Missione Onu, se siamo pacifisti dobbiamo provarci
Se fossimo molto ingenui, più di quanto ci impegniamo a non essere, dovremmo esprimere un forte stupore. Mentre su una missione militare certamente pericolosa, e di utilità politica pressoché nulla, come quella in Afghanistan, si sono sentite poche voci dissonanti (tutte comunque a sinistra), sul progetto Unifil per il Libano, così fortemente perseguito dal governo Prodi e dal ministro D’Alema, fioccano le perplessità e i dubbi, come raramente era accaduto. Non è perplessa soltanto la destra, per evidenti ragioni strumentali e ancor più evidente imbarazzo. Sono più che cauti, se non ostili, alcuni grandi giornali, come La Repubblica. Sono preoccupati i vertici militari. Sono incerti dirigenti di spicco dell’Unione. E sono diffidenti, forse per puntiglio ideologico, alcuni settori della sinistra radicale e del pacifismo. Da dove nasce una sfiducia così diffusa? Dalla paura, ovviamente.
Una paura certo fondata. Nessuno è in grado oggi di garantire che la forza multinazionale di interposizione, destinata a dispiegarsi ai confini del Libano, riuscirà a svolgere con successo il suo compito essenziale: salvaguardare la fragile tregua in atto, ed anzi andare oltre, costruendo le condizioni di un effettivo processo di pace. Nessuno può giurare che, all’opposto, le forze che vogliono la guerra non usino i “caschi blu” a loro esclusivo vantaggio, per riorganizzarsi e imporre, a tempi relativamente brevi, la loro logica. E nessuno può escludere del tutto che, per il nostro Paese, per l’Italia, l’intera iniziativa possa risultare un “fiasco” politico e diplomatico - ancora oggi, alla vigilia di importanti summit europei, la Francia non ha chiarito le sue ambiguità, la Germania ha invece chiarito la sua determinazione a restarne fuori, altri Paesi, come la Spagna, non sembrano intenzionati a impegnarsi in Medio Oriente, se non con forze quantitativamente limitate. Insomma, come ha già detto il ministro Parisi, questa è sicuramente una missione «pericolosa»: non soltanto perché espone ad un rischio concreto la vita di molte persone, ma perché è davvero di grande difficoltà generale. E tuttavia queste considerazioni non esauriscono il problema. C’è ben altro, dietro (o sotto) dubbi, preoccupazioni, ostilità comunque comprensibili e “lecite”. C’è, a nostro parere, una posizione politica organica: che teme come il fumo negli occhi il possibile “nuovo inizio” di una nuova politica estera italiana. Non più appiattita sull’asse Washington-Tel Aviv, ma collegata fortemente all’Europa.
Non più “fedele alleato” di una strategia di guerra, ma protagonista di un processo di pacificazione, certo difficilissimo, che ha la pace come propria e consapevole meta finale. Ed è su questo tipo di resistenza che conviene concentrare l’attenzione e la riflessione.
La drammatica situazione del Medio Oriente - è noto - affonda le sue radici in tragedie lontane, l’ultima delle quali è stata l’ultimo grande conflitto mondiale. Ora, però, essa si è fatta ancor più insostenibile: sta diventando, è già diventata, un luogo endemico di guerra - guerreggiata, simbolica, e perfino indiretta. Quella appena alle nostre spalle, con l’invasione israeliana del territorio libanese e i raid aerei di distruzione su Beirut, non aveva solo le caratteristiche di uno scontro “locale”: è stata, sotto molti aspetti, la prima prova di una guerra ancor più devastante, tra Stati uniti e Iran, tra Occidente e Islam fondamentalista. Nonostante il fallimento palmare della dottrina della “guerra preventiva”, nonostante l’apparente discesa dell’influenza neocons sulla politica mondiale di Bush, lo scontro delle civiltà resta in effetti una prospettiva in campo, che né il governo di Washington né lo schieramento occidentalista hanno davvero archiviato. Del resto, è proprio la politica dell’Occidente a determinare squilibri crescenti, e aree di crisi sempre meno controllabili, in termini tali che rendono la guerra una prospettiva sempre più incombente. Ne è un esempio concreto, e scottante, la crescita attuale della potenza e delle ambizioni egemoniche dell’Iran: essa è il frutto, uno dei frutti più concreti, della guerra americana all’Iraq, che ha distrutto, nella sostanza, il paese che costitutiva il più forte contraltare di Teheran (anche dal punto di vista dell’espansione del fanatismo religioso) e ha modificato in profondità l’equilibrio dell’intera regione.
Ora, certo, l’Iran di Ahmadinejad costituisce un pericolo molto serio, non solo per la sicurezza di Israele, non solo per le armi nucleari di cui può arrivare a dotarsi, ma per il ruolo ideologico, politico e militare che può svolgere nell’intero Medio Oriente devastato, instabile e sofferente - dove c’è un popolo, quello palestinese, al quale viene a tutt’oggi negato il diritto elementare ad uno Stato proprio, ad una condizione basica di dignità.
Ma come intervenire, allora, prima che la tendenza alla catastrofe divenga dominante, e incontrastabile? L’unica arma a nostra disposizione è anche quella più antica e allo stesso tempo moderna: la politica. L’unico soggetto che possa sperare di usarla, con successo, è anch’esso antico e moderno, l’Europa. E l’unico luogo in cui essa è immediatamente sperimentabile è proprio il Libano: per ragioni geografiche e geostrategiche, ma anche per ragioni politico-culturali. A tutt’oggi, con le sue 17 tra etnie e culti religiosi, con la sua mescolanza di islamici, cristiani maroniti, drusi e molte altre confessioni, il Libano è l’ultimo presidio mediorientale della tolleranza e della convivenza tra diversi: nel momento in cui o ricadesse, più o meno, in mani siriane, o dovesse subire, da capo, l’umiliazione dell’occupazione israeliana, il Libano perderebbe non tanto l’indipendenza, ma la sua natura di “terra di confine”. Nasce qui l’idea, per altro non nuova, di una forza multinazionale che, “interponendosi” tra il Libano e Israele, può forse in realtà “interporsi” tra le diverse soggettività politiche oggi tra di loro incompatibili. Un contingente che, ovviamente, non può né fare né vincere la guerra, ma che è al servizio di un progetto politico ben più ambizioso: ricostruire, nella regione, un “ordine politico ragionevole”, rispettoso dei diritti dei popoli, e capace di ripristinare vere regole di convivenza. Garantire la sicurezza degli israeliani, certo, come chiede ogni giorno il Corriere della sera, ma anche quella dei libanesi e degli arabi. Favorire, con la sua presenza, il processo di “costituzionalizzazione” di Hezbollah, e la sua integrazione nell’esercito libanese - oggi lontano dallo standard necessario di efficienza. Consentire alla pacificazione di tramutarsi in processo di pace, per il quale ovviamente serviranno ben altri strumenti - commissioni miste, conferenze, trattative - e molti altri protagonisti. Ma, senza questo primo passaggio, il processo neppure comincerà. Così come senza la conferenza di Roma, dagli effetti pratici così apparentemente ridotti non avrebbe potuto mettersi in moto il meccanismo essenziale che forse si va mettendo in moto: l’uscita dall’unilateralismo americano, la rottura di una prassi fondata sul fatto compiuto - gli Usa si muovono, l’intendenza seguirà. Essenziale, e rilevantissimo, è che esso si dispieghi sotto le bandiere, nient’affatto formali, dell’Onu. Da quanto tempo questa sigla - che è l’unica alternativa al governo imperiale del mondo - non compariva in una iniziativa internazionale consistente? E da quanto tempo l’Italia, il governo italiano, non compariva come prim’attore di un tentativo di questa natura? Proprio gli ostacoli che a tutt’oggi vi si frappongono, ne esaltano - se così si può dire - la necessità e il valore. L’Italia, come ci ha insegnato il mezzo secolo di potere democristiano, può fare una politica estera propria soltanto alla condizione di sbarazzarsi del suo statuto di colonia, e di esercitare, come può, la sua naturale vocazione al dialogo attivo tra Europa e Mediterraneo. Da questo punto di vista, la missione Unifil è anche un contributo concreto alla nascita - sempre drammaticamente tardiva - di un’autonoma soggettività europea.
Naturalmente, come dicevamo all’inizio, tutto questo, per ora, è soltanto un progetto. Importante, necessario e denso di rischi. Un progetto che implica un’assunzione vera di responsabilità, anche per chi - come noi - colloca la politica di pace (e il pacifismo, e la nonviolenza) al vertice della propria scala di valori. Se ci sono chiare le ragioni per le quali molti poteri più o meno forti, molti commentatori più o meno rispettabili, sono contrari alla missione libanese - e guardano preoccupatissimi all’ipotesi, molto oramai credibile, che essa abbia una leadership italiana - molto meno comprensibili ci sono le motivazioni analoghe e contrarie che spingono al no qualche area della sinistra radicale, e dei movimenti. Se si teme che i caschi blu possano risultare una mera “copertura” della non sopita aggressività del governo di Tel Aviv, si fa un’analisi distorta: Olmert, come del resto i “falchi” nordamericani, subisce l’iniziativa, dopo una campagna bellica che si è risolta, per lui, in un disastro, militare e politico, e che ha sfatato, forse per la prima volta in termini clamorosi, il mito della invincibilità dell’esercito di Israele.
Se si ritiene che la politica del ministro degli esteri D’Alema resti, nell’insieme, subalterna agli interessi degli Usa e dell’occidente, si fa torto, ancora una volta, ai fatti: come hanno dimostrato le ruggenti polemiche sulla passeggiata libanese del nostro ministro degli esteri, e la sua capacità di dialogare con tutti, nessuno escluso, Hezbollah compresi. Se si dice che Unifil, in ogni caso, è solo il timido inizio di un processo che deve coinvolgere ben altri soggetti, luoghi e decisioni, si dice una mezza verità che, come spesso capita, finisce per farsi bugia intera. Per essere pacifisti conseguenti, oggi, è essenziale provarci. Provare ad esserci. Bandire ogni pur legittimo desiderio di fuga. E puntare tutto sul filo di speranza che abbiamo - per trasformarlo, magari, in una robusta gomena.
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