Per una democrazia europea (appunti su diritti, conflitti e cooperazione)
L’Europa che ha visto nascere e fiorire la democrazia, vede oggi tramontare la politica rappresentativa e il sistema imperniato sulla delega. Mentre infatti le grandi conquiste di diritti basate sul principio “una testa un voto” hanno prodotto il parlamentarismo, la crisi della politica maturata negli ultimi decenni del passato XX secolo ha messo in atto un profondo rivolgimento nei modi di praticare e intendere la politica.
In più di tre secoli l’affermazione e la tutela dei diritti e la composizione delle forme di governo che hanno costituìto lo Stato di diritto hanno subìto inevitabili trasformazioni, ma la co-originarietà di diritti e democrazia è rimasta alla base della modernità.
Alla caduta del nazismo e dei fascismi, ove un disciplinamento di massa sospendeva la legge e i partiti che si opponevano alle dittature, la ricostruzione dell’Europa si è realizzata con nuove Carte costituzionali in cui vengono sanciti la tutela dei diritti individuali, la divisione dei poteri, il sistema parlamentare. Le democrazie liberali vivono così sulla formazione del consenso e della volontà politica affidata ai partiti.
Con la guerra fredda, la democrazia, che è un sistema fluido e senza limiti, è rinchiusa tra i confini degli Stati nazionali riducendosi alla rappresentanza e alla delega. Allo stesso tempo si attua una materializzazione dei diritti economici e sociali, istituiti e proceduralizzati nel welfare state negli anni Sessanta.
A partire dal 1968 e nella prima metà degli anni ‘70 l’intreccio tra diritti e democrazia si manifesta con le lotte operaie e studentesche che contestano il capitalismo occidentale e l’ordine dei poteri nelle società avanzate.
Le istanze di superamento del modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento umano e della natura avevano del resto costituìto la spinta di liberazione dei popoli del “terzo mondo” nell’ enorme processo di decolonizzazione e avevano realizzato i primi passi delle fragili democrazie nazionali in Africa e Asia.
Con la rivendicazione di diritti e garanzie sociali e la contestazione della democrazia formale ridotta a dislocazione dei poteri, i movimenti degli anni ‘70 hanno prefigurato un’idea radicale di democrazia, in cui l’emergenza di bisogni costituiti in diritti era irriducibile alla delega e in cui si trovava una configurazione orizzontale della compresenza di diritti e democrazia, sulla scorta dell’elaborazione teorico-politica del femminismo e della militanza diffusa.
Questa configurazione non ordinava lo Stato di diritto, ma introduceva un diverso stato dei diritti, estendendo al contempo la sfera della legittimità statale. I movimenti sociali degli anni ‘70 hanno animato una democrazia di base, che contestava le grandi centrali di organizzazione gerarchica del consenso (partiti e sindacati), in nome del pluralismo e della capacità di espressione diretta di bisogni e desideri dei soggetti politici.
Nel confronto con la risposta violenta dello Stato, i movimenti ponevano la questione della ricostituzione dello Sato di diritto, cioè la questione aperta sulla decisione intorno all’intreccio tra diritti e democrazia.
La violenza e l’illegalità diffusa revocano in dubbio l’arbitraria delimitazione dei diritti rappresentati, ad esclusione di richieste economiche e sociali che risultano eccedenti rispetto agli ordinamenti statali.
Negli anni ‘80 le procedure che garantivano l’agibilità di diritti e garanzie risescono sempre meno, malgrado la loro implementazione per far fronte a minacce sempre più invasive (mafie, criminalità organizzata, clientelismo) a risolvere il conflitto tra diritti e democrazia che la stagione delle lotte aveva aperto in Europa alla fine degli anni ‘60. Al punto che in molti paesi europei il conflitto diviene flagrante all’interno dello Stato (corruzione, commistione tra affari e politica) e rompe la legittimità dei sistemi rappresentativi.
La cosiddetta ascesa della società civile dopo l’89, la penetrazione a est del mercato e il declino senza fine della forma partito enunciano anche la fine del modello industriale fordista e della rappresentazione dei diritti e della democrazia nella forma dello Stato-nazione.
D’altra parte la diffusione negli anni ‘90 delle tecnologie informatiche e digitali e l’avvento di Internet e delle reti telematiche, aprono il campo ad una concezione inedita dell’agire sociale.
Dall’utopia dell’uguaglianza tecnologica, in ragione dell’accesso orizzontale a reti e nodi informatici, alla costatazione del digital divide tra paesi ricchi e poveri, dallo sviluppo all’esplosione della new economy con la bancarotta di grandi aziende di telecomunicazioni, la promessa di sviluppo democratico fondato sull’innovazione viene meno, pur avendo ormai riconfigurato totalmente lo spazio pubblico.
Se infatti questo passaggio epocale ha mutato il rapporto tra tecnica ed economia, rendendo “strutturale” la prima rispetto alla seconda, l’”era dell’accesso” ha trasformato la vita quotidiana, immettendo nella sfera pubblica la dimensione biopolitica e d’altra parte accentuando le differenze tra ricchezza e povertà globale.
Le conseguenze più evidenti della trasformazione dello spazio pubblico mondiale sono di carattere geopolitico, con l’emergere di potenze tecnico- commericali, quali India e Cina, che hanno assunto il libero mercato senza passare attraverso la lunga modernizzazione europea.
Tuttavia in Europa la crisi della globalizzazione neoliberista, affacciatasi alla fine del 2000 ed esplosa con l’11 settembre era stata anticipata dalla crisi del principio democratico alla metà degli anni ‘90, con i cosiddetti interventi “umanitari” (Bosnia, Somalia) e la guerra “umanitaria” (Kossovo) del 1999.
Si chè questo XXI secolo si apre con le guerre in Afghanistan e l’invasione dell’Iraq, che sancisono la dottrina della guerra preventiva e la fine del diritto internazionale come interpretazione delle relazioni inter-statali.
Le diseguaglianze provocate dal neoliberismo, la precarietà, la condizione migrante revocano in crisi qualsiasi mediazione di diritti inalienabili e coinfigurano la possibilità di una democrazia globale, non più patrocinata dallo Stato-nazione e in cui i cittadini sono responsabili della res publica.
La democrazia è infatti oggi anzitutto istanza di mutamento dal basso di una realtà deterritorializzata e insieme inedita costituzione di diritti che ne incarnano la potenza.
Nel primo senso, la democrazia come esercizio di partecipazione, sull’esempio della territorializzazione dei diritti ottenuta in alcune regioni del centro America (Chiapas) e diversamente in America Latina (Brasile, Argentina, Venezuela) ha il senso di un’articolazione di poteri locali su base municipale.
Nel secondo, essa è determinata dalla natura biopolitica dei diritti e dello spazio pubblico che la post-modernità ha dislocato.
L’estendersi di una costellazione post-nazionale ha generato una opinione pubblica mondiale che si è manifestata nei movimenti contro la guerra dal 2003 e ha prodotto un diritto alla vita dignitosa e alla cittadinanza globale, prefigurato tra i diritti di nuova generazione nella Carta di Nizza.
Così l’urgenza della riconversione dei diritti politici e sociali e del diritto internazionale si coniuga con la richiesta di tutela e agibilità di diritti biopolitici. Essi prefigurano un’estensione della sovranità dei singoli, cioè la possibilità di una democrazia radicale, che consiste nell’autogoverno.
I diritti biopolitici, compreso l’accesso al reddito sganciato dalla prestazione lavorativa (reddito di esistenza) indicano la strada che l’Europa dovrebbe seguire, nell’eventualità di una riformulazione costituzionale delle sue prerogative.
Ciò significa attuare quella società della conoscenza che peraltro l’agenda di Lisbona ha progettato, ma che a tutt’oggi è realizzata in maniera ineguale ed è subordinata al mercato.
Una democrazia europea dunque non potrà più essere ingabbiata negli Stati nazionali e dovrà per sua natura essere federalista. Non sono più infatti i popoli d’Europa a battersi per l’uguaglianza, la libertà e i diritti, ma singole donne e uomini extra ed europei ad esigere una res publica senza confini.
Ciò significa estendere i confini attuali della cittadinanza, slegandola per sempre da qualsiasi jus sanguinis e jus soli.
Gli esperimenti di democrazia partecipata raccolgono parzialmente le istanze di partecipazione e solo per quella parte di mondo già “inscrita nella cittadinanza”. Questo processo, partito da Porto Alegre, si è esteso ad alcune metropoli europee e ha coinciso con la riorganizzazione dei distretti in municipalità, ma sconta un eccesso di burocratismo e formalismo, che limitano i conflitti sui bisogni reali.
Questi conflitti, che sono l’essenza della democrazia, si riferiscono a urgenze conclamate: l’abitare, i servizi pubblici, la sanità, l’istruzione e la formazione, i saperi, il reddito, i beni comuni.
Nelle mutate condizioni sociali in cui si fruisce di aqua, energia, servizi pubblici, garanzie sociali, sapere e tecnologie, lo Stato non è più in grado nè di garantire l’eguale accesso, nè di gestire l’uso di questi beni.
Diventa sempre più urgente non identificare pubblico con statale e far tornare casomai il pubblico al suo originario significato di res pubblica, costituzione del comune.
Il movimento municipalista e la tradizione europea delle autonomie locali possono promuovere un inedito intreccio tra diritti e democrazia, sul piano della cooperazione. Democrazia significa infatti costituzione cooperativa (e non rappresentativa) di ciò che è comune. Possibilità di ridefinizione dei beni principali in forma non delegata.
La comunità dei beni principali non è il luogo chiuso in cui è iscritta l’identità di un popolo o di una nazione; non è la rivendicazione di diritti esclusivi; non è il luogo dell’organizzazione burocratica degli interessi; bensì la totalità dei beni comuni, il territorio della cooperazione; il luogo in cui si mobilitano risorse comunicative e simboliche.
Nel processo di costituzionalizzazione dell’Europa la distanza tra realtà e simbolismo dell’Unione Europea si è finora misurata in ogni spinta alla comunitarizzazione sistematicamente sommersa dagli interessi nazionali.
Ne è segno la bassa quota di potere reale concessa al Parlamento Europeo dagli Stati membri che, ancor più dopo la bocciatura del Trattato nei referendum francese e olandese, perseguono una misera politica di compromessi privati, complice una Commissione non illuminata.
Pur criticando giustamente l’impianto liberista di alcuni articoli del Trattato e della sua terza parte, le conseguenze del No al referendum non possono essere spese da partiti e associazioni che si sono battuti per questo risultato.
L’attuale stasi del processo costituzionale, in un’Europa afflitta da questioni di allargamento ridotte a mercanteggiamento di alleanze (Turchia, Croazia), la tragedia dei migranti che continua a raccontarsi con i corpi gettati nel Mediterraneo per gli accordi bilaterali tra governi sciagurati, la deprecabile politica agricola, per non parlare del colpevole oblìo dei diritti sociali, non possono esser rivendicati da nessun partito come una vittoria o un passo in avanti sulla via della comunitarizzazione.
Allo stesso tempo il No non ha consentito la riconversione delle ragioni della critica al liberismo in interessi nazionali, non essendovi attualmente in Europa governi rivoluzionari.
La critica al Trattato costituzionale ha tralasciato di indicare ciò che di potenziale esiste: la carta di Nizza, l’armonizzazione giudiziaria in materie importanti, il riordino legislativo, la PESC che, disarticolata, può divenire ripudio della guerra.
Questi sono elementi di politica europea su cui i movimenti in questi anni hanno agìto e che hanno prodotto la salutare spaccatura dell’Unione Europea sulla guerra all’Iraq.
Una democrazia globale fondata sulla cooperazione produce soggettività che nel conflitto costruiscono una politica come esito della relazione sociale, non viceversa.
In questo contesto, forme di municipalismo sono il risultato dei conflitti di questi anni. Esse segnano la differenza tra la politica dei partiti e dei poteri e la relazione orizzontale tra soggetti.
Questo contesto dà forma all’intreccio tra diritti e democrazia, cioè ad un originale stato-di-diritto, senza lo Stato quale mediatore e gestore della cooperazione sociale.
In questo spazio pubblico europeo si dislocano l’etica della differenza e le politiche dei corpi, le risorse sociali e le potenzialità simboliche di ogni singolo cittadino/a. Cioè l’intera dimensione biopolitica. Da questa inedita configurazione, di cui oggi si comprende il senso, come ad un determinato momento della storia secondo Walter Benjamin si scoprono cose fino ad allora nascoste, può nascere una forma democratica, cioè una forma della socialità che, diventando pubblica assume valore morale. La democrazia essendo un etica che diventa politica.
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