In risposta a Romano Prodi sulle radici cristiane

"Tassello mancante" di che cosa?
4 luglio 2005
Francesca Lacaita; Liana Novelli Glaab; Luisa Passerini

Condividiamo molto dell’intervento di Romano Prodi intitolato Il tassello mancante delle radici cristiane e apparso su “La Repubblica” del 30 giugno 2005. Non dissentiamo certo da una frase quale: “mettere definitivamente fuori gioco i criteri della politica di potenza di qualcuno o i risentimenti nazionalistici di altri non consente solo […] di mantenere la pace entro i confini dell’Unione europea […], ma pone le premesse perché l’Europa eserciti un ruolo di pacificazione anche oltre i propri confini. Mentre curiamo le nostre memorie, noi siamo in grado di comprendere il dolore e le ingiustizie che si compiono altrove”. O da un’altra come “va […] riconosciuto il dolore dell’altro nella sua verità soggettiva, ma in un contesto storico nuovo che possa consentirgli di superare il dolore, cambiando cioè la prospettiva e modificando le premesse che lo hanno causato; è questo un processo che va condotto […] avendo come valori guida […] la democrazia, la libertà, il diritto, la giustizia”.
Proprio perché riconosciamo la verità di queste affermazioni, ci sembrano tanto più sorprendenti sia i termini aproblematici con cui Prodi considera il ruolo storico delle chiese (in sostanza, poi, del cristianesimo) nella costruzione dell’Europa, sia la conclusione, altrettanto aproblematica, che il mancato “riconoscimento esplicito, nel Preambolo della Costituzione [europea], del ruolo storico del cristianesimo […] sia davvero un tassello mancante”. Innanzitutto c’è da chiedersi: “Un tassello mancante rispetto a che cosa?”. All’idea di Europa come sovrana nel mondo, superiore a tutti gli altri popoli e capace di concepire i rapporti interculturali soltanto come esclusivi o gerarchici? Come soggetto di colonialismo e di genocidio verso gli altri, pensati soltanto per opposizione e contrasto a se stessa? Certo di tutto questo il cristianesimo è un tassello mancante, in quanto anch’esso o una sua parte benedisse la violenza armata e praticò quella culturale e religiosa. Ma è un’altra Europa che vorremmo contribuire a forgiare, e nuovi modi di essere europei, impresa che non è possibile senza una decisa e costante critica delle vecchie forme eurocentriche di europeità.
È importante inoltre distinguere – nonostante intrecci e interrelazioni che di fatto esistono – tra un senso d’identità europea ereditato in gran parte dalle circostanze storiche e che tutti noi elaboriamo in maniera collettiva e individuale, e un progetto europeo che vuole, comunque lo si intenda, rappresentare una svolta rispetto a un corso tragico della storia d’Europa stessa (e che proprio per questo non coincide totalmente nemmeno con le istituzioni europee esistenti). Il progetto europeo non guarda al passato, guarda al futuro. Non trova nella storia motivi di autocelebrazione per gli europei; trova piuttosto motivi di dolore e di critica. Non è interessato a definire criteri di esclusione quanto invece a elaborare strategie di inclusione.
Nella prospettiva di “progetto europeo”, il richiamo alle “radici giudaico-cristiane” nel Trattato costituzionale europeo offuscherebbe i reali conflitti storici di cui è stata fatta l’Europa. Tacerebbe le responsabilità delle chiese cristiane nei confronti delle sofferenze degli ebrei, il fatto che per secoli, e sino a poco tempo fa, l’identità cristiana si è definita in ostile contrapposizione a quella ebraica. E proprio nella celebrazione politically correct di un’“europeità” “giudaico-cristiana” sarebbe sancita la “non europeità” di un’altra religione anch’essa presente in Europa – l’Islam, che (per tacere dei più vasti legami e retaggi storici) è la religione di diverse popolazioni nei Balcani, in Europa, e di una consistente minoranza che risiede e vive nella stessa Unione Europea, della quale in molti casi è cittadina a tutti gli effetti. In questo modo si postulerebbe un’arbitraria “matrice” europea patrimonio “originario” degli “uni” a cui gli “altri” sono pressoché “costretti” a riconoscersi per essere “europei”, per essere “moderni”. Tanto più arbitraria in quanto l’esplicita menzione dei valori cristiano-giudaici cancellerebbe tutte quelle tradizioni filosofiche, non meno antiche, non meno europee, che non radicano l’eticità nel trascendente – oltre ad assegnare di fatto una coscienza etica di serie B a tutti coloro che non si riconoscono in nessuna chiesa o religione.
Sarebbe facile richiamare i numerosi casi ed eventi storici in cui le chiese cristiane, lungi dall’essere state solo il semenzaio dell’umanesimo, hanno anch’esse attivamente contribuito a insanguinare l’Europa e il mondo. Ci basta qui ricordare che le chiese sono state attive parti in causa in quei conflitti ideologici ed etnonazionali da cui proprio il progetto europeo ha indicato una via d’uscita. Naturalmente auspichiamo anche noi che le diverse religioni possano dare il loro contributo “quali fattori di integrazione, di fratellanza, quali elementi culturali che superano il significato etnico delle patrie”. A differenza di Prodi, non siamo però così sicure che “le religioni storicamente presenti in Europa, in particolare il cristianesimo” (ma anche il cristianesimo è plurale) realmente siano “oramai libere dal fondamentalismo” (o dall’integralismo). Le recenti ingerenze della Chiesa cattolica in Europa nelle scelte politiche che riguardano tutti, non solo i cattolici, non fanno che darci ragione, mostrano un atteggiamento di arrogante interferenza a proposito di scelte individuali come il matrimonio, la fecondazione assistita e l’aborto. In ogni caso, proprio per lasciarsi il passato dietro le spalle e svolgere un ruolo positivo nella costruzione dell’“Europa di tutti”, le chiese, come tutti gli attori storici, non possono esimersi dal riconoscimento sincero e dolente delle loro responsabilità e complicità. Proprio lo sforzo di creare un “contesto storico nuovo” dovrebbe di per sé far recedere da ogni pretesa di definire, essenzializzandole, l’“europeità” e le sue presunte radici.
Tutto ciò vale ovviamente anche per l’“Europa” in quanto tale. Il progetto europeo ha avuto le sue formulazioni più proficue, ha conosciuto i suoi slanci maggiori, non nell’orgoglio per i trionfi della civiltà europea, non nella ricerca di un’“europeità” comune da contrapporre al resto del mondo, bensì nell’esilio e nella Resistenza antifascista, nei campi di concentramento e di prigionia, nella rovina e nella prostrazione, da sé causate, dell’Europa stessa, nel dolore e nella colpa per quanto commesso dalla propria gente, nella volontà di impedire che quanto successo potesse ripetersi.
In un momento di crisi dell’integrazione europea come è questo occorre interrogarsi su cosa si vuole che sia l’“Europa”. Se essa deve significare la gestione scorrevole ed efficiente dell’esistente, allora è appropriato, per sollecitare l’appoggio dei cittadini, celebrare l’identità europea quale essi già vivono, con i suoi confini, le sue radici, il suo patrimonio culturale, i suoi meriti storici, in termini lineari e aproblematici. Se invece si vuole che essa sia credibilmente ciò che Prodi indica nel suo intervento, allora è proprio dalla piena assunzione di responsabilità che si possono curare le memorie, è proprio dalla coscienza del peso della storia collettiva, presente e passata, che si possono trovare la motivazione e la forza per costruire una nuova comunità politica e intraprendere un nuovo corso. Può essere in grado di esercitare “un ruolo di pacificazione anche oltre i propri confini” solo un’Europa consapevole del dolore e dell’oppressione che gli europei e i loro discendenti hanno storicamente portato al resto del mondo.

Francesca Lacaita (Università di Francoforte sul Meno)
Liana Novelli Glaab (Università di Francoforte sul Meno)
Luisa Passerini (Università di Torino e Istituto Universitario Europeo di Firenze)

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