IL REFERENDUM SULLA UE - La nostra malattia francese
MENTRE gli Stati dell'Unione già si preparano al possibile no che gli elettori
francesi opporranno alla Costituzione europea, il 29 maggio, conviene cercare di capire le menti di quel popolo apparentemente così lontano, così prigioniero
del suo passato nazionale, così malmostoso e riluttante, quando si tratta di cambiare abitudini e regole e progetti per il futuro. Quella prigionia e quella riluttanza non sono infatti del tutto estranee al resto degli europei,
cosa che vedremmo con chiarezza se si votasse in tutti i Paesi dell'Unione.
In gran parte d'Europa il socialismo e le sinistre stanno d'un tratto riscoprendo le comodità della vecchia critica anticapitalista, come dimostrato da quel che va dicendo, in sintonia con un numero crescente di socialisti francesi, il presidente della socialdemocrazia tedesca Franz Müntefering a proposito degli investitori finanziari che «s'avventano come cavallette distruttrici sulle imprese». Altri socialisti come Zapatero o Blair poco si curano dell'Europa, e solo in Italia la sinistra pare oggi avere un rapporto con la realtà che non sia menzognero, provinciale, narcisista. Quanto all'antieuropeismo delle destre, non si può dire che la Francia sia sola: sono ostili anche la Lega in Italia, e le destre estreme in varie nazioni attorno a noi.
In nessun Paese tuttavia l'astio verso l'Europa è così di moda come in Francia,
così diffuso anche tra i giovani, così bene accetto tra intellettuali che
contano, così radicato in tutte le età, i mestieri, le correnti politiche.
C'è qualcosa di tumultuoso-rivoluzionario e di volitivo nel no maggioritario
che da settimane s'esprime nei sondaggi, qualcosa di fieramente sansculotte:
come se ci preparasse all'uccisione d'un re. Il politologo Dominique Reynié
parla di «insurrezione fredda», perché il radicalismo è quello, anche se non son pronti tribunali regicidi. Non a caso le vecchie regioni giacobine (quelle che hanno sempre guardato solo a Parigi: lo Champagne e il Limousin) votano no. Mentre quelle più cattoliche e anticamente decentrate, che nella rivoluzione divennero monarchiche e girondine (Bretagna e Languedoc, Dauphiné
e Pirenei) votano piuttosto sì.
Di certo, comunque, il fronte dei sì europeisti appare il più sorpassato,
polveroso. Ogni loro argomento è come cadesse nel vuoto, ogni razionalità
è confutata in nome di grandi passioni volontariste. Un volontarismo singolare,
con legami esilissimi se non nulli con la realtà, ma che non è nuovo in
Francia: già Tocqueville diceva che la politica, qui, era essenzialmente
letteraria, priva del senso commerciale, industriale, economico, coltivato
in altre democrazie borghesi.
E letterario è il rapporto che i francesi hanno oggi con l'Europa, come
se non l'Europa vera essi avessero di fronte ma una vasta Bastiglia, un
regime vuoto e marcescente, un lontano potere abusivo, un re da ignorare
o scacciare.
Tale è oggi l'Unione, agli occhi non solo di quei nazionalisti di destra
o sinistra chiamati souverainistes, fautori di un'immutata sovranità nazionale.
Non è un'Europa dove la libertà delle nazioni e degli individui viene ritrovata,
dopo esser andata perduta nel chiuso dei perimetri nazionali. È vista come
un'Europa che incarna il regno della necessità, che si presenta come un
tempo dove spadroneggia la forza presuntuosamente fatale d'un destino. Votando
no si rifiuta il fato, e si favorisce il passaggio dal regno della necessità
a quello della libertà. Nel regno della necessità l'uomo è assoggettato
alle merci, ai padroni, all'alienazione. Nel regno della libertà la politica
ritrova spazio, e con essa - si spera - le alternative e la dialettica.
In questo i francesi che votano no sono letterati, dunque astratti secondo
Tocqueville: basta volere una cosa con tutta la forza della retorica, e
a questo volontarismo vien dato il nome di libertà effettiva. Basta chiamar
necessarie alcune cose reali, e la realtà viene spazzata via come irreale.
Di questo fossato apertosi fra immaginazione e realtà sono responsabili le classi dirigenti francesi, e non solo quelle che governano oggi. Sono classi dirigenti che hanno vissuto nell'illusione e che non hanno smesso di propagare illusioni, anche quando si son gettate nell'avventura europea.
Non hanno mai sfatato il mito della sovranità nazionale assoluta, che è poi il mito arcaico del Regno che tutto da solo s'oppone al Sacro Romano Impero che gli è accanto. Non hanno mai detto a se stesse che lo Stato-nazione era uscito perdente dall'ultima guerra, e che c'era qualcosa di fittizio nella Francia seduta al tavolo dei vincitori. Non hanno mai riconosciuto, dopo la riunificazione tedesca, che Parigi non era più il solo centro d'Europa.
Non hanno mai ammesso che l'opposizione alla guerra in Iraq, e il fastidio con cui vennero trattati i Paesi dell'Est candidati all'adesione, sarebbero sfociati nell'isolamento di Parigi. Non hanno mai spiegato ai cittadini che l'allargamento a Est era un'opportunità, non un'umiliazione per la grandezza nazionale. Anche quando fu creato l'euro, un dépliant del ministero del Tesoro annunciava che la sovranità della banca centrale francese veniva esaltata: una bugia fra le tante che le élite hanno detto al popolo e che minacciano adesso di vendicarsi.
Ma lo Stato francese non si riassume in queste menzogne. Lo stesso Stato fondò il mito incarnatosi nell'unità europea, nella seconda metà del '900.
L'idea di abolire le guerre nel continente mettendo insieme le industrie
belliche dell'acciaio e carbone francesi e tedesche è di Monnet e Schuman.
Il metodo comunitario che consiste nel delegare parti crescenti di sovranità
è un'idea francese, come ha ricordato su Le Monde Bino Olivi, ex portavoce
della Commissione. L'Europa che si è fatta, la si è fatta perché la voleva
la Francia. Quella che non si è fatta, non la si è fatta perché Parigi non
la voleva. La potenza di Parigi non ha mai cessato d'esistere, ma solo quando
s'è applicata a edificare l'Europa unita è stata reale, percepibile da tutti.
Quando s'è applicata alla retorica s'è tradotta in potenza apparente, impraticabile: letteraria, appunto. Oggi torna a prevalere tale idea chimerica della potenza, e di questa malattia francese l'Europa intera patisce.
Non per questo si spegnerà probabilmente lo sforzo d'unirsi, e anzi la crisi
potrebbe perfino rivelarsi provvidenziale, come ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera il 17 aprile: a seguito del no francese, forse, i più convinti europei s'impiegheranno a creare un'Unione ambiziosa fatta da un'avanguardia, non diluita e tendenzialmente inerte come temono molti elettori europeisti che in Francia voteranno contro. È una possibilità cui
accenna anche il ministro degli Esteri Fini, nell'articolo di ieri su questo
giornale.
Ma la malattia francese di cui soffre l'Europa converrà analizzarla, per
curarla. Varrà la pena per l'Unione, che non può continuare a edificarsi senza parlar più chiaro ai popoli. Varrà la pena per i politici francesi, che prima o poi dovranno cercare di capire quel che regolarmente rinchiude la loro società nell'inganno dei suoi isolamenti.
È una lunga battaglia, quella che gli europeisti francesi e non francesi
hanno condotto da più di mezzo secolo per convincere Parigi che la leggendaria
epoca del Regno-Nazione era finita, che forme politiche meno accentrate e più internazionalizzate (alcune dicono: imperiali) erano più consone ai tempi e alle ambizioni nazionali. Il filosofo Alexandre Kojève tentò inutilmente di ricordarlo a De Gaulle, in un memorandum scritto poche settimane dopo la fine della guerra (Abbozzi di una dottrina di politica francese, 27 agosto 1945). L'era degli Stati nazione era tramontata, la rivoluzione francese era finita - disse Kojève in quel testo in parte profetico - tanto più che l'ultima loro espressione, quella del «nazionalismo rivoluzionario scoperto tardivamente dalla Germania» tramite il «Robespierre tedesco che era stato Hitler», era finita in catastrofe. Anche in Francia non esistevano più cittadini fedeli all'universalismo della nazione, ma borghesi e individualisti cui bisognava offrire l'universalismo di forme politiche più decentrate e ampie, fatte di «nazioni affiliate».
L'Impero Latino, né anglosassone né sovietico, era secondo Kojève il destino
di una Francia che non volesse perire. Non solo il destino imposto dalla
necessità, ma il destino che le avrebbe restituito la perduta libertà di
contare nel mondo. De Gaulle non lo ascoltò, anche se nell'appello alla
resistenza pronunciato alla Bbc il 18 giugno 1940 aveva abbandonato il mito
del Regno solitario, aveva detto che la libertà francese sarebbe sopravvissuta
«grazie al vasto Impero» che aveva alle spalle. Oggi la Francia pencola
di nuovo tra miti contrastanti. Non sarà l'impero la soluzione, ma neppure
l'arcadico regno della libertà nazionale assoluta, che solo Marx ha avuto
l'ardire di promettere. Un regno che «regola la produzione generale e appunto
in tal modo mi rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell'altra,
la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».
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