Ilva, tra paure e fermenti tarantini
Se in questi giorni ascoltaste o decideste di cercare notizie su Ilva e Taranto potreste imbattervi in parole come: dimissioni, pil, prescrizioni, ricorsi, fallimento, accanimento, tutto ok, paese, posti di lavoro, tavolo tecnico, 40.000, disoccupazione, aia, manifatturiero, esportazioni, acciaio, miliardi, Riva, produzione, salvare, paura, interesse nazionale, tensioni, operai, crisi, commissariamento, tutela occupazione, continuità, statalizzazione. Questi sono argomenti che ‘devono’ essere portati a conoscenza dell'opinione pubblica.
Non troverete di certo termini come: malattia, danno genotossico, diossina, infortuni, inquinamento, morte, malformazioni congenite, cancro, asbestosi, studio ‘Sentieri’, registro tumori, falda acquifera, mitilicoltura, suolo, rifiuti pericolosi e radioattivi, agricoltura, sterilità, genocidio, cozze contaminate, corruzione, decessi, incidenza, minerale, prematuro, viaggio della speranza, ovini soppressi, ammodernamento, tumore, bonifiche, fermo impianti, sicurezza, rischio incidente rilevante, progresso, ammalati, cure sanitarie, futuro, vita ‘solo’ la vita, concussione, intolleranze, tiroide, alternative, risorse, investimenti, cimitero, mancato adeguamento, endometriosi, pesca, bronchite cronica. Questi sono argomenti da tenere nascosti perché motivo di allarme sociale e j’accuse di un delitto di massa ai danni di una città intera.
Sulla bufala dei 40.000 posti di lavoro a rischio si è detto ma, come prevedibile, l’informazione di regime ha continuato a portare la questione sui rischi occupazionali che è scudo e grimaldello: nessuno ha mosso un dito per i lavoratori del Sulcis o dell’Alcoa se non garantendo di adoperarsi per ‘cercare’ il miglior offerente. Nessun numero, nessun allarmismo. Per Taranto no: il numero è importante e continua a lievitare. Starci dietro è forse un modo per legittimarlo e allora lasciamo pure che diano… i numeri.
La verità emerge in qualche rigurgito involontario: “Taranto è città necessaria e l’Italia non può fare a meno del suo acciaio”. Sebbene non sia detto esplicitamente, viene il dubbio che a questo punto il pensiero represso sia ‘Costi quel che costi!’ dove ovviamente la perdita non è di natura economica ma in salute e vite umane.
È partiticamente trasversale la difesa di un catorcio che come si dice a Taranto si tiene su ‘c’u sputure’ (con la saliva): tutti sanno che inquina ma tra difesa della proprietà e difesa della produzione si è fatto fronte unico. I buonisti vorrebbero ancora credere che la formazione sindacale di alcuni politici locali abbia condizionato le scelte a favore del lavoro. Bene: la magistratura svelerà se l’estrazione culturale possa aver inciso nel mettere sullo stesso piano salute e lavoro o se c’è altro. I bambini della scuola elementare ‘Emanuele Basile’ di Taranto invece non hanno dubbi: hanno appeso nella propria aula uno striscione che recita ‘La salute è la cosa più importante!’: hanno tra i 9 e i 10 anni e hanno sintetizzato così le informazioni che hanno acquisito e condiviso con i compagni e le loro insegnanti a conclusione del progetto ‘Ambiente e giardinaggio’. Bel messaggio che sarebbe utile, se ne avesse voglia e coraggio, fosse letto da chi poi appone firme decidendo le sorti di quei bambini.
“Se Ilva chiudesse, diventeremmo come Bagnoli: senza fabbrica e senza bonifiche”. Questa è l’altra parola d’ordine che allinea la stampa di regime. Che grande considerazione e fiducia nel patron Riva… Accade così nella vita: per imperscrutabili ragioni, certi personaggi vengono rivestiti di ruoli contro natura e fuor di logica. Il più grande inquinatore della storia moderna di questo paese (Ilva ha prodotto il 92% della diossina industriale italiana) dovrebbe mettere a norma impianti che richiedono dai 7 ai 12 miliardi per una riconversione che possa dirsi quantomeno decorosa e chissà quanti altri miliardi (una stima approssimativa parla di 150 miliardi; lo scriviamo a numeri per dare l’idea? 150.000.000.000!) di euro per le bonifiche dei terreni e delle falde interne al mostro d’acciaio.
Non pensavano gli organizzatori del grande ‘sopruso’ contro la salute dei tarantini che la rabbia e la voglia di riscatto venisse dal basso: quella è fiume travolgente. Non basta una misera legge ad aziendam a svilirla, non serve una sentenza della Corte costituzionale – che Taranto, città dignitosa e legalitaria, rispetta ma non condivide – a svuotarla di energia. Ci sono fermenti tra i due mari: fermenti di riscossa.
Non è una riunione dei ragazzi dei centri sociali l’inaugurazione della piazzetta Totò De Curtis nel rione Italia Montegranaro ad opera di ‘Ammazza che piazza’: centinaia di giovani, da mesi, ripuliscono e curano i polmoni verdi della città come pure piccole aiuole pubbliche. Il loro è entusiasmo contagioso: si respirava aria nuova sabato 1° giugno tra gli stand di sensibilizzazione alle tematiche ambientali o solo di autofinanziamento. Il banchetto di sostegno alla fondazione Taras 706 a.C. non era fuori luogo: Taranto è la prima città italiana che sperimenta l’azionariato popolare nel calcio. Fermenti: fermenti di rincorsa.
Lo slopping di lunedì 27 racconta l’ennesima storia di miopia politica: quella fabbrica è fuorilegge persino rispetto ad una normativa che le hanno cucito addosso. Se la classe politica italiana avesse visione e un minimo di buonsenso, pur nell’ostinata volontà di conservarsi l’acciaio di Stato, si creerebbe un piano B, una rete di protezione: per i lavoratori, per la città, per se stessi. Invece no: nessuna alternativa all’Ilva; meglio evitare tentazioni pericolose. Verrebbe quasi da dar loro ragione: andremmo stanotte a spegnerla quella fucina di malattie e morte.
Avranno anche evitato tentazioni pericolose ma non impediranno che la storia presenti loro il conto: il governatore di Puglia dovrà spiegare cosa è rimasto del progetto del Distripark a Taranto – a Rotterdam impiega 85.000 addetti - come pure dei veti e delle strane autorizzazioni negate a volàni economici come l’aeroporto ‘Arlotta’. Fermenti autodistruttivi.
Sintomaticamente, in un momento di assenza assoluta della Politica (non c’è errore di battitura: quella con la ‘p’ maiuscola) da Taranto, si provocano gli ambientalisti – che in riva allo Jonio vogliono farsi chiamare ‘vivisti’ come difensori della vita e basta – chiedendo di dare alternative. Non spetterebbe loro questo compito ma per essere credibili si sono cimentati creando un pool di esperti che mettesse mano ad una materia tanto delicata. Le idee ora sono su carta: qualcuno le vorrà prendere in esame?
La partita, però, si gioca sul tavolo dell’unione d’intenti tra città e quei lavoratori terrorizzati dall’idea di veder chiusa la fabbrica che rappresenta in molti casi l’unica fonte di reddito familiare. Ci sono i ‘liberi e pensanti’ che all’interno della fabbrica fanno proseliti ma quell’ipotesi pietrifica la maggior parte degli operai del siderurgico: sarebbe sciocco minimizzare un timore simile e uscirne si può solo con un grande slancio collettivo, sintesi di tutte le battaglie fatte all’ombra delle ciminiere.
Taranto non abbandona i suoi operai e li abbraccia, di una stretta avvolgente, creando un fondo di garanzia: 10 cent a litro di carburante, è la nostra proposta, in tutte le stazioni di servizio della provincia ionica da accantonare per sostenere il reddito sino a quando non partiranno le nuove assunzioni e le bonifiche. Un modo per essere ‘cives’ che toglie spazio a chi fomenta le divisioni alimentando il disprezzo per i ‘vivisti’ con domande del tipo “E se l’ilva chiude, gli operai vengono a mangiare a casa vostra?”. Per la cronaca, ci si batte perché i rischi – per tutti – di malattie e morte siano zero a causa degli inquinanti del siderurgico, non perché le ciminiere rovinano (che pure è vero!) il paesaggio di una delle più belle città europee. Fermenti di solidarietà.
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