Quando la satira non basta piu': lettera aperta a Beppe Grillo

Le malattie dei media e l'informazione pulita

Per smuovere i piccoli feudi di potere dell'informazione basterebbero tre piccole leve di cambiamento: liberta' di scelta per l'uso dei soldi pubblici destinati all'editoria, libero accesso all'Ordine dei Giornalisti, libere elezioni del Consiglio di Amministrazione della Rai.
10 aprile 2008

Banner campagna "Informazione Pulita"

"Tutti a casa!" Pensando ai giornali, alle radio e alle televisioni italiane, a volte si e' tentati di pensare che la qualita' del nostro giornalismo si possa facilmente ottenere mandando in pensione alcuni personaggi che si sono distinti per la loro vocazione di mosche cocchiere del potere.

Che cosa accadra' il prossimo 25 aprile, quando la rabbia legittima delle piazze italiane contro i pennivendoli di stato verra' canalizzata nel V-Day dedicato ai problemi dei media? I finanziamenti pubblici all'editoria sono in realta' solo la punta dell'iceberg di una situazione molto piu' complessa. I soldi che escono dalle nostre tasse per finire nelle tasche di chi fa cattiva informazione sono un problema sicuramente grave e serio, ma purtroppo non l'unico.

In realta' la questione e' molto piu' complessa, e le malattie dell'informazione si intrecciano e aggrumano in una metastasi culturale ormai molto difficile da curare. Proviamo ad elencarne alcune.

Non c'e' piu' da anni, ad esempio, un contratto di categoria per chi scrive su giornali e riviste, i professionisti garantiti nelle redazioni sono una specie in via di estinzione, gradualmente rimpiazzata da precari che lavorano all'esterno, senza rappresentanti nelle redazioni, pagati con comodo e a volte non pagati. Il sindacato unico (ma tutt'altro che unitario) dei giornalisti e' ormai allo sbando, lontano da un orizzonte ampio di proposta culturale per il paese, focalizzato sull'orticello delle piccole battaglie di categoria e al tempo stesso lacerato da conflitti interni che lo rendono inoffensivo e leggero come una piuma sulla bilancia della trattativa con gli editori.

Le nuove tecnologie hanno aperto nuove possibilita', ma hanno anche fatto precipitare sul mercato il valore di fotografi e giornalisti di mestiere, costretti ad una guerra tra poveri con i ragazzi che usano le fotocamere digitali anziche' la camera oscura, e ti mandano via email un pezzo anche gratis o per pochi euro perche' vogliono affermarsi nel settore e non hanno famiglie da mantenere o mutui da pagare.

L'ordine dei giornalisti e' ormai un centro di potere che si occupa di tutto tranne che di deontologia, cieco e muto anche di fronte a casi conclamati di pubblicita' occulta travestita da informazione o davanti alla collaborazione tra servizi segreti e giornalisti che rivendicano un ruolo di "difensori della patria" mentre dovrebbero essere cacciati via a pedate dall'ordine professionale, come si farebbe in qualunque paese normale.

Dall'altra parte, di fronte ad un ordine professionale nato all'ombra del fascismo che fa di tutto per rimanere una casta chiusa l'opinione pubblica fa fatica a cogliere la necessita' di un organismo che mantenga il rigore deontologico obbligando i giornalisti a tenere la schiena dritta, e si chiede l'abolizione dell'ordine dei giornalisti buttando il bambino con l'acqua sporca, quando molte cose si potrebbero risolvere sbattendo fuori a calci chi infrange le regole base della professione e garantendo al tempo stesso l'accesso libero e incondizionato all'ordine.

Per aprire un bar chiunque puo' iscriversi alla camera di commercio, assumendo l'obbligo di non avvelenare i clienti e di tenere pulito il locale. Analogamente, lo status di giornalista andrebbe riconosciuto automaticamente, indipendentemente dal mezzo utilizzato per fare giornalismo, a chiunque si assuma pubblicamente l'impegno esplicito di rispettare i criteri base della professione, senza avvelenare i lettori con informazioni inquinate, pilotate o non verificate e accettando le conseguenze previste per chi gioca sporco.

Anche sul tema delle regole da rispettare ci sarebbe da discutere. La Society of Professional Journalists negli Usa, la BBC in Inghilterra, Al Jazeera in Qatar, la Canadian Broadcasting Corporation in Canada, la Japan Newspaper Publishers and Editors Association in Giappone e molte altre serie organizzazioni di professionisti dell'informazione hanno messo nero su bianco delle linee guida per distinguere quello che e' giornalismo da altre forme di scrittura o di esternazione radiotelevisiva che vanno catalogate diversamente.

In Italia, invece, non esiste un "giuramento di Ippocrate" dei giornalisti, ma solo una confusa collezione di carte e codici di autoregolamentazione: la Carta dei Doveri del giornalista, la Carta di Treviso a tutela dei minori, la Carta Informazione e Pubblicità, la Carta Informazione e Sondaggi, la Carta dei Doveri dell'Informazione economica, il Codice Deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica. L'elenco e' destinato ad allungarsi, perche' ogni convegno a tema sull'informazione e' potenzialmente in grado di produrre una carta di principi, che verra' puntualmente ignorata o disattesa da molti professionisti, per diventare argomento di dotte discussioni nei circoli chiudi degli addetti ai lavori.

IL LUSSO DI FARE INCHIESTE

Le inchieste serie sono ormai diventate un hobby per ricchi, riservato a chi puo' permettersi di sostenere per anni pesantissime spese legali e per chi puo' cambiare computer ogni volta che la magistratura decide di sequestrarlo per esaminarlo e scoprire se hai diffamato qualcuno, chi ti ha passato delle intercettazioni o se hai fatto altre marachelle.

Cio' nonostante nel nostro paese c'e' ancora chi ha provato e prova a fare giornalismo onesto anche senza avere le spalle coperte e le tasche piene rischiando in prima persona lontano dai riflettori e dalla solidarieta' popolare. Possibile - dovremmo chiederci - che in Italia ci siano solo tre o quattro persone di cui potersi fidare quando scrivono articoli o confezionano programmi?

Il problema e' proprio questo: se alcuni giornalisti ci sembrano piu' virtuosi di altri, mosche bianche in mezzo a un deserto di venduti, non e' solo perche' loro sono piu' bravi, ma anche perche' altri come loro non hanno gli stessi soldi e le stesse capacita' di autodifesa davanti ai potenti, sempre pronti a querelarti anche e soprattutto quando hanno torto. La querela civile e' una brutta bestia: se perdi in primo grado intanto paghi, poi si vedra' in appello se i soldi ti vanno restituiti o meno. E intanto, volente o nolente, scatta l'autocensura che ti invita alla prudenza e al basso profilo per evitare di inanellare troppe denunce una dietro l'altra.

Se i comunicatori bravi e famosi che hanno conservato un minimo di onesta' intellettuale si contano sulla punta delle dita di una mano, e' anche perche' il sottobosco dei censurati di serie B, l'esercito dei militi ignoti della libera informazione, i caduti sotto la scure delle querele in fondo in fondo ci interessano di meno, e per noi non valgono nemmeno i 30 euro di un abbonamento annuale ad una rivista sconosciuta ma coraggiosa.

Un caso concreto di "censura giudiziaria" e' quello che ha coinvolto il giornalista freelance Paolo Barnard e la sua ex-direttrice Milena Gabanelli. L'oggetto del contendere e' un servizio di Barnard realizzato per "Report" sulle aziende farmaceutiche che corrompono i medici con regali e congressi di lusso in posti esotici per ottenere maggiori prescrizioni dei loro prodotti. Senza scomodare gli studi legali delle Big Pharma, per mettere in difficolta' Barnard e' bastata la denuncia di un semplice informatore scientifico. La Rai si chiama fuori dalla vicenda, scarica ogni responsabilita' legale su Barnard e dimentica che i suoi avvocati hanno visionato il programma prima della messa in onda e della successiva replica, senza avere nulla da ridire. E mentre Petruccioli gongola soddisfatto dietro le quinte, la Gabanelli e Barnard fanno una guerra tra poveri sui forum della Rai perche' la prima e' convinta che sul piano giudiziario le battaglie in tribunale (anche da soli e senza il sostegno dell'azienda che ti ha contrattato) facciano parte del mestiere, mentre il secondo considera gravissimo sul piano etico che la direttrice di un programma coraggioso non abbia il coraggio di denunciare pubblicamente la faccia oscura dell'informazione di stato.

Il grande assente dalla polemica e' la Rai, che spende milioni per gli spettacoli di varieta' ma non ha soldi per difendere in tribunale le inchieste di Report, mostrate come fiore all'occhiello (o foglia di fico) quando vengono messe in onda, ma subito rinnegate come figlie bastarde quando ottengono il loro scopo, che e' quello di mettere un dito impietoso nelle piaghe aperte del potere. Quello di Barnard sembra un caso isolato, ma in realta' la censura delle carte bollate e' all'ordine del giorno in Italia, un cancro silenzioso che fa morire le cellule vive dell'informazione libera.

Ci meritiamo qualcosa di meglio dalla Rai? Se si potesse chiedere ai cittadini quali sono le voci di spesa prioritarie per l'informazione pubblica, in cima alla classifica troveremmo gli addobbi floreali di Sanremo? Piu' probabilmente una Rai amministrata dai cittadini e non da pedine dei partiti darebbe priorita' alla difesa legale dei giornalisti di Report (anche e soprattutto in quanto precari, freelance e non assunti ufficialmente come dipendenti Rai) per tutte le conseguenze dei servizi approvati e messi in onda con il marchio dell'azienda.

GIORNALISTI INVISIBILI E BERLUSCHINI

Gli invisibili dei media, i giornalisti con la schiena dritta, le formiche che lottano contro il potere che plasma l'informazione asservita sono uomini e donne che non conosciamo (e quindi non possiamo sostenere), magari solo perche' la loro azione non avviene su scala nazionale sbugiardando i grandi Berlusconi, ma si e' focalizzata con coraggio su una dimensione locale o regionale, per scavare nel torbido dei piccoli Berluschini e dei loro feudi, esplorando zone oscure e sconosciute del giornalismo.

Un esempio per tutti: Catania, dove Mario Ciancio Sanfilippo fa il bello e il cattivo tempo. Tutti sanno chi e' Berlusconi, ma pochi conoscono "Zio Mario", come e' affettuosamente soprannominato nelle redazioni siciliane. Testimone di nozze di Pippo Baudo, vicepresidente dell'Ansa, quote di proprieta' in Mtv, La7, Telecom, Tiscali e il gruppo L'Espresso/Repubblica, padrone di un variegato arcipelago di emittenti locali siciliane, ex presidente della Fieg fino a quando Montezemolo non ha deciso di prendere in mano anche le redini dell'editoria, ma soprattutto editore de "La Sicilia", unico quotidiano locale di Catania.

Da buon imprenditore, Ciancio riesce a tutelare gli interessi delle sue aziende anche quando sono in contrasto con l'interesse collettivo di una informazione pluralista. Ad esempio le aziende collegate a Ciancio stampano l'edizione di Palermo de "La Repubblica", ma lo fanno a Catania, e per ricambiare il favore il quotidiano fondato da Scalfari ha finora evitato di pubblicare a Catania delle pagine di cronaca locale, che avrebbero inutilmente confuso i lettori con un atroce dilemma: per sapere qualcosa sulla citta' in cui vivo e' meglio comprare "La Sicilia" o "La Repubblica"? Molto piu' facile e comodo vivere in un regime di "quotidiano unico".

Di Ciancio Wikipedia scrive che "negli anni ha costruito un gruppo editoriale di dimensioni notevoli, che comprende i più importanti mass media della Sicilia e una parte di quelli presenti in altre regioni dell'Italia meridionale".

Nel libro "La mafia comanda a Catania", Claudio Fava ha descritto il ruolo del giornale di Ciancio nel disegnare il panorama culturale siciliano. Il quotidiano "La Sicilia", racconta Fava, "al di là di ogni pudore, riuscì per molti anni a sopprimere dai propri scritti la parola mafia: usata raramente, e solo per riferirla a cronache di altre città, mai a Catania. Nell'ottobre del 1982, quando tutti i quotidiani italiani dedicheranno i loro titoli di testa all'emissione dei primi mandati di cattura per la strage di via Carini, l'unico giornale a non pubblicare il nome degli incriminati sarà La Sicilia. Un noto boss, scriverà il quotidiano di Ciancio: Nitto Santapaola, spiegheranno tutti gli altri giornali della nazione. Il nome del capomafia catanese resterà assente dalle cronache della sua città per molti anni ancora: e se vi comparirà, sarà solo per dare con dovuto risalto la notizia di una sua assoluzione. O per ricordarne, con compunto trafiletto, la morte del padre".

In Sicilia nessuno puo' fare il "cane da guardia" di Ciancio cosi' come Marco Travaglio ha fatto con Berlusconi potendo contare sulla rete di attenzione e solidarieta' che lo circonda. Ma la stessa societa' civile che solidarizza con Travaglio purtroppo ignora chi sia Ciancio, ne' e' interessata alle sue manovre.

E' impossibile per i giornalisti siciliani conquistare credito professionale e un rapporto diretto col pubblico scegliendo con coraggio un attivita' di giornalismo e saggistica che sveli le magagne di Ciancio, non perche' quest'ultimo sia piu' potente di Berlusconi, ma perche' a noi interessa di meno.

Se qualcuno iniziasse a denunciare apertamente la connivenza de "La Repubblica" con il regime mediatico catanese, non ci sarebbe sostegno da parte del pubblico, non ci sarebbe risonanza mediatica, non si venderebbero abbastanza libri. Un libro su Ciancio sarebbe impossibile da presentare in televisione: la gente, anche quella perbene, non lo comprerebbe perche' e' molto piu' interessata alle malefatte dei pezzi grossi.

E allora di chi e' la colpa se a Catania c'e' un regime di quotidiano unico per l'informazione locale? Di chi compra "Repubblica" pur sapendo che e' intenzionalmente monca di informazioni su Catania? Di chi compra "La Sicilia" conoscendo gli interessi molteplici e diversificati del suo proprietario? Di chi non compra niente pensando che tanto fannno tutti schifo uguale? Dei giornalisti seri di "Repubblica" che ogni tanto scendono a Catania per protestare sull'autocensura del loro quotidiano, ma poi ritornano a Roma senza che si sia mossa una foglia?

L'unico sistema per smuovere questi equilibri di potere sarebbe l'incontro tra un editore "puro", che voglia offrire alle edicole un prodotto alternativo in grado di creare lavoro e profitti, e un pubblico informato che vuole premiare il giornalismo estraneo ai giochi di potere. Non bastano le piazze, gli appelli, le sollevazioni popolari, le indignazioni estemporanee e il mal di fegato che ci prende ogni volta che accendiamo la TV. Solo con un'editoria sana, e un pubblico critico che la fa fiorire, gli invisibili dell'informazione potrebbero rialzare la testa e tornare a fare il loro mestiere, diventando i cani da guardia del potere in mille feudi come Catania e tenendo a bada mille "Berluschini" come Ciancio.

L'ABOLIZIONE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

A chi farebbe comodo la scomparsa di un ordine professionale che (almeno in teoria) dovrebbe difendere l'autonomia dei giornalisti e imporre loro il rispetto delle regole di fronte alle pressioni dei politici, dei pubblicitari e dei poteri forti?

I baroni del giornalismo italiano, pedine disposte con cura dai partiti, da Confindustria, dalla Mafia, dalla Massoneria e dai poteri clericali sullo scacchiere dei media, saranno ben contenti dell'assenza di un organismo di controllo. Finora questo organismo e' stato di fatto sordo, cieco e muto di fronte a qualsiasi violazione, ma qualcuno vorrebbe che diventasse addirittura inesistente per avere mano libera e cancellare ogni residuo di professione e professionalita' all'interno delle redazioni, archiviando come vezzi obsoleti principi deontologici come l'incompatibilita' tra il ruolo civile di giornalista e l'attivita' militare nei servizi segreti. L'assenza di un ordine professionale non cambiera' la faccia del giornalismo italiano ne' la piaggeria delle testate giornalistiche e televisive, semplicemente lascera' briglia sciolta a chi sapra' vendersi meglio, senza nemmeno lo spauracchio di una sanzione o dell'espulsione da una categoria professionale.

I pennivendoli asserviti saranno solamente contenti della scomparsa dell'Ordine dei Giornalisti, un controllo inesistente che non emana sanzioni e' sicuramente meglio del controllo leggero e bonaccione che comunque c'e' stato finora, e l'assenza totale di questo controllo permettera' a chi di dovere di continuare a fare gli interessi dei suoi padroni senza muovere nemmeno di un centimetro la sua poltrona.

Gli editori saranno molto piu' contenti della scomparsa di questa categoria professionale, perche' di fronte ad un gruppo di professionisti che non si aggrega, non ha regole e non si riconosce in nessuna deontologia sara' molto piu' facile sbarazzarsi dei giornalisti contrattualizzati che lavorano in redazione e rimpiazzarli con precari che lavorano da casa e mandano i pezzi via internet, per i quali non ci sara' bisogno di pagare l'affitto dei locali, la connessione Adsl e la bolletta della luce. Le ferie diventeranno licenziamenti temporanei (gia' ora lo sono per molti) e scomparira' del tutto la rappresentanza della categoria nei confronti delle aziende (gia' adesso i sindacati tutelano solo i giornalisti contrattualizzati, con iniziative per i freelance tanto sporadiche quanto velleitarie e prive di risultati concreti).

Questo "cognitariato", la nuova "classe operaia" dell'informazione che viene sfruttata intellettualmente anziche' nella sua forza lavoro come accadeva per il proletariato, sara' piu' debole e fragile in assenza di un ordine professionale, e dovra' scordarsi anche i contributi previdenziali: se e quando verranno versati, saranno quelli minimi a norma di legge, giusto per accontentare i sindacati e rimpolpare le casse degli istituti di previdenza che si limitano a battere cassa ogni anno minacciando chi non paga, senza pero' garantire a chi versa i contributi una concreta prospettiva di tranquillita' economica per il futuro.

E io? Cosa accadra' a me quando l'ordine dei giornalisti sara' scomparso? Non saro' piu' costretto per legge a rispettare la deontologia professionale.

Continuero' a farlo anche senza essere obbligato, solo perche' mi piace scrivere e mi piace farlo bene, ma non posso garantire anche per gli altri, ne' potro' invocare il rispetto delle regole se accanto a me ci sara' un collega che prende bustarelle dai partiti o e' pagato per fare il depistatore.

Non potro' piu' essere sanzionato se faccio marchette infilando pubblicita' occulta nei miei pezzi, ne' potro' essere rimproverato se i servizi segreti mi metteranno sul libro paga come hanno fatto con Renato Farina. Non avro' problemi nemmeno se usero' il giornalismo come arma politica per favorire qualcuno come ha fatto Bruno Vespa, intercettato mentre progettava di "confezionare addosso" a Gianfranco Fini una puntata del suo show.

Finora l'ordine dei Giornalisti ha sempre avuto la mano leggera verso questi episodi, limitandosi ad ammonimenti verbali o sospensioni temporanee, ma ora oltre a non esserci le sanzioni qualcuno vuole che non ci siano piu' nemmeno le regole. Un po' come abolire la magistratura perche' alcuni giudici "confezionano sentenze" addosso agli imputati.

Senza l'appartenenza ad un ordine professionale, oltre al dovere di rigore deontologico perdero' il diritto di cronaca che mi consente di fare il giornalista anche quando qualcuno vorrebbe impedirmelo, un diritto che ho dovuto rivendicare in piu' occasioni facendo valere la mia condizione professionale di fronte a chi voleva negarla.

Questo mi e' accaduto, ad esempio, quando ho incontrato Carabinieri che non volevano farmi fotografare una base USA dall'esterno e in una strada pubblica, quando un controllore voleva impedirmi di scattare una foto ad un adesivo razzista nella metropolitana di Milano, quando ho chiesto di accedere ad atti parlamentari che sarebbero stati negati al "normale" cittadino e che io ho potuto utilizzare come materiale di inchiesta garantendo alle mie fonti la tutela dell'anonimato.

Anche il problema della tutela delle fonti sfugge ai non addetti ai lavori: le stesse persone che infiammano le platee nei dibattiti sulla libera informazione sono pronte all'autocensura e a tirarsi indietro quando si tratta di assumersi responsabilita' in prima persona, giocandosi la faccia o il posto di lavoro per denunciare un abuso, una violazione o una illegalita'.

Per questa ragione e' importante che chi raccoglie per mestiere brandelli sparsi di verita' contraddittorie possa garantire sicurezza e protezione a chi gli da' fiducia affidandogli notizie e dichiarazioni che potrebbero danneggiarlo o esporlo al rischio di ritorsioni.

In maniera analoga anche altri professionisti hanno il diritto di tutelare chi gli racconta qualcosa, come fanno ad esempio i medici e gli avvocati, ed essere riconosciuto dalla legge come giornalista mi permette di difendere chi trova il coraggio di dirmi cio' che non potrei sapere da nessun altro.

Mi e' successo pochi giorni fa: una dipendente di una struttura pubblica voleva raccontare che nel suo ufficio stava accadendo qualcosa di storto, ma senza rischiare ritorsioni da parte dei suoi superiori o peggio ancora la perdita del posto.

Sono riuscito a pubblicare l'articolo perche' ho potuto difendere, tutelare e rassicurare la mia fonte offrendo la garanzia dell'anonimato. Chi pretende l'esercizio eroico delle virtu' di denuncia da parte dei giornalisti dovrebbe chiedersi se nella situazione opposta sarebbe disposto a dire a un giornalista quello che sa, rischiando tutto pur di denunciare qualche magagna.

Detto questo, io non mi sento un eroe, non credo che il giornalismo sia un mestiere riservato agli eroi e so che non posso pretendere di incontrare sempre degli eroi quando faccio una intervista. E' per questo che ho fatto piu' volte ricorso alle prerogative che derivano dalla mia appartenenza ad un ordine professionale, riuscendo ad ottenere informazioni di interesse generale per le quali ho svolto un ruolo di doppia garanzia: ai lettori ho garantito che quelle informazioni, anche se anonime, erano vere e non me le ero inventate io, mentre alle mie fonti ho garantito che non avrei fatto i loro nomi nemmeno davanti a un tribunale, non perche' sono un eroe ma perche' mi era legalmente possibile in quanto membro di una determinata categoria di professionisti. E' lo stesso principio per cui il prete puo' difendere anche di fronte a un tribunale i segreti che gli vengono affidati nel confessionale: altrimenti nessuno andrebbe piu' a confessarsi se ha fatto qualcosa che oltre ad essere peccaminoso e' anche illegale.

I PANNI SPORCHI DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

Dopo aver elencato i potenziali vantaggi legati al ruolo di un ordine professionale che dovrebbe tutelare giornalisti e cittadini contro interferenze esterne, e' importante fare nomi e cognomi per cercare di capire quali sono le persone e le azioni che contribuiscono a spingere la categoria professionale dei giornalisti verso un disprezzo sempre piu' intenso e generalizzato, ma purtroppo in molti casi legittimo.

Continuo a non capire come mai Franco Abruzzo, ex presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia e tuttora consigliere regionale, nei giorni pari attacca la commistione tra informazione e pubblicita' con nobili dichiarazioni di indipendenza, mentre in quelli dispari si arrampica sugli specchi per salvare i colleghi beccati con le mani nella marmellata. Come Renato Farina, nome in codice "Betulla", indagato per favoreggiamento di inquinamento probatorio dopo aver intascato dal Sismi oltre trentamila euro in due anni: una megamarchetta finalizzata all'inquinamento delle prove di responsabilita' dei servizi italiani nel sequestro dell'Imam egiziano Abu Omar ad opera della Cia.

In un paese normale Farina sarebbe stato dichiarato incompatibile con la professione di giornalista, ma in Italia l'Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha deciso che un operatore dell'informazione pubblica puo' fare anche disinformazione segreta, e Franco Abruzzo ha salvato Farina da una meritata radiazione, convertita in una sospensione per 12 mesi. Senza piu' nessun pudore, Farina si e' fatto beffe della sospensione continuando a scrivere articoli spacciati per "Lettere al direttore"

Ma non tutti sono cosi' fortunati da sguazzare nell'oro fornito dal Sismi: Maria Chiara, aspirante giornalista conosciuta a Modena, scrive da anni per la stampa locale, ma la pagano solamente quattro euro a pezzo, e di conseguenza anche con dozzine di articoli al suo attivo non ha raggiunto quei 2000 euro in due anni che l'ordine dei giornalisti dell'Emilia Romagna considera il guadagno minimo necessario per fregiarsi del titolo di giornalista e poter conquistare un meritato riconoscimento professionale che le permettera' di garantire meglio, se lo vorra', le sue fonti e i suoi lettori.

E qui nasce la domanda: dopo la sensazione piu' o meno legittima di sfogo liberatorio che attraversera' l'opinione pubblica per l'eliminazione di una casta, abolire l'ordine dei giornalisti fara piu' comodo a Renato Farina o ai giornalisti precari e onesti come Maria Chiara?

PUBBLICITA', MARCHETTE E DEONTOLOGIA

Non credevo alle mie orecchie quando ho sentito parlare Vittorio Roidi, durante l'edizione 2002 del seminario "Redattore Sociale" promosso dalla comunita' di Capodarco.

Roidi, all'epoca segretario nazionale dell'Ordine, ha trasmesso ad un pubblico di giornalisti molto giovani, ancora pieni di ideali e di energie, il pericoloso e cinico dogma delle aziende editoriali: "non ci puo' essere giornalismo senza pubblicita'", arrivando a sostenere che la free press, cioe' la totale dipendenza dei giornali dalla pubblicita', rappresenta una naturale evoluzione del settore.

Io non mi rassegno a tutto questo, e sono ancora convinto che sia possibile fare buon giornalismo senza dipendere dagli inserzionisti e che sia meglio pagare i giornali direttamente in edicola anziche' pagarli quando facciamo la spesa. La free press non e' un benemerito servizio pubblico, ma uno strumento di marketing per aziende che finanziano con i nostri soldi un finto giornalismo fatto del copia e incolla di notizie di agenzia, dove non hanno diritto di cittadinanza le inchieste e la cultura, inevitabilmente troppo "politiche" e apprezzate da un pubblico che non fa gola ai pubblicitari.

Ma di tutto questo nessuno parla, e l'Ordine dei Giornalisti, che dovrebbe sanzionare imbrogli e scorrettezze tutelando i cittadini e i giornalisti per bene, si e' trasformato in una corporazione che mette i bastoni tra le ruote a chi fa giornalismo serio, rende la vita piu' difficile a chi e' senza tessera, e fa il gioco delle scimmiette mute, cieche e sorde di fronte al degrado della professione anche e soprattutto per i condizionamenti sempre piu' pesanti della pubblicita'.

Per non generalizzare, parliamo di un caso concreto e facciamo altri nomi: la sera del 28 agosto, il Tg2 e il Tg5 decidono di celebrare l'uscita della nuova Fiat Punto in diretta nazionale e a mezz'ora di distanza l'uno dall'altro, con due servizi di Lamberto Sposini e Maria Concetta Mattei, caratterizzati dalle medesime immagini e dallo stesso tono trionfalistico e acritico. Credendo che un telegiornale fosse diverso da una cassa di risonanza di comunicati aziendali, e che un giornalista avesse compiti diversi da quelli di un concessionario di automobili, provo ad inoltrare un esposto all'Ordine dei Giornalisti per segnalare quella che sembrava una palese violazione della deontologia professionale. Il seguito della vicenda ricorda da vicino la barzelletta del pazzo che andava contromano credendo che fossero gli altri a sbagliare direzione: il pazzo ero io, che da solo cercavo di andare contro la corrente del giornalismo asservito, e non chi ha "normalmente" aperto gli spazi dell'informazione e del servizio pubblico televisivo alla pubblicità (neanche tanto occulta) della Fiat.

In risposta alla mia lettera di protesta Bruno Tucci, presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio, ha messo nero su bianco che "quando un'azienda lancia sul mercato una nuova auto tutti indistintamente, i giornali, oltre la radio e la Tv sono portati a illustrare le caratteristiche della nuova auto. Non avendo quindi riscontrato nessuna violazione delle norme deontologiche, il consiglio ha deciso all'unanimità di archiviare il caso". Preso atto di queste nuove tendenze nella deontologia professionale, rimangono alcuni dubbi: perché due Tg nazionali usano le stesse immagini? Chi gliele ha date? I telegiornali sono una vetrina di prodotti? Un'auto nuova e' una notizia? Se sì, perché annunciare solo le auto Fiat e non vetture di altre marche, auto ad aria compressa o biciclette? Ma soprattutto, perché l'Ordine dei Giornalisti e' arrivato così in basso?

UN RIMEDIO EFFICACE

Cio' nonostante, l'abolizione dell'ordine dei giornalisti non mi sembra la soluzione piu' efficace. Ci sono dei casi, e la crisi dell'informazione in Italia e' uno di questi, in cui un rimedio poco ragionato diventa peggiore del male che si vorrebbe curare.

Osservando chi dovrebbe tutelare la dignita' e il rigore di una professione mentre tutela la Fiat, Bruno Vespa, i Servizi Segreti e gli pseudogiornalisti che li appoggiano, la tentazione di dire "ma allora chiudiamo la baracca" e' davvero forte. Di fronte a questo scenario pero' puo' farsi strada anche un'altra proposta, meno istintiva e forse piu' efficace nel perseguire l'obiettivo di un giornalismo pulito. Visto che l'informazione e' ormai un bene pubblico, un servizio fondamentale e un tratto caratteristico di una nazione, perche' non proporre l'elezione diretta dei rappresentanti dell'Ordine dei Gionalisti a livello locale e nazionale?

Qualcuno potrebbe obiettare che negli altri ordini professionali le elezioni avvengono su base interna: i medici eleggono i vertici dell'ordine dei medici, e anche gli avvocati e i notai fanno lo stesso. Se dovessimo coinvolgere tutti i cittadini nella democrazia interna degli ordini professionali dovremmo votare un giorno si' e l'altro pure.

Ma perche' non proporre un meccanismo democratico almeno per l'elezione del Consiglio di Amministrazione della Rai e delle altre cariche direttive nella Tv di stato? In questo modo sarebbero i cittadini a decidere chi dovra' tutelare il loro diritto all'informazione, esattamente come avviene per l'indicazione dei rappresentanti nei consigli comunali.

Certo, lavorare e ragionare sull'ipotesi di un controllo diretto dei cittadini sulla Rai e sull'Ordine dei Giornalisti e' molto piu' faticoso e meno coinvolgente di una bella festa per abolire un ordine professionale e abbattere un muro che separa chi e' dentro da chi e' fuori. Poco importa se le macerie di questo muro cadranno su professionisti seri e su cittadini che non sapranno di aver perso dei diritti con la scomparsa di una struttura che, almeno in teoria, dovrebbe cacciare via a pedate i Brunivespa di turno e tutti quelli che "confezionano" articoli e trasmissioni addosso ai potenti.

I LIMITI DELLA SATIRA: NESSUNO PUO' CHIAMARSI FUORI

Per rinnovare il nostro panorama culturale e lo scenario italiano dei media la satira e i "vaffanculo" di massa sono sicuramente utili, forse necessari, ma decisamente non sufficienti. Non possiamo affidare ad altri una delega in bianco per disegnare da soli il futuro dell'informazione mentre noi aspettiamo a braccia conserte il trionfo della verita'. Al contrario, ora piu' che mai c'e' bisogno di ognuno di noi, di una piena assunzione di responsabilita' a partire dal livello individuale, iniziando a boicottare non solo i prodotti alimentari di aziende che sostengono modelli devastanti di sviluppo economico, ma anche i prodotti dei grandi gruppi editoriali che alimentano modelli altrettanto distruttivi di sviluppo culturale.

Affidare ad altre persone, siano esse comici, giornalisti o saggisti, il compito esclusivo di compilare la "lista dei buoni e dei cattivi" dell'informazione porta a gravi omissioni nella lista dei "buoni", e anche qualche "cattivo" l'ha fatta franca per vuoti di memoria e di attenzione. E' quello che e' accaduto a Gad Lerner, trasformato nell'alfiere di Prodi durante la campagna elettorale che nel 2006 ha preceduto il ritorno della sinistra al caviale.

Proprio Lerner, nella sua breve parabola come direttore del Tg1, ha buttato nel cestino l'ultima intervista di Paolo Borsellino, proprio quella sdoganata a fatica da Sigfrido Ranucci e Roberto Morrione a tarda notte su Rai News 24 e successivamente portata in prima serata da Luttazzi e Travaglio, che hanno scatenato l'"editto bulgaro" non per aver trasmesso una intervista inedita, ma solo per averla portata in prima serata fuori dal ristretto circolo dei gia' informati e dei telenottambuli. E' possibile combattere la mafia che tappa la bocca a Borsellino da vivo col tritolo con una informazione che ignora Borsellino anche dopo morto, censurando una intervista che ha segnato la storia del paese?

Dopo anni di silenzio, il 14 dicembre scorso Gad Lerner ha ricordato questa vicenda sul suo blog, rivendicando la sua scelta e raccontando che il coraggio della verita' a volte deve lasciare spazio a considerazioni piu' personali per tutelare se stessi anche a danno del pubblico, difendendo la verita' solo dopo aver difeso la poltrona da direttore.

"Non sono per niente coraggioso - ha scritto Gad -. Vivo nella bambagia e non l'ho mai nascosto. Non ho trasmesso (e neppure con il senno di poi trasmetterei) un’intervista che mi venne recapitata, opera di giornalisti francesi, già montata e confezionata, dal direttore di un altro canale Rai [il serio e onesto Roberto Morrione di RaiNews24, ndr], pochi giorni dopo il mio insediamento. Celli e Zaccaria mi avevano nominato all’insaputa del governo e delle forze politiche abituate a dire la loro sul direttore del Tg1. Intorno a me c’era già molta diffidenza per questo. Ho avuto l’impressione mi si chiedesse una sorta di preventivo schieramento interno su una materia che non ero in grado di controllare. Chiamala prova del fuoco, o polpetta avvelenata. A più di sette anni di distanza è ormai evidente che quella intervista non conteneva notizie fondamentali su Berlusconi. Non modificherei in alcun modo la mia scelta di allora".

Ma anche in uno scenario dove nemmeno i direttori del Tg1 hanno il tempo di dire la verita', occupati come sono a difendersi dalle polpette avvelenate del potere, c'e' chi, a differenza di Lerner, ha avuto il coraggio di dire cose scomode senza vivere nella bambagia, rischiando molto piu' dell'ex direttore del TG1 e pagando in prima persona il prezzo delle verita' che hanno sdoganato.

VOCE A CHI NON HA VOCE

Nel nostro paese la lotta alla censura e' un gioco simile al Risiko, dove vince e ottiene piu' solidarieta' chi e' gia' ben piazzato nel palcoscenico mediatico. Se sei famoso e conosciuto, basta fare un piccolo passo indietro dalla tua posizione per ricevere la solidarieta' nazionale e il titolo onorifico di vittima della censura, anche se l'espulsione dalla Rai non ti condanna all'oblio ma ti apre le porte del Parlamento Europeo, o se a dispetto dei bavagli televisivi continui a scrivere editoriali sui piu' diffusi quotidiani nazionali, che tutto sommato non sono poi cosi' male per potersi esprimere liberamente.

Se invece sei un signor nessuno, se parti da zero e ti schiacciano per mandarti sottozero, la societa' civile ti passera' sopra con indifferenza qualunque cosa ti accada, e resterai nell'ombra anche se perdi il posto, se vieni schiacciato dalle querele o decidi di fare un altro mestiere perche' non hai abbastanza soldi per pagare gli avvocati. E' quello che succede puntualmente a tanti bravissimi giornalisti, abbandonati a se stessi perche' il loro pubblico non e' abbastanza vasto.

Si tratta di persone che prima ancora di essere private del diritto di parola, o perseguitate per l'esercizio del pensiero libero, hanno perso il diritto di essere ascoltati, senza il quale la liberta' di espressione si trasforma in un vuoto gridare al vento.

Per togliere il bavaglio ai piu' deboli e' necessario riflettere sulle responsabilita' che ci assumiamo ogni volta che paghiamo il canone RAI senza pretendere il rispetto del contratto di servizio, quando compriamo libri di finta sinistra gonfiando il portafoglio degli editori di vera destra, quando sosteniamo con i nostri acquisti i tre grandi colossi che uccidono la diversita' culturale del paese: il gruppo Mondadori/Fininvest/Mediaset, il gruppo L'Espresso, il gruppo RCS, quando ci sentiamo alternativi comprando da Feltrinelli che sta togliendo l'ossigeno alle piccole librerie indipendenti, quando abbandoniamo al loro destino persone colpite solo per aver fatto il loro mestiere di giornalisti.

I problemi dell'informazione che Beppe Grillo vuole portare in cima all'agenda della "politica dal basso" hanno un lato oscuro, i piccoli bavagli che hanno tappezzato l'Italia con storie di ordinaria censura a cui ormai abbiamo fatto il callo.

ESPERIENZE DA VALORIZZARE

E' per questo che durante il V-Day del prossimo 25 aprile sarebbe magnifico rubare un po' di spazio ai soliti "cattivi", per permettere alla gente di scoprire che in Italia c'e' molta gente onesta e dimenticata, che per poter esercitare il proprio gusto per la verita' e' capace di rischiare in prima persona.

Sono d'accordo nel denunciare un'informazione che fa cultura neoliberista esaltando la libera impresa e la concorrenza nei mercati con soldi e sistemi impregnati del piu' squallido assistenzialismo statalista. Mi piacerebbe che i cittadini venissero in qualche modo consultati o interpellati per stabilire la destinazione delle enormi provvidenze destinate all'editoria.

Sarebbe magnifico inserire nella dichiarazione dei redditi un codice che ci permetta di dire quale casa editrice, quale associazione culturale, quale testata giornalistica, radiofonica o televisiva, insomma quale modello di informazione vogliamo finanziare con le nostre tasse.

Mi dispiacerebbe molto, pero', per discutere di tutto questo durante il V-Day si continui a voltare le spalle e ad ignorare le situazioni in cui si trovano persone come Alessandro Marescotti, costretto a combattere una battaglia solitaria e lontana dai riflettori contro l'Ilva di Taranto, che lo aveva denunciato con l'accusa di "procurato allarme" per aver diffuso stime di inquinamento ufficiali pubblicate su internet in base a dati forniti dall'Ilva stessa.

Vorrei che la gente ritrovasse fiducia nel giornalismo e nella capacita' di resistenza culturale alla Mafia scoprendo vicende come quelle di Carlo Ruta e del sito www.accadeinsicilia.net, uno dei piu' documentati siti antimafia d'italia, totalmente oscurato perche' una delle pagine ha fatto scattare una denuncia per diffamazione, come se la denuncia di un singolo articolo bloccasse a tempo indeterminato le rotative di un giornale.

Vorrei che dopo il V-Day qualche persona scoprisse la "Voce della Campania", una rivista che rischia di chiudere perche' ha pubblicato inchieste sugli affari poco chiari del Cardinale Giordano, che da bravo uomo di chiesa, distaccato dalle cose materiali, gli ha chiesto 50 miloni di euro di danni. Mi piacerebbe che la rivista antimafia "Casablanca", guidata da Riccardo Orioles e da una redazione giovane e ribelle, potesse aggiungere al sostegno morale e materiale gia' ricevuto dal fratello di Paolo Borsellino anche quello di tante altre persone che potrebbero scoprire durante il V-Day questa esperienza ricchissima di resistenza culturale nel cuore dei poteri mafiosi.

Enea Discepoli potrebbe spiegarci in pochi minuti come e' riuscito a costruire una Tv di quartiere a Senigallia, vincendo premi di giornalismo assieme ad un gruppo di redattori disabili che hanno vinto assieme a lui anche la battaglia legale contro le autorita' che volevano oscurare l'emittente perche' priva di concessione (esattamente come Retequattro).

Marco Benanti potrebbe raccontarci quali sono gli articoli di critica sulla politica Estera Usa che gli sono costati non solo la carriera di giornalista, ma anche il licenziamento dalla base di Sigonella dove lavorava come operaio fino a quando i suoi datori di lavoro non lo hanno considerato persona sgradita. La controversia legale nata attorno a questa vicenda nel tribunale di Siracusa lo ha messo nero su bianco: "il ricorrente non e' gradito all'appaltante governo americano o meglio ci ha messo in imbarazzo con i suoi articoli contro le basi americane in Italia e in particolare la base di Sigonella". Se parli troppo, non vai bene nemmeno come manovale.

Ci sarebbe da raccontare anche la storia di Dream Tv, un'altra tv di quartiere nata a Solopaca (Benevento) e oscurata con l'avvio di un procedimento penale, per il "crimine spregevole" di aver trasmesso nel raggio di poche centinaia di metri (e con una potenza pari a quella di un walkie talkie) programmi a contenuto sovversivo come i Consigli Comunali, la festa dell'uva della Cantina Sociale, le attivita' carnevalesche della pro-loco, la processione della Madonna del Roseto.

Marco Milozzi, che lavora a Fermo come operatore sociale precario, potrebbe spiegarci come mai ha deciso di non pagare il canone Rai alla luce del sole, versando il corrispettivo a riviste ed associazioni di informazione alternativa con una azione pubblica di disobbedienza civile di fatto censurata, ignorata e passata sotto silenzio nel calderone di urla sguaiate che si levano contro la Rai.

L'elenco potrebbe continuare all'infinito: ci sono tante storie da raccontare simili a queste, e forse l'atto piu' efficace di ribellione contro il potere sarebbe proprio quello di eliminarlo completamente dal nostro orizzonte, anche dall'agenda della protesta, ignorando i giornalisti al guinzaglio e occupandoci di cose serie, proprio come Beppe Grillo ha provato a fare durante il G8 del 2001, quando ha snobbato il vertice dei capi di stato e di governo organizzando in contemporanea una bella festa in spiaggia come atto supremo di ribellione.

E' per questa ragione che da queste pagine lancio un appello accorato e sincero. Caro Beppe, sul palco del V-Day hai il diritto di farti accompagnare da chi vuoi. Io pero' ti trasmetto la speranza che su quel palco trovino spazio anche le vittime piu' deboli e sconosciute della censura made in Italy, che potrebbero degnamente accompagnare i soliti noti, i censurati "vip" e la rabbia legittima contro le mosche cocchiere del potere, il finto giornalismo e i soldi pubblici regalati a Ferrara, Confindustria e Chiesa Cattolica per la loro informazione faziosa.

E' una rabbia che anch'io ho bisogno di sfogare, ma lo sfogo non mi basta piu'. Ho bisogno di vedere riconosciuto e valorizzato il lavoro degli onesti per non farmi consumare dal livore per i disonesti e le loro ingiustizie. Sono stanco dell'ipocrisia del senno di poi e delle lacrime di coccodrillo per Pippo Fava, Peppino Impastato, Antonio Russo ed Enzo Baldoni. Vorrei sapere e far sapere chi e' che oggi, da vivo, ha raccolto il testimone del loro impegno politico e civile, e sta rischiando come loro per aver annunciato verita' scomode. Io alcuni nomi li ho fatti, tu aiutami a farne altri.

Ma fare i nomi non basta: per passare dalle parole ai fatti, e provare a cambiare il panorama italiano dell'informazione, basterebbe che 1000, 100 o anche solo 10 persone comincino a chiedere tre cose molto semplici:

1) Chiedo che in Italia i finanziamenti alle imprese editoriali siano stabiliti dai cittadini in base a indicazioni espresse nella dichiarazione dei redditi con un meccanismo simile a quello dell'otto per mille. Voglio decidere io quale quotidiano, associazione culturale, casa editrice o rivista indipendente saranno sostenuti con i soldi delle mie tasse.

2) Chiedo che l'accesso all'Ordine professionale dei Giornalisti venga aperto a tutti coloro ne facciano richiesta praticando a qualunque titolo e con qualunque mezzo l'attivita' giornalistica. Voglio che la condizione di giornalista sia un serio e vincolante impegno professionale che chiunque puo' contrarre liberamente, e non l'appartenenza ad un gruppo chiuso e privilegiato.

3) Chiedo che le cariche direttive all'interno della Rai vengano determinate con elezioni pubbliche e aperte a tutti i cittadini, e non in base alle indicazioni dei partiti. Voglio che le persone responsabili della produzione e del controllo dell'informazione pubblica siano espressione di un sistema democratico e non pedine sulla scacchiera del potere.

Per raccogliere tutte le voci favorevoli a queste richieste, ho lanciato a titolo personale la campagna "Informazione Pulita", alla quale si puo' aderire online cliccando sull'indirizzo

http://www.giornalismi.info/ip

Note: La campagna "Informazione Pulita" e' una iniziativa individuale, e le opinioni espresse a titolo personale in questo articolo non coincidono necessariamente con quelle dell'Associazione PeaceLink.
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