Costituzione europea e referendum francese: La menzogna nazionale

23 maggio 2005
Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa - 22 maggio 2005

Da mesi ormai i francesi discutono di Europa, come mai si è discusso in un Paese dell'Unione. Se ne sente parlare nei metrò, se ne discute e ci si divide tra amici, nei caffè basta una scintilla e la conversazione parte sui paragrafi più complicati della Costituzione (quelli che riguardano le decisioni all'unanimità, oppure concernono la sopravvivenza del servizio pubblico, essenziale in Francia). Intanto nelle librerie s'affastellano i libri sull'Europa, positivi o no. Chi voglia comprendere cosa accade alla vigilia del referendum del 29 maggio dovrà non solo occuparsi della storia di questo Paese, ma leggere quel che la Costituzione dice esattamente sui poteri attribuiti ai vari organi dell'Unione, e sulle politiche che intende promuovere o frenare, inventare o superare.

I francesi sono infatti più preparati di tutti i loro concittadini europei,
al momento attuale. Fanno pensare alla Germania, quando negli Anni 80 la
Nato decise di installare nuovi missili in Europa, per replicare al riarmo di Breznev: i tedeschi comuni parlavano di strategia militare con la destrezza di esperti. E gli esperti dovettero smettere l'arroganza dei propri criptici
vocabolari, per potersi misurare con i cittadini ostili ai missili. È proprio
quel che succede quando si parla di Unione, oggi in Francia.

La grande disputa francese sull'Europa ha in effetti qualcosa di singolare, se la si guarda da vicino: è bifronte, e di conseguenza non subito afferrabile.
Da una parte disvela quella che è una riluttanza antica della Francia: la sua ripugnanza a sacrificare lo Stato nazione, l'atavica reticenza del Regno francese a dissolversi nell'Impero europeo. Una reticenza che risale all'impero
romano e poi al successivo, germanico Sacro Romano Impero. È il volto vecchio,
dell'attuale suo antieuropeismo. Al tempo stesso tuttavia la disputa ha aspetti avanzati, anticipa addirittura i tempi futuri: la maggior parte di coloro che votano no alla Costituzione si dice europeista, non mette affatto in questione l'esistenza dell'Unione, vorrebbe poter dire la sua sulle politiche che l'Europa in quanto tale favorirà, non sull'essere o non-essere dell'Europa stessa.

Questa seconda tendenza si esprime in maniera confusa - il più delle volte
confonde la Costituzione con le politiche dell'Unione, o i poteri ancora
esercitati dagli Stati con quelli esercitati dalle istituzioni sovrannazionali
-, ma è una tendenza che ha peso in Francia e potrebbe presto averlo altrove.
Parigi non costituisce un caso unico: se tutti votassero, la somiglianza tra i popoli dell'Unione apparirebbe assai più grande dell'immaginato.

La cosa grave per l'Unione è tutta qui: che non tutti i popoli d'Europa si esprimeranno, la prossima domenica, ma solo un popolo e solo la Francia, che nella storia dell'Unione ha da sempre un posto speciale. È il Paese grazie al quale l'Europa si è fatta, nel dopoguerra assieme alla Germania, ma è anche lo Stato senza il quale l'unificazione si blocca, come è ripetutamente accaduto in passato, sia quando Parigi affossò la Comunità Europea di Difesa (1954), sia quando De Gaulle si oppose a nuovi poteri sovrannazionali e al voto a maggioranza (politica della sedia vuota, 1965-66). Se si votasse lo stesso giorno in tutti i Paesi dell'Unione avremmo non solo una Costituzione pienamente ancorata nella democrazia.

Supereremmo anche la singolarità della Francia, e quest'ultima sentirebbe più forte l'obbligo di tener conto degli argomenti avanzati dai Paesi alleati,
compresi gli europei dell'Est appena entrati nell'Unione e guardati con accanito sospetto a Parigi. Quest'occasione è stata purtroppo perduta, né i convenzionali presieduti da Giscard né i governi hanno osato proporre un referendum globale in Europa, e ora si paga il prezzo di questa pusillanimità e miopia.

In altre parole: la natura schizoide dell'elettore francese è caratteristica
di quel Paese ma al tempo stesso ci appartiene e ci rispecchia. Vuol dire che i popoli europei sono complessivamente a un bivio. Da un lato sono prigionieri del mito che fonda lo Stato nazione, e ad esso continuano a essere aggrappati nonostante la sovranità esclusivamente nazionale faccia acqua da tutte le parti. Dall'altro si comportano come se l'Europa già esistesse, perfettamente organizzata, e si trattasse ora di decidere quale politica seguire al suo interno: se una politica più liberista, o più sociale. Questo significa che l'europeizzazione dei popoli è ormai iscritta nei fatti, anche se è mal adoperata e a volte cinicamente sfruttata dalle élite politiche di destra o di sinistra.

È la tesi d'un libro indispensabile sullo stato dell'Unione, scritto l'anno scorso in Germania dai sociologi Ulrich Beck e Edgar Grande (Das kosmopolitische
Europa, Suhrkamp 2004). L'europeizzazione dei popoli è secondo gli autori già ampiamente diffusa nell'Unione, e sono in genere le classi politiche o intellettuali (giornalisti, esperti, sociologi) a indulgere nel «nazionalismo
metodologico» dei giudizi e previsioni. Un metodo che vede tutto attraverso il binocolo dell'esperienza passata, tipica dello Stato nazione, e che dunque non scorge quel che vi è di nuovo e di diverso nella costruzione - per metà
sovrannazionale per metà intergovernativa - dell'Europa unita.

È un po' come se nel '500 gli uomini della scienza e della politica avessero
descritto la propria epoca facendo finta che non fosse stata inventata la stampa, scrivono gli autori: allo stesso modo, oggi, le classi dirigenti non vedono in che cosa l'europeizzazione degli Stati e dei popoli già esiste, e già ha trasformato in modo radicale l'idea dello Stato e della nazione, della diversità e dell'uguaglianza, del comando politico e delle decisioni raggiunte attraverso cooperazione e consenso. In realtà le élite politiche e intellettuali si lamentano di mancanze europee che non sono mancanze, non appena si smette di osservare l'Unione con l'occhiale dell'auto-inganno
nazionalista.

Molti sono i luoghi comuni, che saltano grazie a quest'analisi sull'Europa
cosmopolita. Ad esempio, non ha più senso alcuno denunciare l'assenza di un dèmos europeo, di un'unica popolazione con ben definita identità. Un popolo simile è concepibile all'interno dello Stato nazione, non nella variegata
Europa dove cittadini e nazioni sono uguali di fronte alla legge e però restano diversi. Il dèmos europeo non ha nulla di omogeneo, e in fondo non è unito neppure dalle radici religiose, più o meno forti nei singoli Stati.
È unito dalla diversità stessa, come avviene appunto nel cosmopolitismo.

Ha le radici tipiche di un impero, non di uno Stato nazione omologato a forza tramite un monarca, un'idea etnica, o anche un potere egemone universalista.
Viene congiunto da un insieme di norme, risponde a più centri di comando che non si escludono a vicenda. Già da quarant'anni ha un ordinamento giuridico autonomo e costituzionalizzato: le prime decisioni della Corte europea di giustizia, in cui si sancisce la preminenza del diritto comunitario su quello nazionale, sono del '63-'64.

Un altro luogo comune che salta è l'idea che la sovranità dei singoli Stati
si perda, nel momento in cui viene trasferita ai poteri europei sovrannazionali:
che in qualche modo evapori. In realtà - questa la tesi degli autori di Europa Cosmopolita - i poteri che gli Stati perdono sul piano nazionale si riconquistano raddoppiati sul piano europeo. Alcuni vale la pena preservarli.
Altri vale la pena trasferirli per rigenerarli. Il gioco non è a somma zero
(i poteri sovrannazionali possono guadagnare solo quei poteri che strappano
alle istituzioni nazionali - l'Europa o diventa tutta federale o resta tutta
intergovernativa) ma è un gioco a somma positiva (tramite cooperazione si ottiene un guadagno maggiore in sovranità di quel che s'ottiene non cooperando).

Alla logica dell'alternativa secca (aut-aut) si sostituisce la logica del sia-sia (i poteri sono sia nazionali sia comunitari). Il modello non è più lo Stato nazione ma l'impero: non l'impero moderno dell'800-'900 e neppure l'impero egemonico descritto da Antonio Negri e Michael Hardt (Impero, Rizzoli 2002). È un impero cosmopolita, che si dà regole ma non un solo comando centrale. In esso, il senso nazionale non coincide più con un unico Stato.
È la seconda grande separazione che l'Europa deve compiere per fronteggiare la propria violenza, scrivono Beck e Grande: «Dopo aver separato lo Stato dalla religione nel trattato di Vestfalia, tocca adesso separare lo Stato dalla nazione».

In questi giorni, in Francia, possiamo toccare con mano i vizi dell'Unione.
Non esiste ancora una vera narrativa dell'europeizzazione avvenuta nei suoi
popoli, ma esistono solo narrative nazionali. Anche in Italia, quando si critica l'euro, si ragiona in tal modo: ricorrendo alla «menzogna esistenziale del nazionalismo». Così non sappiamo difendere la Costituzione. Così non sappiamo vedere le carenze dell'Unione, che ha esautorato i parlamenti nazionali, ha rafforzato gli esecutivi in Europa e nelle nazioni, e davvero soffre di deficit democratico.

Quale che sia il risultato del referendum francese - e dei successivi referendum
in Olanda e Polonia, Danimarca o Inghilterra - è a queste cose che occorrerà
riflettere con più profondità e meno arrogante sicurezza: sia tra cittadini
europei, sia tra esperti e artefici della costruzione europea.

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