Habermas: «Gli Stati-nazione rimangono protagonisti ma devono cambiare la loro immagine di sè»
Jürgen Habermas, alla fine della Seconda guerra mondiale lei aveva appena quindici anni. Ora che la Ue si appresta a celebrare il 50° anniversario della firma del Trattato di Roma, quali sono i suoi ricordi in quanto testimone di quegli anni postbellici? «Devo confessare che, cinquanta anni fa, il dibattito nazionale sulla dotazione, da parte dell' esercito della Germania Ovest, di armi nucleari era, per me, di più forte interesse rispetto all'istituzione della Comunità economica europea. Allora, non capivo che la Cee, in quanto unione doganale, già si era dotata di istituzioni di tipo costituzionale e, dunque, offriva la prospettiva di una vera Comunità europea, ossia l' unificazione politica dei Paesi dell' Europa occidentale. D' altro canto, le ragioni dei sostenitori del movimento pacifista nazionale concordavano con quelle che animavano i sei Paesi fondatori della Cee e i loro principali rappresentanti: Adenauer, De Gasperi e Schumann. I quali si erano prefissi questi due obiettivi: niente più guerra tra gli Stati-nazione e fermo ancoraggio della Germania a una comunità di nazioni europee». Che gli Stati membri della Ue possano nuovamente dare vita a un conflitto appare impensabile. La maturazione del mercato unico, inoltre, ha portato prosperità a una buona percentuale della popolazione. Possiamo dire, dunque, di celebrare il passaggio da una forma mentis commisurata allo Stato-nazione a una visione
autenticamente paneuropea? «È certamente, questo, un buon motivo per festeggiare; il mutamento di paradigma, però, non è ancora giunto a conclusione. Ma un altro aspetto, piuttosto diverso, si è palesato e, con una certa dose di auto-consapevolezza, potremmo farne buon uso. Nell'odierno, critico contesto multipolare, l' unificazione europea ci consente di giocare un ruolo che in passato, agli albori del conflitto tra Oriente e Occidente, nessuno avrebbe potuto immaginare. All' inizio, l' Europa rappresentava una risposta alle difficoltà nazionali; oggi, quando riflettiamo sul futuro dell'Europa, la nostra attenzione si concentra per lo più sulle sfide provenienti dall' esterno. Certo, non siamo ancora pronti a giocare il ruolo di ponte diplomatico tra potenze globali». Quale questione metterebbe in cima all'agenda politica Ue: la recente sconfitta della Costituzione, una politica estera comune, la creazione di un esercito o la guida dell' impegno internazionale contro i danni dei cambiamenti climatici? «La definizione di una politica estera comune, l' istituzione di un esercito Ue e l'armonizzazione delle politiche economiche e fiscali si collocano su un piano ben diverso rispetto alla débâcle del progetto costituzionale. Prima ancora di
potere fissare obiettivi così ambiziosi, l' Unione allargata deve fare ordine al proprio interno, in modo da preservare la propria governabilità e sviluppare la capacità di agire politicamente. Soprattutto, non dovremmo illuderci minimamente sulla vera origine della resistenza all' approfondimento delle istituzioni Ue...». ...cioè il rigetto espresso da buona parte della
popolazione? «No, il problema non è la resistenza opposta dai cittadini! In realtà, la gran parte dei Paesi conta al proprio interno maggioranze silenziose a favore di un consolidamento della Ue. L' origine dell' impasse va rintracciata, piuttosto, nella frequente disparità di obiettivi che i governi si pongono rispetto all' Unione». Come spiegare, allora, l' esito negativo dei
referendum francese e olandese? «Lo smacco referendario ha semplicemente puntato portato alla ribalta il fatto che i nostri governi sono incappati in un vicolo cieco. Il mercato unico non è stato un gioco a somma zero. Ha implicato diversi benefici per tutti gli Stati membri. Una cornice costituzionale attorno alle politiche comunitarie, invece, richiede una comune volontà politica che vada al di là del riconoscimento di vantaggi ai vari Stati membri. Ovviamente, i nostri governi non sono ancora in grado di raggiungere un accordo sull' obiettivo ultimo: il vero significato del "progetto europeo"». Chi allora, se non i governi, dovrebbe alimentare lo sviluppo europeo? «L' unica via d' uscita che possa scorgere è un referendum paneuropeo. I governi - che, dopo tutto, hanno il controllo della situazione - devono riconoscere la propria impotenza e, stavolta, "avere il coraggio di usare la democrazia". Devono andare oltre se stessi e mettere i partiti politici di cui si compongono di fronte alla necessità di lanciarsi in un' aperta battaglia all' ultimo voto a favore - o contro - l' allargamento e approfondimento della Ue». Come da lei rimarcato, i mutamenti geopolitici esigono un' Europa forte. È lecito sostenere che il modello dello Stato-nazione sia ormai superato? «No. Gli Stati-nazione rimangono gli attori più importanti sulla scena internazionale. E sono parte integrante, insostituibile delle organizzazioni internazionali. Dopo tutto, l' organizzazione della comunità internazionale trae ispirazione da quella delle Nazioni Unite. A dovere cambiare - e in Europa è già successo - è l'immagine che gli Stati-nazione hanno di sé; difatti, devono imparare a considerarsi non tanto attori indipendenti, quanto membri di una comunità più estesa che, in quanto tali, si sentono tenuti a conformarsi a regole comuni». Quali sono gli obiettivi a lungo termine che la Ue, come entità politica, dovrebbe prefiggersi? «Alle elezioni del 2009 dovrebbe essere abbinato un referendum paneuropeo su tre questioni: l' Unione, al di là delle effettive procedure decisionali, dovrebbe avere un proprio presidente eletto a suffragio diretto, un ministro degli Esteri e una base finanziaria? È quanto rivendicato dal Premier belga Guy Verhofstadt. Se il referendum avesse esito positivo, comporterebbe la rinuncia a un modello di Europa quale convoglio il cui incedere è determinato dal mezzo tra tutti più lento».
Matthias Hönig
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