E-mail dall'ospedale di Kimbau, nel cuore della Repubblica Democratica del Congo

Lettera a un malato

Questa lettera l'ho scritta pensando a una storia vera: un giovane che dopo essersi scoperto malato cronico è diventato, grazie alla sua malattia, supervisore distrettuale del programma di assistenza ai malati di lebbra e tubercolosi. Ma questa lettera la scrivo a tutti i malati cronici e non solo di lebbra che oggi hanno ancora la capacità di discernere nella malattia il disegno meraviglioso che Dio ha su di loro.
25 gennaio 2009
Chiara Castellani

E-mail dall'Africa Ci siamo conosciuti molti anni fa, io non avevo ancora sofferto dell'incidente che mi ha privato del braccio destro alla fine del 1992 e tu eri un giovane campione di calcio ancora scapolo e nel fiore dell’adolescenza.

Molti anni dopo, nel 2008, abbiamo affrontato assieme la tua diagnosi, quel verdetto che allora ti parve una condanna.

“Mia moglie mi vorrà ancora con lei?” mi chiedevi disperato, fra le lacrime. E io stessa, benchè medico, non sapevo darti risposta.

Eppure i primi sintomi della malattia risalgono a dieci anni fa: sono dieci anni che convivi con “lei” e fino ad ora ti sei dimostrato più forte di “lei”. Anzi, grazie a “lei”, da quando ti sei ammalato stai tirando fuori risorse ed energie insospettati. La malattia, che secondo una mentalità comune avrebbe dovuto distruggerti fisicamente e moralmente, dopo dieci anni di aggressione ti ha reso paradossalmente non più debole ma più forte. E soprattutto ti ha fatto crescere come persona.

Ogni fatto che ci accade nella vita, una malattia grave e potenzialmente invalidante come la tua, ma se vuoi anche nel mio caso il grave incidente che mi ha privato del braccio destro e della possibilitá di operare, obbligandomi a reinventare la mia professione di medico chirurgo... la malattia e la invalidità sono tutti momenti pregnanti oltre che ineluttabili della vita, quindi eventi vitali.

La vita in Africa è come un ciclo interminabile in cui si inseriscono come eventi vitali le nascite e le morti di tutti noi. Quindi un ciclo corale che non muore né invecchia perchè eternamente si rinnova, come si rinnovano il ciclo del giorno (ntango, che significa anche sole e tempo), il ciclo della luna (ngonda, che significa anche mese e ciclo mestruale), il ciclo delle stagioni (mvula, che significa anno e pioggia ma “na nvula ya mvula” significa “in eterno”). Quando tramonta il sole, comincia l'attesa dell'aurora. La luna muore ad ogni ciclo per reilluminarsi come luna nuova, mentre in ogni donna fertile il ciclo mestruale rigenera dal sangue un nuovo endometrio che sarà nido di vita umana. Il freddo e le piogge dell'inverno coltivano i fiori della primavera e i frutti e i nuovi semi dell'estate. La invalidità è come quell'evangelico chicco di grano che disfacendosi nella terra diviene generatore di vita.

E la vita non muore mai. I padri vivono nei figli e i figli sono il nostro viatico di eternità.

Forse è per questo che tu, già malato, hai cercato un figlio, e adesso mi riveli che ne vorresti un'altro. Come posso vietartelo, anche se “lei” e il senso comune in principio te lo vietano?

Se la malattia e la invalidità sono eventi della vita, sono comunque doni di chi ci ha donato la vita, quel Dio Madre che ho imparato ad implorare in Africa, perchè niente potrà scaturire di negativo dalla tenerezza di una Madre. Siamo noi, in base a come reagiamo ad esse, che lo trasformiamo, nella nostra incapacità di capire la tenerezza di Dio in un evento che viviamo come negativo. Ma questa incomprensione denota solo la nostra incapacità di lasciarsi coinvolgere nella coralità del ciclo eterno della vita. La nostra incapacità di credere nell'eternità. La nostra incapacità di credere che la vita è un dono come lo sono tutti gli eventi che costituiscono la vita. Per questo una malattia cronica o una malattia invalidante possono portare a compiere scelte sulla nostra vita residua tristemente scandite da atteggiamenti vittimistici o, peggio, depressivi.

Quando la diagnosi ti è stata proferita senza alcun tatto, anzi sottolineando una stigmatizzazione, c'è stato un momento in cui è scattata dentro di te una reazione per cui hai rifiutato l’aiuto offertoti e persino il trattamento, e ti sei nascosto nella “vergogna del male”, quasi che tu dovessi considerarti colpevole della tua malattia.

Ricordi le parole dei discepoli di fronte al cieco nato “chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”

Se riteniamo che un evento della vita come la malattia e la invalidità non siano dono ma punizione di un Dio non più madre ma giudice, incapace non solo di tenerezza, ma nemmeno di misericordia, allora il passaggio dalla punizione all'assunzione della colpa diventa automatico, e si cominciano a cercare i colpevoli della malattia e della invalidità.

Una malattia invalidante mette in un primo momento il malato e i familiari con le spalle al muro. E allora per sottrarsi a quel muro dove “lei” minaccia di abbatterti, si trasferisce la “colpa” per la quale “lei” punisce, su altri, sul medico che ha compiuto errori di diagnosi e di trattamento. Ed è così che piovono processi e condanne di miei colleghi, alle volte anche legali, molto più spesso morali e silenti, che lasciano il malato comunque vittima di “colpe” proprie e altrui da espiare, ancora più solo. E questa solitudine lo spinge ad adottare atteggiamenti distruttivi, autolesionisti.

E' stato allora che ci minacciavi di suicidio: e quella minaccia ha rischiato di trasformarsi in atteggiamento di ricatto, o forse di estremo orgoglio: io sono malato, quindi tu hai l'OBBLIGO di aiutarmi, altrimenti io mi ammazzo.

C'è stato un momento che anche tu hai ceduto a questa tentazione. Ma quando anche tu rischiavi di cadere nel baratro di chi rifiuta di inserirsi nel ciclo eterno della vita (come troppi fanno in Europa) è stato allora che hai cercato amore e lo hai trovato, è stato allora che hai incontrato non più la gente a cui facevi falsamente “pena”, ma hai trovato sul tuo cammino insegnanti da cui imparare e compagni di viaggio con cui condividere. Gli uni e gli altri erano spesso proprio quelle persone che come te dovevano fare i conti con “lei” e che avevano deciso che “lei” non era un nemico da abbattere o che doveva abbatterti, ma una maestra che ci avrebbe dato lezioni di vita: a te, ma anche a me, perchè grazie a te e a “lei” ho imparato moltissimo sull'accompagnamento spirituale del malato incurabile.

Ma non bastava. Benchè amato e spinto a vivere positivamente la tua vita con “lei”, a lungo hai opposto resistenza alla diagnosi! Non riuscivi ad accettarla, hai ripetuto gli esami decine di volte rinnovando ogni volta false illusioni e nuove delusioni. Finchè hai imparato a capire la differenza fra speranza e illusione: una malattia incurabile per definizione non dà illusioni, ma non deve mai chiudere la porta della speranza, per non trasformare la disillusione in disperazione.

E allora insieme abbiamo scelto la speranza, che ci ha permesso di ricominciare a guardare al futuro ma con occhi adulti, e con un piano di esistenza che non era più negare che “lei” c'era, ma accettare di vivere con “lei”, senza aver più paura di “lei”.

Improvvisamente quando ti invitai a studiarla, quando imparasti a conoscerla a fondo, “lei” si trasformò da giustiziera, come entrambi l'avevamo considerata, in amica. Proprio per questo oggi non ho intenzione qui di scrivere quello che la malattia e la necessità di trattamento cronico ti hanno tolto, bensì quello che ci ha dato. E non parlo solo di quel patrimonio di vita vissuta che ci ha lasciato, ma oggi soprattutto, di quel patrimonio di vita da vivere, i nostri piani per il futuro con cui abbiamo ricominciato a sognare. Anche più intensamente di prima.

Dal 2002 per merito di questa tua grave malattia, hai iniziato a voler capire perché le mie emozioni nei tuoi confronti e di fronte all'assunzione del mio ruolo di accompagnamento erano sempre così forti e difficili da gestire. E hai maturato l'idea di assumere tu stesso la missione di accompagnamento per tutti quelli che devono imparare a confrontarsi con “lei”

E’ cosí iniziato un viaggio ideale che ci ha visto compagni che ha cambiato la tua vita e la mia, e che adesso puó cambiare la vita di tutti coloro che incontrerai nel cammino che “lei”, che tu un tempo rifiutavi, ti sta indicando.

Dio aiuta sempre coloro che si spendono per il bene degli altri, per questo ti ha dato “lei” come maestra e tanti compagni di viaggio. Da quando invece di fuggirla hai accettato di conoscerla meglio, è sparita quella sensazione di paura che ricolmava la tua vita di negatività e pessimismo.

Hai recuperato la tua autostima e, di conseguenza, amando te stesso hai potuto amare meglio il prossimo. Il tuo cuore ha iniziato ad aprirsi sempre di più e l'amore ti ha aiutato a vincere la paura. E' stata “lei” a farti capire il tuo grande compito di amore su questa terra, la tua grande missione di far apprendere a chi ancora vive con rigetto l'intrusione di “lei” nella propria vita. Certo “lei” è un'intrusa, ma non diversamente da come lo fu Cristo per i viandanti di Emmaus.

Eppoi l'amore genera cerchi virtuosi: essere “innamorati” dà gioia e quando viviamo con gioia siamo più portati ad amare. Questo crea un inarrestabile fiume d’amore che rigenera i rapporti in famiglia, nelle amicizie sempre più sincere, nei rapporti con le autorità da cui oggi dipendi ma da cui sarai sempre indipendente. Perchè loro non convivono con “lei” e quindi, anche se seri professionisti, non avranno mai niente ad insegnarti su di “lei”. Soprattutto sei tu che insegni a tutti noi che “lei” non ha più potere su di te e sulla tua libertà di pianificare il futuro. Perchè anche se “lei” un giorno porterà il tuo fisico alla invalidità non avrà mai la capacità di portarti via il tuo futuro, e soprattutto non vorrà farlo perchè è “lei” che te lo ha indicato.

Chiara Castellani

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