - fondatore de 'I Siciliani' e 'Avvenimenti')

Riccardo Orioles, giornalista antimafia

Questa è la terza generazione del movimento antimafioso. La prima, a metà Ottanta, era "il partito di Falcone e dei ragazzini". La seconda, primi anni Novanta, fu quella che poi confluì nella Rete. Questa terza, che andava crescendo - per chi voleva vederla - da quasi due anni, si aggrega attorno all'associazionismo "apartitico", in particolare Libera e l'Arci. Rispetto alle prime due, è cresciuta meno nel dramma e più nel lavoro quotidiano. Il suo capolavoro non è una fiaccolata o un corteo ma la paziente, e vincente, opera per la gestione sociale dei beni sequestrati ai mafiosi. A poco a poco, con cifre piccole ma via via sempre più consistenti, ha tradotto in realtà visibile la grande intuizione degli anni Ottanta ("I Siciliani", il Centro Impastato) secondo cui il sistema mafioso, meccanismo non eversivo ma di classe e di potere, si batteva essenzialmente con la mobilitazione sociale. E questo, essenzialmente, è il filo di tutti questi vent'anni.

Sia i "vecchi" che il nuovo movimento antimafioso sono cresciuti essenzialmente fuori dai partiti. All'inizio era ancora fortissimo (la prima manifestazione per dalla Chiesa partì dalla Fgci di Palermo) il peso della tradizione comunista, che però non coincideva esattamente con quella del partito nazionale (Licausi e Togliatti non erano la stessa cosa); la "politica" e il "partito" furono assunti dunque nei loro aspetti migliori, abbastanza marginali rispetto alle tendenze "modernizzatrici" del resto della sinistra italiana.

La Rete fu un partito, sì, ma alle origini non voleva esserlo affatto: piuttosto una spece di confederazione fra una serie di realtà di base, espressioni spontanee della "società civile", con una forte partecipazione di cattolici (che proprio in quel momento cambiò il baricentro della politica italiana). Di solito, quando si parla - fra "vecchi" - della Rete, la nostalgia riguarda quel momento fondante, e non l'infelice esperienza del vero e proprio partito, travolto da innocenti (ma pestifere) ambizioni personali e da un'ingenuo desiderio di farsi "riconoscere" a tutti i costi dalla politica ufficiale.

Alla fine, coi leader in lite per le candidature e i militanti ormai privi di timone, proprio a Palermo il candidato della destra (un vecchio arnese dell'estremismo fascista, Lo Porto) battè pesantemente il candidato della Rete, l'anziano e rispettatissimo giudice Caponnetto. La crisi era morale, e profonda; e non riguardava non tanto i politici quanto il rattrappirsi civile della popolazione. La Rete tuttavia, e il movimento antimafioso di cui essa era in gran parte rappresentante, non si era attrezzata nè politicamente nè culturalmente ad attraversare questo riflusso. E collassò.

La fine della Rete (il nuovo Ds non essendo neanche lontanamente all'altezza dei vecchi "communisti") lasciò campo aperto al tipico riflusso ciclico della storia siciliana. Fallito Garibaldi (o Spartaco, o Giuseppe Alessi, o Licausi, o Orlando) l'ordine torna indiscusso e più feroce di prima. Pochi resistono, molti si chiudono nel privato, e la massa dei "sorci" torna a galla. Tale è la folla dei postulanti davanti al palazzo del nuovo vicerè, Cuffaro, che a un certo punto costui è costretto a dileguarsi attraverso l'antico sotterraneo costruito, nel palazzo reale, dai vecchi vicerè spagnoli. Resistono, nelle città e nei paedsi, gruppi isolati di militanti. Resistono, apparentemente, più per dignità e per morale che per realismo. Eppure, anche questo sarebbe stato giustificato: il movimento antimafioso, cioè della redistribuzione dei poteri in Sicilia, aveva toccato corde tanto profonde, aveva lanciato - con tutti i suoi limiti - un messaggio tanto radicale, da rendere assolutamente impossibile cancellarlo del tutto. Alla sua cancellazione dala vita pubblica (per opera della destra, ma con la complicità di quasi tutta la sinistra ufficiale) corrispondeva anzi forse un suo più doloroso radicamento nella coscienza individuale.

Rita Borsellino La crisi Borsellino, adesso, è stata rapidissima. La destra andava verso una rapida e indiscussa vittoria elettorale (con l'unica incertezza sulla ripartizione dei posti fra destri puri (Cuffaro), destri frondisti (Lombardo) e centristi da acquisire in corso d'opera (Bianco), e si adoperava anzi per anticipare il più possibile la data delle elezioni. La sinistra ufficiale, reduce da sconfitte elettorali una più disastrosa dell'altra, proponeva affannosamente improbabili candidature di notabili, presentatori tv, padroni di distillerie e chi più ne ha chi ne metta: buio fitto. Improvvisamente, prima dall'Arci e da Libera e poi ripresa dal "pool" dei piccoli partiti, spunta la parola d'ordine: "Borsellino". E altrettanto improvvisamente torna il sole. I militanti si mobilitano, la gente ricomincia a parlare di politica, la destra comincia a sollevare eccezioni sulle regole del gioco. Quella che sembrava una pacifica elezione di provincia diventa improvvisamente una scadenza politicca mimacciosa e centrale, un caso Vendola moltiplicato per dieci.

Miracolosamente (o forse no: poiché nel Dna della nostra sinistra c'è anche questo sapersi sollevare al di sopra delle proprie miserie nei momenti cruciali) i leader tradizionali della sinistra, dapprima impappinati e confusi, stanno al gioco; i vari notabili fanno atto di sottomissione u no dopo l'altro. In questa fase è decisivo il ruolo di Claudio Fava, Leoluca Orlando e Beppe Lumia, i capi storici (veramente un po' logori) dell'antimafia dei partiti. Improvvisamente, ritornano i capipolo della loro bella stagione: appoggiano la Borsellino loro forze, lasciando anche capire che se i partiti non ci staranno andranno avanti da soli. Intanto, in tutta l'isola, i comitati pro-Borsellino spuntano come i funghi. Il resto è storia di ora. Si comincia a parlare - in pochi: ma se ne parla - di un governo regionale non bilanciato fra notabili di partito ma esemplarmente composto da tutti i capi riconosciuti dell'antimafia vecchia e nuova: da Orlando a Fava, da Tano Grasso alla Siracusa, da Lumia a Umberto Santino, tutti umilmente e orgogliosamente "comisarios" di un governo che in quel momento cesserebbe di appartenere a una sola regione per diventare prefigurazione ed esempio su scala nazionale.

* * *

E adesso? Fino a una settimana fa, bisognava parlare bene degli antimafiosi - del loro entusiasmo, del loro coraggio, del loro ostinatissimo rifiorire nelle condizioni più avverse - e dei più giovani specialmente, un vero dono di Dio a questa Sicilia dalla memoria lenta. Adesso però, adesso che - ecco, ora osiamo screiverlo - forse si vince, è il momento di dare uno sguardo severo, di cercare di individuare il più impossibile i punti di debolezza, quelli che ci hanno fatto perdere l'altra volta (qualcuno deve pur farlo, e tanto di laudatori *adesso* ce n'è più che abbastanza). Il primo problema riguarda la mancanza di disciplina, di organizzazione e di coordinamento. I comitati sono sorti dappertutto, e hanno lavorato benissimo, ognuno nella sua zona. Ma questo non basta. E' bastato per vincere le primarie, probabilmente basterà per vincere le elezioni, ma non basterà assolutamente per governare.

Per governare - per governare davvero, per *rivoluzionare* - ci sono tutte le forze tranne quella, culturale ed etica, che nei decenni crea il common sense politico e l'organizzazione. Non bastano i sostituti: non basta - non basterà - affidarsi alle strutture (peraltro mediocri) dei partiti ufficiali, non basterà neanche ripetere l'errore della Rete e tentare, in mancanza di meglio, un ennesimo partito tradizionale. No. L'organizzazione politica nuova, che per vent'anni è stata in maturazione e di cui si riscontrano finalmente le condizioni, deve sorgere qui e ora. Non un altro partito, non contro i partiti, non al rimorchio dei partiti ma una rete, flessibile e complessa, egualitaria e competente, di cittadini profondamente pari fra loro, senza famiglie di notabili, senza palazzi.

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