Europa: i gioiosi disfattisti (analisi di Barbara Spinelli)

21 giugno 2005
Barbara Spinelli
Fonte: La stampa - 20 giugno 2005

Sono davvero molto numerosi e particolarmente interessati coloro che in
questo momento tripudiano, per le tribolazioni che l'Unione europea attraversa.
È una gioiosa macchina da guerra che si è messa in moto soprattutto in America e
Inghilterra, in concomitanza col referendum francese sulla costituzione europea,
e adesso che il vertice a Bruxelles è fallito il tripudio è ancor più grande e
quasi tracima in Schadenfreude, in piacere per come l'uomo accanto a me vacilla
e cade. Blair che non ha voluto rinunciare all'esorbitante anacronistico assegno
ricevuto ogni anno da Bruxelles, e che affossando il vertice ha mostrato di
sprezzare la disponibilità a far sacrifici dei dieci nuovi Stati (tutti più
poveri di Londra), non ha esitato a parlare di nuovo inizio nella storia
dell'Unione, presentandosi addirittura come precursore di un'avventura europea
più esaltante, più moderna e promettente.

Proprio lui che usa corteggiare gli europei orientali, e che spesso li ha
usati per impedire l'unità continentale, oggi ignora il loro desiderio di
superare la crisi, e li respinge.
Perfino la sua insistenza sulla riduzione delle spese agricole, anche se
nasce da un'aspirazione giusta - evitare che i sussidi agricoli divorino il
40-45 per cento delle spese comuni, dedicare molte più energie a settori più
vitali come ricerca e impiego -, ha finito con l'offendere l'Europa e le sue
istituzioni: rompendo patti precedentemente stipulati, e disconoscendo accordi
come quello, sottoscritto da tutti nel 2002, di non toccare le spese agricole
fino al 2013.

Tony Blair si sente in queste ore nuovo leader-ispiratore dell'Europa, ma
assomiglia poco ai personaggi che in passato furono leader e ispiratori. Schuman
o De Gasperi o Kohl avevano l'animo non di divisori, ma di federatori.
Interpretavano le crisi in senso etimologico, come momenti di passaggio alla
scelta, alla decisione: non come declino che si assapora come si assapora una
vendetta o perfino un malessere. Il presidente di turno lussemburghese, Juncker,
ieri notte è stato amaro: aveva visto come i Paesi poveri dell'Est erano
disposti a sacrificare parte degli aiuti pur di evitare il fiasco, e ha detto di
«provar vergogna» per come la nave dell'Unione è stata affondata da pochi
ricchi. Ma la vergogna è qualcosa che i tripudianti non conoscono, e questa loro
spregiudicatezza morale va attentamente studiata, perché spiega quel che accade
nell'Unione e dintorni.
Non c'è infatti spazio per la vergogna e neppure per quella speciale
tristezza che si chiama timore della decadenza storica, nella macchina da guerra
che sta esultando sulla scia dei referendum.

E ancora una volta non è verso l'Inghilterra che dobbiamo guardare per
comprendere la formidabile potenza della macchina e neppure verso quella parte
d'Italia che s'esercita nel presunto anticonformismo della critica antieuropea,
ma verso l'oltre Atlantico, e più precisamente verso l'America nazionalista di
Bush e dei centri di studio e d'influenza neoconservatori vicini
all'amministrazione. È qui che il godimento si manifesta con tutta la sua forza:
volitivo, guerresco, e con accenti di forte anche se simulata trasgressività. È
qui e solo di riflesso in Italia che si parla con festante militanza di utopie
giustamente punite, di dogmi europeisti finalmente smantellati, di
immobilizzanti tabù infranti, di riscatto lungamente atteso del vecchio
Stato-nazione.

Chi abbia voglia di conoscere vada a esplorare i siti Internet della
rivista neoconservatrice Weekly Standard, dell'American Enterprise Institute,
degli articolisti neocon sul Washington Post. Vedrà che non c'è senso del
dramma, in quella parte d'America, ma d'una rivincita e soprattutto d'una
prodigiosa opportunità. Forse l'Europa con la sua moneta non è più la potenza
che pareva recentemente, forse il predominio mondiale Usa non ha più rivali,
forse gli asiatici come Cina e Corea torneranno a comprar dollari e non saranno
più attratti dall'euro (Irwin M. Stelzer, Delizie dopo il no, Weekly Standard),
forse la Nato prevarrà sull'Unione (Gerard Baker, Weekly Standard), forse è
finita nella polvere quella sfida fastidiosissima che l'Unione lanciava e lancia
a chi inforca gli occhiali del vecchio Stato-nazione per interpretare le cose
del mondo: memento cita mors venit - era il monito che veniva dall'Europa -
Ricordati: viene la morte veloce! Gli incoronati degli Stati-nazione hanno
deciso di scommettere sulla sconfitta del modello statuale inventato nel vecchio
continente (una confederazione di Stati che abbandonano parte delle sovranità e
la trasferiscono a poteri federali) e per questo parlano quasi all'unisono,
nelle ultime ore, di Europa a pezzi, di Europa finita, di tabù infranto.

Il vero paralizzante tabù è in realtà il loro (la sovranità nazionale
assoluta, incapace di far fronte da sola ai mali del mondo), ma almeno per ora
l'impaurente pericolo sembra passato, e le intemperie europee consentono
d'imbrogliare le carte: ecco dunque che è l'Europa, a esser descritta come tabù
rigido, anacronistico, non-pratico. Celebrando i suoi funerali, la giubilante
macchina neoconservatrice si lancia in un'operazione furba oltre che bellica: a
forza di dichiarar morta l'Europa, magari la desiderante profezia s'invererà.

Non è detto che il suo calcolo sia vincente: non solo l'Europa esiste
ancora, ma in gran parte è già federale e dunque già costituzionalizzata (l'80
per cento delle leggi economiche si fanno a Bruxelles; il diritto comunitario
premia su quello nazionale). Ma l'imbroglio vien tentato, e il metodo somiglia
molto ai modi di Bush d'esportare le democrazie dall'esterno. Quel che conta è
puntare sulle piazze che s'ergono contro qualsiasi status quo, e contro le
correzioni di rotta gestite gradualmente da forze endogene. Verso l'Europa,
questo significa puntare esplicitamente sulla crisi della democrazia
parlamentare classica. Di qui l'apologia dei referendum, nei commenti
neoconservatori, e l'esaltazione del Paese reale che si ribella contro il Paese
legale, come nel nazionalismo antiparlamentare francese dei primi '900. Irving
Kristol sul Weekly Standard parla addirittura di una battaglia europea di
liberazione, elogiando il no francese, e lo paragona ai movimenti neodemocratici
in Libano e Medio Oriente. Gerard Baker su Weekly Standard consiglia di
sostenere i Paesi «meno istericamente europeisti», concedendo loro con più
facilità i visti.

Sotto accusa è una cricca, ovvero un establishment, che governerebbe con
orribile burocrazia a Bruxelles. Liberati sarebbero gli Stati, brutalmente
defraudati di sovranità dall'arroganza dell'utopia europeista. Poco importa se
per far valere le proprie tesi si ricorre alla menzogna: se si dice che
quest'Europa tecnocratica impedisce crescita e occupazione, e manovra contro
riforme liberali. Non è vero, visto che il no francese rifiuta proprio
flessibilità del lavoro e dell'economia. Ma la menzogna serve ed è sbandierata
come verità.

Altri studiosi dicono che l'Europa è morta perché i popoli non hanno
voluto il predominio di questo o quello Stato. Per lo storico Niall Ferguson
(The New Republic) è il predominio tedesco che vien rifiutato: predominio che la
Costituzione avrebbe sancito, fondando i voti a maggioranza sulla potenza
demografica. Altri ancora dicono che è l'Europa imperiale e antidemocratica a
crollare (Efraim Karsh, The New Republic). Un argomento, comunque, accomuna gli
estasiati disfattisti. Lo Stato-nazione sembrava fuori moda, ed ecco che fa
ritorno imbaldanzito. L'Europa stava diventando un'unione politica dopo esser
stata per decenni solo economica, ed ecco che provvidenzialmente torna a essere
mero mercato. Non ci saranno una politica estera né una difesa autonome, anche
se i disfattisti tacciono l'enorme favore che tale obiettivo incontra nei
popoli. La sfida che Europa lanciava a Washington sarebbe fallita.

In realtà non è fallita, sempre che i Paesi dell'Unione s'accorgano che la
stasi è una trappola per loro, e una manna per chi vuol tenere l'Unione in stato
d'inferiorità. La costituzione andrà forse in parte riscritta, ma resta
un'esigenza per gli europei. Tanta parte della loro esistenza è ormai decisa a
Bruxelles, e per quella parte è importante avere una comune carta
costituzionale. E poi la costituzione è un mezzo per raggiungere il fine
dell'unità politica. Il mezzo magari muterà, ma il fine resta anche per gran
parte di chi ha votato no. Non è escluso che la questione stessa della Turchia
aiuti. Tutti dicono che con la presunta morte dell'Europa e la xenofobia in
rimonta l'ingresso di Ankara è per sempre bloccato. Non è necessariamente così,
se l'Europa coglierà l'occasione per ripartire a due velocità. Una parte più
piccola e ardita potrebbe unirsi strettamente, con istituzioni forti e confini
chiarissimi. Una seconda parte, più gelosa delle sovranità nazionali, potrebbe
collocarsi in un cerchio periferico pur essendo parte dell'Unione. In questa
parte potrebbero stare gli Stati contrari all'Europa politica che vogliono solo
un gran mercato: fra essi Gran Bretagna, forse Polonia e Repubblica Ceca, infine
Turchia.

Tutto sta a non dare a Londra la leadership del rilancio dell'Europa
politica, perché a esso Londra non è interessata. Molto dipenderà anche
dall'Italia, che in passato ha sempre privilegiato - e non per dogma ma con una
sapiente astuzia che ha accentuato il nostro peso internazionale - le soluzioni
sovrannazionali. Dipenderà dai nuovi Paesi, traditi da Blair. Dalla Francia, che
potrà uscire dalla paralisi accettando l'Europa più profondamente. E dalla
Germania, che non ha più un leader federatore come Kohl ma in un'amministrazione
democristiana potrebbe averne uno nuovo.

L'Europa è al bivio, certo. Ma non fra essere e non essere. Siamo ben
oltre il dilemma esistenziale, anche se il declino è possibile in tutte le
civiltà. Una gran parte del cammino è alle nostre spalle, e la crisi oggi nasce
proprio perché questo cammino è già compiuto. Si tratta di continuare sulla via
intrapresa, spiegandosi meglio coi popoli. Come diceva giustamente uno dei padri
d'Europa, Jean Monnet, ci sono crisi in cui conviene giocare coi paradossi e
raccomandare questo a se stessi: «Prima continuare, e soltanto dopo cominciare».
Lo stesso Monnet diceva che l'ultima guerra era il «gran federatore» d'Europa. I
federatori di oggi sono i tormenti esterni all'Unione, la mondializzazione, la
sfida indiano-cinese. Il che significa che l'Europa non è affatto a pezzi e
resta bisogno ineludibile: per i popoli, per gli individui e per gli Stati
deboli che siamo diventati.

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