È la paura che spinge i francesi verso il no
C'è qualcosa di paradossale nella vicenda di questi giorni che precedono la data ormai imminente del referendum francese sulla Costituzione europea.
Chi abbia seguito sui giornali o alla televisione i dibattiti sul voto, senza precedenti in Europa per intensità e per analiticità, non può non essere colpito dal macroscopico dislivello degli argomenti portati, rispettivamente, dai fautori del sì e da quelli del no. Da una parte, ragioni fondate su un insieme davvero imponente di interessi (il benessere incontestabilmente indotto dal mercato unico) e di valori (il valore della pace, anzitutto, ma anche la solidarietà e la sussidiarietà), frutto dell'esperienza di due guerre e dell'intuizione geniale di Jean Monnet, alla radice di cinquant'anni di costruzione europea. Dall'altra, reazioni di politica interna astutamente alimentate ma soprattutto un coagulo di timori, di umori e di malumori che con l'Europa ben poco hanno a che fare, ma che sono pronti ad esplodere proprio in questa occasione. Il timore del mondo globalizzato e della concorrenza straniera è paralizzante, ma evidentemente è un timore reale.
Se vincerà il no, potrà accadere che lo choc provochi una rabbiosa reazione
positiva, una volontà politica di dimostrare che la Francia non è antieuropea.
Anche se non sarà facile trovare il bandolo per proseguire, perché le occasioni
perdute non si recuperano: a cinquant'anni di distanza dal no francese, ancora l'Europa non ha una propria difesa. Oppure potrà accadere che gli anticorpi della malattia invalidante, della paura del futuro che ha colpito la Francia risultino insufficienti. Questo sarebbe davvero un sintomo allarmante per il completamento del disegno di unione del nostro continente: la sola grande opera di saggezza politica che l'Europa ha saputo creare nel Novecento.
Una delle cause di questo paradosso sta indubbiamente nella deplorevole
tendenza di molti governi, incluso quello francese, ad addossare a Bruxelles
l'impopolarità di misure che sono in realtà necessarie - ad esempio in tema di concorrenza e di rigore di bilancio - e che i governi stessi adottano in sede europea fingendo poi di non averle volute. Un altro motivo risiede nella tendenza, costante in ogni tempo, a trovare cause esterne semplici (e false) per mali che hanno la loro radice nei nostri comportamenti: rinnovarsi è faticoso, la spinta feroce al benessere che si è avuta nel secondo dopoguerra si è ormai esaurita, l'affacciarsi di nuovi competitori globali come i Paesi asiatici provoca il riflesso funesto della chiusura e della difesa protezionistica.
Anche se vincesse il no occorrerebbe ugualmente proseguire il cammino. Molte
vie sono percorribili. Non occorre dimenticare che se è difficile creare
istituzioni nuove, difficile è anche distruggerle. E la presenza di realtà
quali il Parlamento europeo, la Commissione e la Corte di giustizia, che
non hanno mai smentito la loro impostazione pro-europea, offre alcuni motivi
di speranza. Anzitutto non dovrebbe arrestarsi il processo per le ratifiche
negli altri stati, neppure se anche l'Olanda tre giorni dopo dicesse no:
per ragioni di principio e per lasciare ancora aperto il varco. E poi occorrerà
prospettare obbiettivi specifici e concreti per l'Unione: la sicurezza,
la difesa, la ricerca, le infrastrutture. Insieme con gli strumenti istituzionali per raggiungerli. Come si è fatto in passato, con il mercato unico e con l'euro, che a loro volta sono ormai realtà possenti a livello mondiale.
E' una strategia che vale anche in caso di vittoria del sì.
Se vincerà il sì, proprio la profondità del dibattito che si è svolto in
Francia darà alla ratifica una portata addirittura superiore ai meriti intrinseci del trattato-costituzione. Un testo che non è esente da gravi manchevolezze, ma che sicuramente apre importanti vie nuove per il completamento della costruzione europea.
Dopo il referendum francese, per l'Unione europea nulla sarà più come prima.
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