E se barattassimo armi per diritti umani?
Il presidente del Consiglio Romano Prodi e tutta la "parte che conta" della nostra classe politica ormai ha detto apertamente che è favorevole a sbloccare l'embargo dell'Ue verso Pechino. Ha iniziato Berlusconi nel 2003, seguito da Ciampi due anni fa, ma anche Fini e D'Alema si sono espressi allo stesso modo. Come movimento per la pace e il disarmo dobbiamo prendere atto di questo preoccupante appiattimento della nostra classe politica a tre interessi: la pressione della Cina che cerca una legittimazione politica internazionale, la volontà dei produttori nazionali di armi – e non solo – di espandere il proprio mercato e la necessità dell'Italia di non perdere il passo con la competizione rappresentata dagli altri paesi dell'Ue – soprattutto Francia e Germania – per conquistare fette del mercato cinese, tra cui quello di sistemi militari di alta tecnologia...
Cerchiamo di capire in che senso la Cina ha bisogno di una legittimazione politica internazionale. L'Unione europea, attualmente, mantiene in vigore solo otto embarghi internazionali: nei confronti dei talebani e di Al Qaeda, della Bosnia-Erzegovina, del regime di Myanmar, dei ribelli della Sierra Leone e del Congo, del Sudan, della dittatura di Mugabe e, appunto, della Cina. Essere in questo gruppo pesa enormemente sul governo di Pechino: è uno stigma che declassa la Cina a superpotenza di serie B, nonostante faccia parte del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Tanto che, per tentare di giustificarsi agli occhi dell'opinione pubblica mondiale, le autorità cinesi non hanno mai ammesso che l'embargo sia in vigore per i fatti di piazza Tienanmen – per i quali non hanno mai riconosciuto alcuna responsabilità – e il mancato rispetto dei diritti umani, ma l'hanno sempre accreditato come "retaggio della Guerra Fredda". La fine dell'embargo, allora, significherebbe la riconquista di una piena legittimazione internazionale che ora manca. Prodi, sostenendo che "l’embargo guarda più al passato che al presente", ha avallato del tutto la posizione di Pechino, commettendo, secondo me, un grave errore politico. Un errore simile a quello commesso già da Berlusconi che, nel 2003, aveva definito "anacronistico" l'embargo alla Cina.
Veniamo quindi all'altra pressione a cui avrebbe ceduto il presidente del Consiglio, quella della lobby armiera. Chiariamo anche qui una questione: più che la Cina interessata ad acquistare le nostre armi, sono piuttosto le nostre industrie desiderose di venderle, anche perché, con la fine dell'embargo, si aprirebbe un mercato molto importante.
La Cina sicuramente non ha bisogno di carri armati e pistole europee, che è in grado di produrre benissimo da sola, ma è alla ricerca dei sistemi d'arma tecnologicamente avanzati, come per esempio gli 80 radar avionici multimodo Grifo S-7, prodotti dalla Galileo, la cui vendita, per oltre 121 milioni di euro, è stata autorizzata dal governo Berlusconi già nel 2003, in totale violazione sia dell'embargo che della legge 185/90. Pechino ha bisogno esclusivamente di sistemi di armamenti di 'eccellenza' perché deve diversificare il suo parco-fornitori che attualmente è limitato alla sola Russia, da cui dipende per il 95%. E poiché è molto rischioso dipendere da un unico partner per le forniture militari, la Cina sta cercando di attivare canali commerciali con Italia, Francia e Germania – gli Stati che potrebbero vendergli questi sistemi d'arma e che, non a caso, sono i più solleciti a chiedere lo sblocco dell'embargo – che però, con l'embargo in vigore, sono chiusi. In futuro, poi, potrebbe essere in grado di produrre autonomamente anche questi armamenti tecnologicamente avanzati.
Il presidente del consigio Romano Prodi ha detto che la Cina è già "autosufficiente" e che quindi la fine dell'embargo "non cambierebbe nulla". A mio avviso si tratta di una miopia politica. Come ho detto, l'embargo di armi ha innanzitutto una valenza politico-simbolica perché sancisce che il governo cinese è ancora lontano dal rispetto dei diritti umani. Ma ha anche dei risvolti politico-militari sottovalutati da Prodi: la Cina ancora non possiede quelle tecnologie avanzate che Prodi vorrebbe vendergli; se questo avvenisse, come peraltro è già successo in passato, gli Stati Uniti sicuramente fornirebbero sistemi d'arma ancora più avanzati a Taiwan – in funzione anti-Pechino –, e si alimenterebbe una nuova escalation non tanto quantitativa, ma qualitativa.
A questo punto sarebbe lecito chiedersi: "l'Europa in questo modo si schiererebbe contro gli Usa?". Solo fino ad un certo punto perché comunque, come è già accaduto, i Paesi europei venderebbero alla Cina solo i sistemi d'arma che avessero ottenuto il placet dagli Usa. Ad ogni modo, secondo me la questione si configura come una baratto: la Cina vuole legittimazione politica, l'Europa vede aprirsi un nuovo mercato – per le armi ma non solo – e l'eliminazione dell'embargo dell'Ue consentirebbe di raggiungere ambedue gli obiettivi. Ma allora io chiedo ai nostri politici, e la mia è chiaramente una provocazione: invece di barattare le armi per aprire nuovi mercati non sarebbe meglio barattarle per avere un maggiore rispetto dei diritti umani? Lo dico anche pensando a quell'Accordo di cooperazione militare biliaterale tra Italia e Cina che già il precedente Governo aveva cercato di ratificare e che – possiamo esserne certi – arriverà presto nell'agenda del Governo Prodi: non si possono accettare accordi in campo militare senza garanzie esplicite e verificabili della controparte per quanto riguarda non solo la sicurezza internazionale, ma il pieno rispetto dei diritti umani.
"L'Unione si impegna a che vi siano trasparenza e un più cogente rispetto delle disposizioni che impediscono il commercio delle armi in Paesi che violano i diritti umani o che siano collocati in aree di conflitto, nonché a sostenere l'adozione in ambito Onu di un Trattato internazionale sul commercio delle armi" - recitava virgineo il programma elettorale dell'Unione. Possiamo ancora crederci? O era uno specchietto per allodole, presidente Prodi?
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