C’è chi dice NO, ma sa spiegare anche il perché...
Tra pochi giorni (il 25 di giugno) ricorrerà il sessantesimo anniversario dell’insediamento dell’Assemblea Costituente. Per una singolare coincidenza in quello stesso 25 giugno, sessant'anni dopo, gli Italiani saranno chiamati ad esprimere con il referendum un giudizio su una riforma costituzionale. Il popolo è chiamato ad esprimersi sulla possibilità che la Costituzione debba, o meno, essere modificata nel suo DNA. E’ una severa responsabilità.
Essa fu costituita dai padri della Patria e il criterio adottato fu veramente quello del buon padre di famiglia. Le generazioni che la fecero propria non hanno mai ritenuto di modificarla, pur ammettendo che qualche ritoccatina, qualche restyling per mantenerla al passo dei e coi tempi, potrebbe anche non guastare. Il suo articolo 138 è più che sufficiente per apportare qualche cambiamento. Non è indispensabile stravolgere la sua natura come verrebbe a farsi omologando la riforma “creata” da quattro esponenti della maggioranza passata. Ma andiamo con ordine. Questo è il pensiero delle generazioni passate.
Che ne pensano ora i giovani italiani, quelli che proseguiranno la nostra storia, quelli ai quali ora viene proposto se continuare a cibarsi del frutto dei vecchi saggi, come hanno fatto i loro padri, o sostituirlo con altro cibo, che, allo stato delle riforme proposte, non possiede ancora prova organolettica? Abbiamo pensato dunque di intervistare uno di questi giovani. Ecco cosa ci ha insegnato.
“Andrea, tu frequenti giurisprudenza, leggi parecchio, hai molti interessi: spaziano dalla politica alla musica, dal cinema allo sport, un po’ tutto, alle serate con gli amici. Il 25 prossimo sarai chiamato a dire la tua sulla nostra Costituzione. La esprimerai con un no o con un si. Prima di dirci come ti esprimerai, raccontaci ciò che sai e, dunque, da cosa è mossa la tua decisione.
Il sistema delineato dalla Costituzione del 1948 derivò da un compromesso tra forze politiche democratiche che, poi, hanno anche combattuto aspre battaglie fra loro, ma che sono state in grado di condividere un sistema di valori che ha retto la nostra Repubblica per sessant'anni senza mai essere messo in discussione finora. Si dice talvolta, a supporto delle ragioni del Sì ma anche di un'eventuale successiva modifica della Costituzione, che i tempi sono mutati e che la Carta fondamentale non è più in grado di rispondere alle esigenze della vita istituzionale della nostra Repubblica. Che ne pensi in merito?”
R. Questo si dice, anche pensando alla logica bipolare che ha (avrebbe) preso piede a partire da una semplice modifica in senso maggioritario della legge elettorale e che ha (avrebbe) dato vita a una 'seconda Repubblica'. Ciò potrebbe anche essere in parte vero, però attenzione. Il passaggio da una forma di governo all'altra richiede, semmai, prima una ponderata riforma costituzionale, poi tutto il resto: non ci si lascia trascinare dalle riforme elettorali, ma al più si adatta il sistema elettorale al sistema di equilibri delineato dalla Costituzione. Inoltre non è affatto detto che il nuovo sistema di alternanze di governo sia preferibile in assoluto. Negli ultimi anni del pentapartito non c'era (come da tradizione) alcuna stabilità di governo, tuttavia esisteva comunque una profonda stabilità politica. Il quadro attuale invece è complicato da una dolorosa contrapposizione fra le due anime del paese, che il centrodestra attribuisce all'avvento di Mani Pulite e il centrosinistra a quello di Berlusconi, e che si è tradotta in una tendenza delle maggioranze alle prove di forza e alla prepotenza istituzionale.
Ciò è evidente fin dal 1994 nell'elezione delle alte cariche dello stato (particolarmente i presidenti delle due camere), che fa gridare all'occupazione delle stesse, alternativamente, i due schieramenti. Ma è evidente soprattutto nelle modalità di esercizio del potere legislativo ed esecutivo, e (proprio) nella totale incomunicabilità che caratterizza l'approccio alle maggiori riforme. Chi è al governo agisce a colpi di maggioranza, chi è all'opposizione subisce in attesa di ribaltare tutto alla prima occasione. Questo processo ha fatto timidamente capolino nella XIII legislatura (centrosinistra), dove pure si è riformata (in parte) la Carta fondamentale senza consultare l'opposizione, ed è sfociato prepotentemente nella XIV (centrodestra), dove lo schieramento prevalente poteva contare su una blindatura assoluta grazie alla forte maggioranza parlamentare conquistatagli dal voto.
Un grave rimprovero dev'essere mosso alla maggioranza Prodi-D'Alema-Amato per aver dato occasione alla maggioranza Berlusconi di procedere a una profonda revisione costituzionale non condivisa. Gliel'ha data, sì: creandone i precedenti, che poi sono stati puntualmente rinfacciati dal centrodestra alla sacrosanta obiezione che 'le riforme si fanno insieme'. Va comunque dato atto al centrosinistra di aver fatto autocritica per questa mossa infelice nel programma con cui si è presentato alle elezioni del 2006. La condivisione è, insieme all'attenta riflessione di tutte le forze politiche, il presupposto di una buona riforma. L'assemblea costituente impiegò un anno e mezzo, dando feroce battaglia sui singoli articoli, per partorire ex novo una Carta che, bene o male, ha impedito qualsiasi scossone alla nostra democrazia: sia allora, che era fragile, sia in seguito, per tutto questo tempo. E realizzò, l'assemblea, una convergenza di posizioni che agli occhi di noi italiani del XXI secolo, incredibilmente tornati a una grossolana, preistorica tifoseria politica, apparirebbero inconciliabili. Ben diversamente hanno agito il legislatore del 2001 prima e, soprattutto, quello del 2005 poi. Soprattutto il legislatore del 2005, perché la sua non è una riformina qualsiasi, ma cambia del tutto la nostra forma di governo.
Si dice che la 'riforma' non toccherebbe la prima parte della Costituzione e non sarebbero perciò in questione i diritti dei cittadini. Si evidenzia, al contrario, un preciso rischio al riguardo. Per chiarirlo prendiamo un esempio, l'art. 13 (libertà personale).”La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Nessuno, a norma della Costituzione, può essere oggi sbattuto in galera senza a) decisione del giudice (riserva di giurisdizione) e b) previsione del legislatore (riserva di legge). Lasciamo stare la riserva di giurisdizione e concentriamoci su quella di legge. La Costituzione vuole che la nostra libertà possa essere limitata soltanto in forza di un atto che promana dai rappresentanti del popolo, cioè dal parlamento (la legge appunto); non invece dal governo, che non rappresenta il popolo ma è solo espressione della maggioranza parlamentare.
Ora, il legislatore del 2005 ha proceduto alle sue 'riforme' in modo unilaterale, a maggioranza: per poter farlo ha creato una prassi basata sulla questione di fiducia. Si pone la fiducia (che, come noto, è un 'ricatto' del governo: o si approva la legge o si va in crisi, e magari si sciolgono le camere) e il parlamento nemmeno discute, ma approva senza fiatare. Una simile prassi, in sostanza, permette al governo di fare direttamente la legge. Il parlamento si limita a sottoscrivere, con buona pace di tutte le riserve contenute nella prima parte della Carta costituzionale, che non sono poche e che stanno lì a garantirci. Il singolare meccanismo di 'fiducia' delineato dalla 'riforma' non fa che rafforzare questa tendenza. Altri due concetti: quello di Costituzione formale e quello di Costituzione materiale. Una cosa è il documento scritto, altro la sua attuazione. Non è detto che la Carta risolva i problemi una volta per tutte, anzi spesso, inevitabilmente, delinea un 'progetto' che il legislatore deve poi perseguire, attuando i valori costituzionali. Prendiamo un altro esempio, l'art. 3 (principio di uguaglianza ) “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del nostro Paese”
Al costituente del 1948 era ben chiaro che esistevano ostacoli economici e sociali che impedivano il realizzarsi dell'uguaglianza fra i cittadini, e che questi non potevano essere rimossi con un colpo di bacchetta magica, ma doveva farsene carico il legislatore. Questo processo è ancora in atto, non definitivamente compiuto, tanto che si discute continuamente di diritti delle donne, dei gay, delle minoranze religiose e simili. Un processo dunque lungo e difficile.
Allora qual è il rischio di modificare la Costituzione avventatamente e senza neanche consultare la controparte? Il rischio è appunto che ciò che i padri della Repubblica hanno costruito lungo molti mesi, e che spesso non si realizza dall'oggi al domani ma faticosamente nel corso di moltissimi anni, venga di colpo annullato e - quantomeno - fatto ricominciare da capo, con leggerezza, da quattro gatti (che nel nostro caso hanno anche un nome: Calderoli, D'Onofrio, Nania e Pastore).
È chiara comunque una cosa: una così profonda revisione della Costituzione dev'essere molto, molto ben studiata; e da questo processo non dev'essere escluso il popolo, che svolge l'estrema funzione di controllo nel procedimento, con il referendum.”
D. “ Le tue sono espressioni forti, ma si avverte la passione, la volontà di capire e di fare capire. Ti sembra che l’informazione si stia comportando allo stesso modo?”
R. “ Non ho questa sensazione. Già nel 2004 il senatore Calvi e altri denunciavano l'assoluto silenzio dei media sulla 'riforma'. Silenzio perdurante tuttora. Vale dunque la pena di rompere questo silenzio e di approfondire la questione sul piano del contenuto”
D. “ Ecco il punto. Che succede se vincono i Si? Ci dicono che il Si toglierebbe di torno ribaltoni, inciuci e ammennicoli vari.
R. “ Spesso si chiede di semplificare cosa succede se vince il Sì, cosa se vince il No. In realtà non è affatto facile dire in due parole - ma anche prevedere esattamente - cosa succederà in caso di vittoria del Sì. Certamente sappiamo che se vince il No resta in vigore un sistema testato da anni e anni di vita istituzionale. Il Si è un salto nel buio.
Seppur importante (e inquietante), l'aspetto della cosiddetta 'devolution', vero e proprio pegno pagato alla Lega Nord e probabile (si spera) cavallo di Troia a favore del No, è davvero il minimo.
(La devolution stabilisce che sono largamente aumentati i poteri delle Regioni: promozione internazionale, politica monetaria, polizia amministrativa, tutela della salute, sicurezza alimentare , reti di trasporto e di navigazione, ordinamento delle professioni, ordinamento sportivo, produzione dell’energia, emittenza radiotelevisiva regionale, potestà legislativa esclusiva nell’assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica e definizione dei programmi scolastici. N.d.r.)
Il dato più preoccupante viene invece dalla forma di governo che verrebbe a crearsi: un premierato forte che ha pochissimi riscontri, se non nessuno, nelle grandi democrazie. Tutto in mano al primo ministro: un vero e proprio capo del governo e non più un “presidente del consiglio”.
Il potere di scioglimento delle camere dipenderebbe da questi, esautorato il presidente della Repubblica ( il Presidente della Repubblica non avrà alcuna voce in capitolo, nemmeno formale. Se è pur vero che anche oggi non ha poteri sostanziali, ma nomina sia il primo ministro che i ministri, e ricordiamo che nel passato - lo ha fatto Pertini, lo ha fatto Scalfaro - ha scoraggiato le nomine indecenti, come quelle di persone indiziate di reati, dopo la riforma non potrà fare nemmeno questo N.d.r). La sorte del parlamento (che, ripeto, rappresenta il popolo) verrebbe quasi inscindibilmente legata a quella del governo (che non lo rappresenta), attraverso un arzigogolato meccanismo di 'fiducia/sfiducia' che permetterebbe all'esecutivo di restare in carica alla faccia dell'opposizione e magari della sua stessa maggioranza; oppure di travolgere con sé le camere, sottoponendole così a costante 'ricatto'. Nel nostro ordinamento attuale il governo deve avere la fiducia delle camere, cioè quella di noi cittadini. E nelle camere sono comprese maggioranza e opposizione, cioè tutti noi. Con la 'riforma' verrebbe a delinearsi un sistema in cui il capo del governo può essere, sì, sfiduciato dalle camere, ma a costo dello scioglimento di esse! A meno che non sia la maggioranza della sua maggioranza a indicare un nuovo premier, ma ciò è molto difficile. Insomma: un Prodi, oggi, potrebbe essere sostituito, ma solo se ciò sta bene alla maggioranza del centrosinistra. Che il centrodestra non voglia Prodi non conta nulla. Lo stesso varrebbe a parti invertite. Queste sarebbero le norme 'antiribaltone': chi piazza le terga sulla poltrona non le sposta più! Ma scherziamo?
In nessuna delle grandi democrazie mondiali gli equilibri sono così falsati. Nemmeno, per citare esempi, in Francia e negli Stati Uniti, dove vigono forme di governo presidenziali (o semipresidenziali) e i poteri del capo di stato/capo di governo sono particolarmente intensi. Se esaminiamo queste realtà da vicino ci accorgiamo che tanto il presidente della Repubblica francese quanto il presidente degli Stati Uniti non sono affatto sicuri di disporre della maggioranza parlamentare. In entrambi i paesi possono realizzarsi 'coabitazioni': Chirac, gollista, potrebbe ritrovarsi un parlamento a maggioranza socialista; Bush, repubblicano, un congresso in prevalenza democratico. In questi casi in Francia la funzione del presidente della Repubblica (che non è contemporaneamente capo del governo) tende ad avvicinarsi a quella del capo dello stato italiano, non potendo più disporre di un premier dello stesso partito. Anche negli Stati Uniti la coabitazione non dà luogo a ingovernabilità, perché non esiste disciplina di partito, e un congresso (ad es.) democratico può tranquillamente votare le proposte del presidente repubblicano; che a quel punto,però, inevitabilmente terrà conto dei democratici.
In Italia invece verrebbe a nascere un sistema in cui, praticamente, Sansone (presidente del consiglio) alla peggio - ma proprio alla peggio - muore con tutti i filistei (parlamentari); il parlamento allora è costretto ad assecondarlo: nessun controllo (quindi) dei rappresentanti dei cittadini sull’operato dell’esecutivo, ma piena soggezione al suo volere.”
D. “Parecchi connazionali temono che la questione del referendum si esaurisca come tutti gli altri referendum: è meramente una questione di partito. Gli affezionati seguono la linea di partito. In genere sappiamo che alla fine questo è il sistema. Ci vuoi spiegare perché in questo referendum non è possibile applicare lo stesso teorema?”
R. “In questo momento il premier è Romano Prodi, e potrebbe esserlo di nuovo all'entrata in vigore della riforma. Ci fidiamo ciecamente di Romano Prodi? Io no, pur avendo votato per la coalizione di centrosinistra. Certo, mi fido più di lui che di altri, ma bisogna ragionare in astratto: domani il premier potrebbe essere Berlusconi, Prodi, o chiunque. Ci fidiamo di chiunque?
Insomma il giudizio su quest' obbrobrio non cambia secondo il vantaggio o lo svantaggio dell'una o dell'altra coalizione. Quando il centrosinistra denunciò lo smisurato ampliamento dei poteri del premier fu replicato: 'si vede che il centrosinistra è già sicuro di perdere le elezioni'. Così, dicendo che il candidato premier che si aspetta di vincere dovrebbe avere interesse alla 'riforma', si ammise implicitamente che, sì, tali poteri venivano estesi oltre la massima misura tollerabile. Invece il centrosinistra ha vinto le elezioni, segno che tanto perdente non è: ma non se ne parla proprio di appoggiare il Si.”
Purtroppo l'elettorato di centrosinistra non è affatto contento dell'atteggiamento dei suoi rappresentanti: molti si chiedono cosa si stia facendo per il No al referendum. Le forze politiche infatti preferiscono buttarla su un altro piano: quello della rivincita personale gli uni, quello del rafforzamento della vittoria gli altri, in una logica di contrapposizione che dev'essere invece tenuta ben lontana vista l’importanza della questione.
In sede di referendum costituzionale nessuno di noi deve ragionare secondo indicazioni di partito o convenienze politiche. Siamo chiamati a pronunciarci sulle regole della nostra vita e a controllare che non vengano cambiate ad arbitrio, a vantaggio di chi è al potere (comunque si chiami) e a scapito dei nostri diritti. Il sovrano non è Prodi. Non è Berlusconi. Il sovrano siamo noi, la legge fondamentale la facciamo noi.
Circolano opuscoletti di autorevoli testate che recitano 'un bel Sì per mandare a casa Prodi'. Con il Sì non va a casa Prodi e non torna Berlusconi. Con il Sì un futuro premier (di cui non sappiamo il nome) può spadroneggiare a piacimento.
Evitiamo, perciò, di votare per dispetto, perché è solo dispetto nostro.
Questo è il motivo per cui voto NO. “
A questo punto ci starebbe pure bene l’ “avremmo potuto stupirvi con…” , ma le parole di Andrea ci hanno veramente stupito per quanto hanno saputo dirci. Pensiamo che non vadano sprecate.
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