Nell’unità segreta 'Black Room' un greve ritratto degli abusi degli USA

25 marzo 2006
ERIC SCHMITT e CAROLYN MARSHALL

Nell’unità segreta 'Black Room' un greve ritratto degli abusi degli USA.
http://www.nytimes.com/2006/03/19/international/middleeast/19abuse.html?hp&ex=1142830800&en=d312add1d360187e&ei=5094&partner=homepage
Di ERIC SCHMITT e CAROLYN MARSHALL
Pubblicato il 19 marzo 2006
Nel momento in cui le proteste irachene si sono intensificate all’inizio del 2004 un’unità prescelta di forze di Operazioni Speciali trasformò una delle principali basi principali di Saddam Hussein in un centro di detenzione top secret. Lì i soldati Americani adibirono uno dei principali luoghi di tortura del governo iracheno nella loro stanza per gli interrogatori. La soprannominarono Stanza Nera – ('Black Room)
Un’immagine da Camp Nama in Iraq, dove alcuni detenuti erano utilizzati come bersagli del gioco di scontri con armi che sparano pittura.
Nel giugno 2004, Stephen A. Cambone, un alto ufficiale del Pentagono ordinò al suo vice, Lt. Gen. William G. Boykin, di investigare sulle dichiarazioni di abusi ai detenuti di Camp Nama.
Nell’angusta stanza nera, priva di finestre, alcuni soldati picchiavano i prigionieri con il calcio dei fucili, gli gridavano e sputavano in faccia, e in un’area attigua usavano i detenuti come bersagli per esercitarsi ad un gioco per galeotti di scontri con armi che sparano pittura. La loro intenzione era quella di estorcere informazioni che agevolassero la cattura del pluriricercato terrorista iracheno, Abu Musab al-Zarqawi, che secondo il personale del Dipartimento delle Difesa, collaborò con l’unità di attacco o almeno fu informato sulle sue operazioni.
La Stanza Nera faceva parte di un sito temporaneo di detenzione a Camp Nama, il quartier generale di una vaga unità militare conosciuta come Task Force 6-26. Posizionato all’Aeroporto Internazionale di Baghdad, il campo fu il primo fermo per molti insorti prima che fossero trasferiti alla prigione di Abu Ghraib poche miglia più in là. I cartelli applicati dai soldati nell’area di detenzione avvisavano “ NIENTE SANGUE, NIENTE ATTI SLEALI.” Il motto, come spiegò un ufficiale del Dipartimento della Difesa, rifletteva un adagio adottato dalla Task Force 6-26: ”se non li fai sanguinare, non potranno perseguirti per questo.” Secondo gli specialisti del Pentagono che lavoravano con l’unità, i prigionieri di Camp Nama spesso scomparivano in una buca di detenzione nera, a cui era sbarrato l’accesso ad avvocati e parenti, e confinati per settimane senza colpe alcune. “la verità è che lì non c’erano regole” disse un altro ufficiale del pentagono.
La storia degli abusi ai detenuti in Iraq è nota. Ma il seguente resoconto della Task Force 6-26, basata su documenti e testimonianze di più di una dozzina di persone, offre la prima descrizione dettagliata di come la maggior parte dei militari dell’unità antiterroristica specializzata commise seri abusi.
Questo si aggiunge all’aspra immagine degli interrogatori nelle prigioni militari americane in Afghanistan, nella Baia di Guatemala a Cuba, così come nei centri segreti di detenzione della CIA sparsi per il mondo. Il nuovo resoconto rivela l’intento dei membri dell’unità di maltrattare i prigionieri già mesi prima e dopo che le fotografie degli abusi di Abu Ghraib venissero rese pubbliche nell’aprile del 2004, e questo comprova l’asserzione originaria del Pentagono che gli abusi fossero confinati ad un ristretto numero di riservisti mascalzoni ad Abu Ghraib.
Gli abusi a Camp Nama continuarono a dispetto degli avvertimenti cominciati nell’agosto 2003 da parte di un investigatore dell’esercito, dell’intelligence americana e degli ufficiali iracheni preposti al mantenimento dell’ordine legale. La CIA era sufficientemente informata da sospendere il suo personale a Camp Nama quell’agosto.
È difficile paragonare le condizioni al campo con quelle di Abu Ghraib perché si sa molto poco della segreta combinazione che era perfino fuori dalla portata della Croce Rossa. Sembra che gli abusi siano passati impuniti ma sembra che alcuni fossero ben noti per tutto il campo.
Con un’unità selezionata di quasi 1000 persone ad un dato momento, la Task Force 6-26 sembra che abbia avuto un numero maggiore di militari puniti per gli abusi.
Sin dal 2003, 34 membri della task force sono stati variamente sanzionati per aver maltrattato i prigionieri e almeno 11 membri sono stati rimossi dall’unità a detta delle nuove figure del Comando di Operazioni Speciali istituito in risposta alle questioni rilanciate dal New York Times. Cinque membri delle truppe d’assalto dell’unità sono state incarcerate per aver picchiato e aver colpito a pugni 3 detenuti nel settembre 2005.
Alcune delle gravi accuse contro la Task Force 6-26 sono state riportate nell’arco di 16 mesi da testate giornalistiche tra cui la NBC, il Washington Post e il Times. Sono emersi parecchi dettagli da centinaia di pagine di documenti diffusi sottoforma di Atto per la Libertà di Informazione richiesto dall’Unione delle Libertà Civili Americane. Ma presi insieme per la prima volta, i documenti, (considerati segreti di stato) resi di dominio pubblico, e le interviste a più di una dozzina di militari e altri esponenti del Dipartimento della Difesa forniscono il ritratto più dettagliato del campo segreto e dei maneggi interni dell’unità clandestina.
I documenti e le interviste riflettono anche uno scontro culturale fra i comandi militari senza regole e il più cauto personale civile del Pentagono che lavora al loro fianco assurto a un confronto teso. Ad un certo punto uno dei più strtti collaboratori del Segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld, Stephen A. Camion, ordinò ad un subordinato di “andare a fondo” di ogni condotta sleale.
La maggior parte delle persone intervistate per questo articolo erano civili di medio livello e militari del personale del Dipartimento della Difesa che lavorò con la Task Force 6-26 e che confessarono di aver assistito agli abusi o che erano stati messi al corrente delle sue operazioni degli ultimi tre anni.
Molti all’inizio erano riluttanti a discutere della Task Force 6-26 perché la sua missione era un segreto di stato. Ma essendo ripetutamente pressati dai reporters che li contattarono, accettarono di parlare delle loro esperienze e osservazioni aldilà della loro rabbia e del loro disgusto per il trattamento che l’unità riservò ai detenuti e per il fallimento dei comandanti della task force di punire le condotte sleali più aggressivamente. I critici dissero che gli aspri interrogatori produssero poche informazioni che aiutassero nella cattura degli insorti o a salvare vite americane.
Virtualmente tutti quelli che acconsentirono di parlare sono impiegati governativi in carriera, molti con una precedente esperienza militare e gli è stato garantito l’anonimato per incoraggiarli a parlare candidamente senza la paura di un’azione punitiva da parte del Pentagono. Molti dei loro denunce sono state confermate dai documenti militari liberati dal segreto di stato e da messaggi e-mail di agenti del F.B.I. che lavorarono regolarmente con la task force in Iraq.

Note: Oriana Cassaro, autrice traduzione
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