L'acciaio, l'economia e i bisogni delle persone
Una strategia sostenibile per l’acciao
Il mondo è entrato in una nuova fase economica recessiva di tipo strutturale, così come entrò nel 1929 con la crisi di Wall Street.
L’attuale crisi economica è caratterizzata da un eccesso di capacità produttiva in diversi settori, fra cui anche l’acciaio. L’industria è sovradimensionata rispetto alle effettive esigenze dell’economia reale e dei bisogni effettivi della popolazione mondiale che - benché segnata da povertà e bisogni di emancipazione - ha più bisogno di cibo e cure mediche che di acciaio. L’attuale sistema economico mondiale programma gli investimenti in funzione dello sfruttamento pieno della capacità produttiva degli impianti e in funzione dei profitti. Quelle che sono le reali esigenze del pianeta e della popolazione mondiale non sono oggetto di investimento economico in quanto non hanno alcun profitto di ritorno: salvare vite umane con farmaci per la malaria o altre malattie dell’Africa e dei paesi poveri sarebbe necessario, ma questi farmaci non hanno acquirenti dotati di reddito, questa domanda non produce profitto. Pertanto beni di assoluta necessità non vengono prodotti. Viceversa beni di scarsa necessità non solo vengono prodotti ma vengono prodotti in misura eccessiva rispetto alla effettiva richiesta in quanto occorre sfruttare impianti esistenti e investimenti pregressi. In altri termini oggi nel mondo si produce poco per ciò che serve e troppo per ciò che è superfluo. Oggi nel mondo l’eccesso di capacità produttiva di acciaio rientra nella logica del superfluo. Produrre più acciaio rispetto alle reali necessità non rientra nell’obiettivo di salvare vite umane o nell’obiettivo di ridurre la povertà.
Credo che sarebbe saggio prevedere una “decrescita” della produzione di acciaio, accettando il fatto che una fase della crescita è finita e che forzarne artificialmente la prosecuzione è sbagliato. La stessa Cina sta chiudendo le sue acciaierie obsolete e superflue e sta riducendo la produzione da due anni a questa parte. La transizione da un’economia di produzione pesante a un’economia postindustriale di servizi sta caratterizzando tutto il mondo e anche la Cina. Accettare questa transizione epocale significa prendere atto che una fase della storia è finita e ne comincia un’altra.
Dopo il 1929 la crisi di sovrapproduzione venne superata con le politiche keynesiane di intervento pubblico nell’economia e con politiche di consumismo spinto. Questa scelta di politica economica oggi non è più proponibile sia per i vincoli di bilancio (spesa pubblica e deficit sono posti sotto controllo dall’Europa) sia per vincoli ecologici (il consumismo non può più proseguire all’infinito).
La necessità di produrre sempre di più, vendere sempre di più, consumare sempre di più, si scontra con la realtà di un pianeta con dimensione e risorse finite. Chiunque abbia buon senso o semplicemente si fermi a ragionare si rende conto di come sia difficile credere in un'economia come la intendono ormai tutti. Kenneth Boulding (1910-1993) economista appunto, ebbe a dire un giorno: “Chi crede ad una crescita esponenziale che possa continuare all'infinito in un mondo finito o è un pazzo o è un economista”.[1]
1) ridurre il più possibile la produzione di acciaio superfluo, anche a costo di contestare le visioni sindacali e politiche corporative, in quanto la produzione di acciaio superfluo è causa di inquinamento, malattie, morte e di emissioni inaccettabili di CO2;
2) collegarsi alle popolazioni indigene che adesso vengono sfruttate e deportate per l’estrazione delle materie prime che servono all’industria dell’acciaio (vi sono coordinamenti internazionali di popolazioni indigene in cui è importante il nostro sostegno attivo e diligente, noi come PeaceLink lo stiamo facendo con le popolazioni che contestano lo sfruttamento e la distazione della Foresta Amazzonica compiuta dalla multinazionale Vale, grande produttrice di minerale di ferro);
3) investire in ricerca nelle migliori tecnologie per la produzione di acciaio, garantendo al contempo alle popolazioni indigene condizioni ambientali accettabili e tecnologie capaci di ridurre l’impatto delle attività collegate all’acciaio;
4) superare una visione eurocentrica dell’acciaio e una visione di comodo della Cina (accusata di dumping quando minaccia le nostre industrie e considerata come una risorsa quando i capitali europei investono in quella nazione per costruire gli Ipad o gli oggetti dell’Ikea); occorre avere ben presente che il ciclo dell’acciaio è mondiale e parte dalle attività estrattive e si conclude nel consumismo attuale della produzione di auto, e tutto questo va ridotto perché non serve alle gente e all’ecologia ma solo a chi fa profitti;
5) contestare le grandi opere superflue di cementificazione e di consumo del suolo; tali attività fanno ampio uso dell’acciaio ed erodono lo spazio della terra destinato ad attività agricole e a spazio verde; il consumo di suolo va fermato e questa spinta di conservazione del territorio sarà un deterrente all’uso dell’acciaio e del cemento armato;
6) ridurre le attività estrattive di ferro che si valuta possano esaurire in circa 70 anni le miniere esistenti.
In sostanza le politiche di riuso, riqualificazione ambientale e di austerità favoriranno un altro tipo dell’economia basata sui servizi, sulla cura della persona, sull’assistenza delle persone svantaggiate e povere, sugli immigrati. La crescita demografica tenderà a ridursi con l’aumento dell’educazione delle donne. Nel mondo di domani non c’è bisogno di più consumi superflui ma di una ridistribuzione delle risorse basata sull’equità e sulla giustizia sociale. Le principali cause delle sofferenze mondiali sono le guerre, di cui siamo responsabili con l’esportazione delle nostre armi (fatte con il nostro acciaio). Non un solo bambino morirà perché non abbiamo prodotto abbastanza acciaio. Viceversa il futuro dell’umanità è sempre più legato alla capacità di eliminare le guerre che alimentiamo colpevolmente, di ridurre le diseguaglianze sociali di cui siamo responsabili in vario modo e di considerare i limiti del pianeta. Fra questi limiti vi è quello delle risorse e della capacità di consumarle in modo crescente e indefinito. E’ finita un’epoca storica della “crescita” sia per l’economia sia per l’acciaio. E’ finita una cultura e un’ideologia che ha accomunato marxisti e liberisti, in varie le sfumature.
L’agonia di questa ideologia del consumo indefinito e a tappe accelerate si riassume nelle strategie sempre più assurde dell’”obsolescenza programmata” degli oggetti, che vengono accantonati o gettati anche se non si rompono. Questa tentazione di sviluppo infinito basato sulla manipolazione mentale è accompagnato da:
- pubblicità che crea il desiderio di consumare senza fine;
- il credito e le carte di credito che forniscono i mezzi monetari per soddisfare questa crescita dei consumi anche oltre le possibilità reali.
E’ una politica che nulla ha a che fare con i bisogni della gente (e men che meno con quelli della popolazione più povera del pianeta) ma che è funzionale al sostegno della domanda. E’ una strategia finalizzata a continuare indefinitamente a consumare, anche oltre i limiti delle risorse. Cose che appena vendute sono già considerate superate e vecchie, si guastano alla scadenza della garanzia con studi sulla durata dei componenti. Il tutto è accompagnato dalla moda e dallo stillicidio di piccoli miglioramenti apparenti. A tutto questo non sfugge l’industria delle auto, a cui è collegata una parte della produzione di acciaio, che attualmente è una delle prime produttrici di pubblicità. L’industria delle auto si serve di quelli che il sociologo Vance Packard chiamava i “persasori occulti” per manipolare le menti. E a questa manipolazione e instupidimento della popolazione è legato l’aumento dei consumi, anche di acciaio. Una riconversione culturale ed economica basata sulla critica del superfluo e del consumismo sfrenato penalizzerebbe notevolmente diversi settori delle multinazionali che su questo consumismo hanno creato la loro ragione di essere.
A questo proposito è importante il fenomeno dei downshifting. La semplicità volontaria (neologismo della lingua italiana, in inglese downshifting) all'interno del mondo del lavoro e del più vasto concetto di lifestyle «stile di vita» o simple living «vivere in semplicità» è la scelta da parte di diverse figure di lavoratori - particolarmente professionisti - di giungere ad una libera, volontaria e consapevole autoriduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, così da godere di maggiore tempo libero (per dedicarsi alla famiglia, all'ozio, all'hobbystica, ecc.). Questa innovazione all'interno delle filiere produttive industriali ed economiche ha dato vita ad un vero e proprio movimento di pensiero ed è considerata dai sociologi una delle più eclatanti e vistose conseguenze di uno fra i molti mutamenti sociali e di costume intervenuti negli ultimi anni nell'ambito del mondo del lavoro.[2] A questi concetti si collegano le teorie economiche della decrescita che non puntano alla povertà ma a combattere le teorie delle crescita infinita e del consumismo, incompatibili con i limiti del pianeta e non capaci neppure di garantire i bisogni esistenziali.[3]
Un’economia dei servizi che al PIL sostituisca gli indicatori alternativi di benessere (ad esempio il Genuine Progress Indicator, ma ve ne sono anche altri) farebbe scendere notevolmente l’acciaio dalle priorità strategiche dell’economia.[4]
Alessandro Marescotti
PeaceLink
"We will never find a purpose for our nation nor for our personal satisfaction in the mere search for economic well-being, in endlessly amassing terrestrial goods. We cannot measure the national spirit on the basis of the Dow-Jones, nor can we measure the achievements of our country on the basis of the gross domestic product (GDP) Our gross national product counts air pollution and cigarette advertising, and ambulances to clear our highways of carnage. It counts special locks for our doors and the jails for those who break them. It counts Whitman's rifle and Speck's knife, and the television programs which glorify violence in order to sell toys to our children. It counts napalm and the cost of a nuclear warhead, and armored cars for police who fight riots in our streets. Yet the gross national product does not allow for the health of our children, the quality of their education, or the joy of their play. It does not include the beauty of our poetry or the strength of our marriages; the intelligence of our public debate or the integrity of our public officials. It measures neither our wit nor our courage; neither our wisdom nor our learning; neither our compassion nor our devotion to our country; it measures everything, in short, except that which makes life worthwhile. And it tells us everything about America except why we are proud that we are Americans." Bob Kennedy [1] Cfr. http://crescitaimpossibile.blogspot.it/2011/04/decrescita.html [2] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Semplicit%C3%A0_volontaria [3] Cf. https://it.wikipedia.org/wiki/Decrescita [4] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Genuine_Progress_Indicator
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