Taranto, ora la risposta sia popolare

I provvedimenti del governo non tutelano più nessuno tranne le grandi banche e le multinazionali e si ostinano a mantenere Taranto in una situazione economica e sanitaria indegna di un paese occidentale, l'unica speranza è, dunque, quella di una risposta dal basso.
9 febbraio 2015
Antonio Caso

Luciano Manna / PeaceLink


La situazione dell’Ilva, soprattutto di quelle ditte locali che formano l’indotto, si aggrava ogni giorno di più.
Dopo la colonna di cica 150 tir che ha invaso le statali che portano a Taranto giovedì scorso, proteste analoghe hanno avuto luogo oggi a Venezia e ad Alessandria dove altre imprese vantano crediti, seppur inferiori, nei confronti dell’Ilva.
Si parla di circa 6, 7 milioni a testa per Venezia e Alessandria e di 15 milioni per il trasporto delle ditte di Taranto e di 150 milioni per l’indotto industriale.
I senatori Tomaselli e Laniece hanno presentato degli emendamenti in commissione industria, sei proposte tra le quali una che sbloccherebbe i 156 milioni del contenzioso Fintecna in cambio, però, l’azienda dovrà rinunciare all’indennità per eventuali danni ambientali precedenti al 16 marzo 1995 concordata al momento dell’acquisto di Italsider da parte dei Riva.
Un’altra proposta prevede la modifica del fondo di garanzia per le pmi fornitrici e creditrici dell’Ilva, alzandolo da 24 a 30 milioni ed inserendo una garanzia dell’80% sui crediti erogati e, al di là degli emendamenti, Intesa San Paolo starebbe pensando a nuovi aiuti ad Ilva.
La Cgil e la Fiom di Taranto avevano già evidenziato la mancanza di tutele nel nuovo decreto proprio per i lavoratori dell’indotto, al contrario di quelle fornite alle banche per le quali, nel precedente decreto era stata applicata la prededuzione, un’ulteriore tutela rispetto agli altri creditori nel caso in cui Ilva fosse fallita.
Il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo, in un articolo sul Sole 24 ore (di Domenico Palmiotti 7 febbraio 2015), aveva dichiarato:
“Vuol dire che si tutelano le multinazionali e i grandi gruppi che l'Ilva ha chiamato nei mesi scorsi per il rifacimento degli impianti o per i progetti di copertura dei parchi minerali. Grandi realtà che per il loro spessore possono anche permettersi di sostenere la procedura dell'amministrazione straordinaria. Per noi, invece, non è così.”
Allo stato attuale delle cose, il decreto ILVA e l’applicazione della legge Marzano stanno concretizzando gli scenari peggiori previsti dai comitati tarantini.
Il primo riguarda le evidenti difficoltà e il dilungarsi dei tempi di bonifica dei terreni, non solo quelli dello stabilimento. A Taranto c’è il divieto di pascolo e di coltivazione in un raggio di 20 km dallo stabilimento, ci sono aree dei tamburi dove per i bambini è vietato giocare, ci sono tratti di mare ancora totalmente contaminati in cui i mitilicoltori hanno subito ingenti danni.
La conferma del danno e del bisogno di bonifiche Taranto l’ha avuta qualche giorno fa quando è stata trovata diossina in 64 bovini d’allevamento a Massafra, forse proprio a causa del foraggio prodotto in una zona limitrofa allo stabilimento.
Il seconda riguarda i lavoratori.
Se vengono tutelate le grandi multinazionali dell’acciaio e, soprattutto, le grandi banche, non si può certo dire la stessa cosa per quanto riguarda le ditte dell’indotto che sono tutte pmi locali appartenenti ad un tessuto industriale di un territorio già devastato dalla crisi economica.
Oltre a tutto questo, infatti, va detto che a Taranto il problema non è solo Ilva, nel tarantino il tasso di disoccupazione, nel 2012, era del 44,55%, circa 110.000 persone il che significa che anche “risolvendo” il problema ILVA e rendendola competitiva sicuramente non si salvaguardia l’economia del territorio, un’economia che attualmente praticamente non esiste, non è pianificata, non ha un progetto a lungo termine.
Questa è l’economia incentrata su un solo settore (ILVA vale da sola il 70% del pil della provincia), un’economia che annienta l’autodeterminazione, basta dire che la seconda azienda del tarantino, dopo ILVA, è un’azienda di call center.
Difendere questo tipo di economia vuol dire difendere i tarantini?
A Bilbao in una situazione molto simile, con il 30% di disoccupazione, dopo la crisi dell’acciaio si è deciso di voltare pagina, creando un enorme indotto locale per nanotecnologie, cultura, design e turismo e nello stesso tempo riuscendo a bonificare l’ambiente.
Il governo aveva l’opportunità di rendere Taranto un esempio per un nuovo rilancio del Meridione, ma questa opportunità è stata sprecata, ora ce l’hanno i tarantini.
Le politiche messe in atto, infatti, non tutelano nessuno.
Non tutelano l’ambiente perché i parchi minerali attendono ancora la copertura, viene annunciata dal 2012; non tutelano i lavoratori e le aziende locali perché l’indotto con l’applicazione della legge Marzano è stato messo senza alcun problema in enorme difficoltà; non tutelano i bambini di Taranto visto che ogni giorno il malfunzionamento dei sistemi di areazione continuano a far innalzare nuvole di polveri costantemente fotografate dalle eco-sentinelle tarantine.
La città deve unirsi in un progetto comune che parta dal basso, che coinvolga chi ha perso il proprio lavoro, allevatori e mitilicoltori, chi finora a Taranto è stato disoccupato (ma evidentemente questo non è mai stato un problema per i governi nazionali che si sono susseguiti visti che parlano di “salvare il lavoro”) e chi, malgrado gli sbandierati interventi dell’ultimo decreto, ha sempre più possibilità di diventarlo.
A Taranto persistono due mentalità che vanno inesorabilmente scardinate.
La prima è quella che criminalizza chi chiede il rispetto della legge, come se i comitati ambientalisti fossero composti da sadici contenti a vedere operai che perdono il posto di lavoro.
La seconda è quella padronale.
Il padrone non vorrà mai che lavoratori anche se di luoghi diversi si uniscano, meglio dividerli in forestieri e non, e soprattutto non vorrà mai che uno studente, un operaio e un allevatore possano parlarsi, possano progettare insieme un futuro migliore per se stessi e per i loro figli, chi per creare il proprio lavoro e non emigrare e chi per riprenderselo, perché oltre al lavoro vorranno riprendersi la dignità e questo, evidentemente, non può che fare paura.

Taranto deve iniziare a far paura.

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