La mia storia con Yasser Arafat
Il tempo per le parole, le discussioni, le polemiche, i plausi, le ricostruzioni di una storia non manca mai. In certi momenti si rischia di essere sentimentali, o eccessivamente critici, per controbilanciare, o semplicemente di cadere nella polemica spicciola.
«Per ogni cosa c'è Una stagione, un tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per sanare le ferite,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare
e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace».
(Yitzhak Rabin pronunciò queste parole nel discorso in occasione della firma degli Accordi di Oslo)
Ho sempre creduto che il più grande rispetto che si possa avere per un persona appena morta sia il silenzio.
Il tempo per le parole, le discussioni, le polemiche, i plausi, le ricostruzioni di una storia non manca mai. In certi momenti si rischia di essere sentimentali, o eccessivamente critici, per controbilanciare, o semplicemente di cadere nella polemica spicciola.
Forse però la grande tristezza che sento, che, percepisco, molti di noi sentono all'idea che il piccolo uomo con la kefiah non ci sia più merita uno sfogo. Forse qualche parola e basta, anche dura, anche lontana e anche poetica. E poi qualche lacrima per quello che, con la sua umanità vissuta con tutti i difetti dell'uomo, la voglia di potere, di ricchezza, Arafat è stato: il simbolo della lotta di un popolo per la libertà. Arafat era questo, con tutte le contraddizioni di un uomo, che sono anche le contraddizioni di un popolo. Con tutta la stanchezza e l'isolamento di un uomo che sono anche stanchezza e isolamento di un popolo.
«Nessuno che sia sempre stato libero può capire il terribile, affascinante potere della speranza di libertà per coloro che non sono liberi». E' una frase di Pearl S. Buck, che molti palestinesi stanno regalando in queste ore al loro leader.
La mia storia con Yasser Arafat è simile a tante altre. Forse scontata, banale. L'idolo di una ragazzina liceale che strilla «Palestina libera» nei cortei, così come uno slogan che non ha un vero significato se non quello della contrapposizione. La kefiah vissuta come moda, icona di una ribellione al potere, all'imperialismo dominante. E grandi parole urlate, senza comprendere fino in fondo le cose reali quotidiane, che dietro quelle parole si celano.
Un giorno è arrivato il momento di mettersi in gioco in prima persona. Conoscere quale realtà ci fosse dietro quelle parole. Per certi versi è stato un gioco anche quello. Un gioco dove la ragazzina ha avuto la neccessità di crescere. Semplicemente, mi sono scontrata con una realtà che nessuno slogan avrebbe potuto rappresentare.
Così la mia vita è arrivata nei Territori Occupati. Così ho compreso quale disperazione può celarsi dietro «Palestina libera»: il coprifuoco, i check point, le by-pass road, le colonie. La negazione dell'umanità. In una parola: Occupazione.
Così ho conosciuto Yasser Arafat. Mi capitava di accompagnare delegazioni italiane a trovarlo alla Muqata. Mi baciava la mano, con le labbra tremanti. Ogni volta mi chiedeva chi fossi e cosa facessi lì, e, alle mie spiegazioni, ripeteva sempre più o meno la stessa frase «Grazie piccola italiana che tanto fai per il mio popolo».
Ma così è anche caduto un mito. O meglio il mito ha fatto i conti con la realtà.
Poteva mai essere davvero quello che mi stava baciando la mano il mio idolo dell'adolescenza?
L'ultima volta che l'ho incontrato e' stato ad aprile dello scorso anno a Ramallah. Ricordo: ero stanca, non ne avevo voglia. Polemizzai con il responsabile di una delegazione ufficiale regionale italiana: «perchè vi ostinate a voler incontrare Arafat? - dissi – Arafat non è il suo popolo, il suo popolo soffre ogni giorno, incontrate chi davvero soffre .»
«They're playing a game» mi ripetevano spesso tanti amici palestinesi. In qul «They» c'erano tutti, i leader dell'Autorità Nazionale, i capi di stato arabi, il mondo arabo in generale, e il Grande, Terribile Nemico, Ariel Sharon.
«E Arafat?» chiedevo io. «Arafat, lui cosa conta, che può fare, ormai è vecchio, stanco malato...» , la risposta.
Nonostante la condanna forte, le parole dure di molti palestinesi verso la loro leadership. un'Autorità Nazionale sempre più lontana dalla gente e dalla sofferenza quotidiana di una massa di senza speranza, la stessa condanna verso Yasser Arafat non l'ho mai sentita, da nessun palestinese.
Credo che questo vada rispettato. Fino in fondo.
Dittatore, autocratico, corrotto, forse. Senza lo spessore culturale e umano di palestinesi meno conosciuti di lui, come Edward Said, sicuramente.
Ma credo che oggi sia importante dare voce, credibilità, forza, identità alla sofferenza infinita di questo popolo. Una sofferenza che noi, per fortuna, non possiamo neppure immaginare.
Non credo che oggi spetti a noi, cittadini del nord occidentale e benestante, criticare Arafat. Certo, non può esistere giustizia senza verità (sembra anche questo uno slogan!), e neppure per rispetto verso un morto si può fingere che la storia non esista, si può dimenticare ciò che è stato. Ma allora perchè non porre l'accento sulla nostra storia, su quelle che sono le nostre responsabilità nel conflitto israelo-palestinese?
Non è ipocrita oggi, da parte nostra, ricordare la corruzione, la ricchezza, le connivenze con il terrorismo, la voglia di potere di un uomo che comunque, credo sia impossibile negarlo, ha amato profondamente la Palestina e la sua causa? Da quale pulpito viene la predica? Interroghiamoci.
Non è possibile portare la democrazia ad un popolo. Qualsiasi forma di democrazia deve essere autoctona, deve nascere dalle radici, dalle basi della società stessa, non può essere un modello imposto dall'esterno. Allo stesso modo non si può giudicare un lutto, le modalità con cui viene vissuta una sofferenza altrui.
E dare dignità a un popolo vuol dire dare dignità ai suoi sentimenti.
Per questo sarebbe bello rispettare il lutto di un popolo di disperati che vede in Arafat il simbolo della sua lotta per la libertà. Stare al fianco di quel popolo oggi, in silenzio, con umiltà, senza giudizi e sterili polemiche, chiedendoci semmai cosa possimo fare noi perchè arrivi finalmente un po' di pace in Medio Oriente. Noi che non abbiamo mai avuto il coraggio di «sporcarci le mani», silenziosi e inattivi, ma non per questo meno complici.
Forse dovremmo assumerci le nostre responsabilità in prima persona.
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