È in Europa l'altro mondo possibile
Oggi più che mai, come disse Max Weber, non esiste altra politica che quella «mondiale». Ciò non significa che esiste un'unica politica possibile, ma anzi che si impone una scelta tra politiche diverse, definite da diversi obiettivi, mezzi, condizioni, ostacoli, «soggetti» o «volontà», rischi. L'alternativa è il campo della politica. Il problema diventa allora: quali sono le alternative alle forme dominanti? L'Europa può essere «altermondializzatrice»? E come? Parlare di una politica necessariamente mondiale non significa disinteressarsi alle condizioni e ai problemi delle persone, lì dove vivono o dove la storia le ha collocate. Significa anzi affermare che la cittadinanza locale ha per condizione una cittadinanza mondiale attiva. Ogni scelta che orienta una politica locale in materia economica, sociale, culturale, istituzionale implica una scelta «cosmopolitica» e viceversa.
Oggi nel mondo l'Europa, nonostante alcune velleità diplomatiche, è priva di qualsiasi capacità di iniziativa. Non mancano esempi: dalla riforma delle Nazioni unite alla realizzazione del Protocollo di Kyoto, dalla regolazione delle migrazioni internazionali alla risoluzione delle crisi in Medio Oriente. Il fatto che non esista una politica mondiale europea implica anche che non esiste - o se esiste, è minima - una politica mondiale e neanche una politica interna delle nazioni europee che comportino alternative reali.
Rapporti di forza ereditati
Le cause di tale situazione sono da ricercare in un'evoluzione dei rapporti di forza ereditati dalla storia e rafforzati dalla congiuntura attuale. Ma questa evoluzione - che conferisce alla «costruzione europea» una funzione puramente reattiva e semplicisticamente adattativa - non può spiegare tutto. Bisogna aggiungervi la disastrosa incapacità collettiva della maggior parte delle popolazioni europee ad immaginare politiche alternative, incapacità indissociabile dall'incertezza sull'identità politica dell'Europa. Lo scacco del progetto di Costituzione non è l'origine, ma uno dei sintomi di tale incertezza.
La Francia ha una responsabilità particolare in questa situazione: non soltanto in qualità di «paese fondatore», ma perché non cessa di alimentare l'illusione di una leadership fondata sul mito della proprio eccezionalismo («il paese dei diritti dell'uomo»), sui residui del dominio coloniale o sul fantasma del gollismo e della sua «politica indipendente». Di fatto si accontenta dei compromessi tra gli interessi delle potenze dominanti o emergenti.
La costruzione dell'Europa come una federazione di nuovo tipo comporta, allo stato attuale, alcune conquiste ma nessun vincolo. Il suo carattere «espansivo» non deve creare illusioni. O la costruzione europea trova nuove basi e nuovi obiettivi, oppure crollerà cancellando per molto tempo qualsiasi possibilità di azione politica collettiva in questa parte del mondo.
Le forze che si oppongono al rilancio della costruzione europea - a «destra» come a «sinistra» - sono allo stesso tempo all'interno di ogni paese (come ha dimostrato il «no» franco-olandese al quale avrebbero potuto aggiungersene molti altri se la campagna delle ratifiche fosse continuata) e all'esterno dell'Europa (in particolare negli Stati uniti). Ma il fattore determinante è ciò che si può definire «la contraddizione al cuore del popolo europeo», in tutte le sue dimensioni sociali e culturali, che va affrontata energicamente con dibattiti e mobilitazioni che attraversino le frontiere. Per farlo c'è bisogno, se non di partiti, almeno di movimenti, di reti, di iniziative trans-europee. L'identità europea affronta un doppio problema. Da una parte, deve superare la divisione interna tra Est e Ovest, che nel tempo si sposta, si esprime in antagonismi tra «regimi» e «sistemi» (non senza paradossi, come quando l'«occidentalismo» si sposta a Est sull'onda di «rivoluzioni» e «contro-rivoluzioni»), ma non scompare. Dall'altra, deve farsi arbitro tra un'Europa «chiusa» (quindi ristretta, ma entro quali confini?), e un'Europa «aperta» (più che una Grande Europa, un'Europa delle frontiere che riconosca la propria costitutiva interazione con i grandi spazi euro-atlantico, euro-asiatico, euro-mediterraneo, euro-africano). E' a questo livello che si pongono le «questioni» che sono oggi in sospeso: la questione turca, la questione russa, la questione inglese... L'Europa dovrà inventarsi la geometria variabile, una forma statuale ed amministrativa inedita nella storia.
Potenza o mediazione?
A fronte del declino dell'egemonia americana nel mondo (relativa ma irreversibile ed accelerata dal tentativo neoconservatore della sua restaurazione con la forza), l'Europa deve scegliere tra due strategie che hanno conseguenze in tutti i campi della vita politica e sociale: costituire uno dei «blocchi di potenza» (Grossraum) che entreranno in competizione per una nuova spartizione del mondo, o costituire una delle «mediazioni» che tenteranno di partorire un nuovo ordine economico e politico, più egualitario e decentralizzato, capace di limitare effettivamente i conflitti, di istituire dei meccanismi di redistribuzione, di tenere in scacco le pretese egemoniche. La prima via è votata al fallimento (anche al prezzo di un'evoluzione totalitaria cui potrebbe spingere il peggioramento dell'insicurezza, di cui il terrorismo è un aspetto). La seconda rimane improbabile a meno di una forte coscienza collettiva e volontà politica che costituiscano un'opinione pubblica maggioritaria attraverso il continente. E' comunque certo che i termini dell'alternativa non possono essere nascosti dalle retoriche del compromesso tra burocrazie nazionali e comunitarie.
Tra il «Nord», al quale essenzialmente appartiene l'Europa, e il «Sud» (la cui geografia, economia e grado di integrazione statale si differenziano sempre più), non c'è solo interdipendenza, ma una vera e propria reciprocità nelle possibilità di sviluppo (o di «co-sviluppo»). E' necessario riconoscerlo e farne un progetto politico. Il fatto che l'Europa sia stata il punto di partenza dell'«occidentalizzazione del mondo», in forme più o meno caratterizzate dal dominio ma oggi universalmente messe in discussione, costituisce un ostacolo e un'occasione: si tratta delle due facce della «post-colonia». E' così che si potrebbe trovare l'equilibrio tra un'Europa sicuritaria, che reprime violentemente le migrazioni che essa stessa provoca, e un'Europa senza frontiere, aperta alle migrazioni «selvagge» (cioè determinate integralmente dal mercato degli strumenti umani). Questo progetto permetterebbe di affrontare i conflitti di interessi e culture tra europei «vecchi» e «nuovi», «legali» e «illegali», «comunitari» e «extra-comunitari». Si tratta di una priorità non amministrativa, dunque, ma esistenziale.
La guerra in Libano, sullo sfondo di una ininterrotta crisi mediorientale sul punto di trasformarsi in guerra regionale, richiede urgentemente la creazione di uno spazio politico che includa tutti i paesi del circuito mediterraneo, il solo in grado di fornire un'alternativa a questo «scontro di civiltà». Riguardo alla questione israelo-palestinese, che ne costituisce l'epicentro, non si tratta di ratificare il discorso dell'estremismo anti-sionista, ma di bloccare al più presto e in maniera concertata l'espansionismo israeliano e di riconoscere i diritti del popolo palestinese. Più in generale, si tratta di trasformare un focolaio di guerra e di odio etnico-religioso in un'area di cooperazione e di negoziazione istituzionalizzata. Per ragioni evidenti, tocca all'Europa prendere l'iniziativa e la Francia, per la sua storia comune e conflittuale con il Maghreb, può giocare un ruolo particolare.
Cantieri decisivi
Alcuni «cantieri» politico-giuridici sono decisivi per un'altermondializzazione. La regolazione democratica dei flussi migratori, cioè la riforma del diritto di circolazione e di residenza, ancora segnati da logiche di sovranità e non di reciprocità; la «sicurezza collettiva» e la responsabilità penale degli Stati e degli individui di fronte alle istanze sovranazionali, cioè la riforma dell'Onu, ancora bloccata dall'eredità della seconda guerra mondiale e dalle logiche di potenza; il rafforzamento delle garanzie della libertà individuale, dei diritti delle minoranze e del rispetto della persona, cioè le condizioni dell'esercizio e della legittimità dell'ingerenza umanitaria; la creazione di istanze comuni nella negoziazione e regolazione economica, nel controllo dell'evasione fiscale, e riguardanti i diritti sociali, così da promuovere un «keynesismo» su scala mondiale; infine la priorità del rischio ecologico rispetto agli altri fattori di insicurezza segnalati da Kofi Annan nel discorso del Millennio.
Tali questioni, non esauriscono ma mostrano la varietà e l'interdipendenza degli elementi e dei contenuti di una politica effettivamente mondiale. Più che soluzioni, si tratta di contraddizioni ineludibili. E' necessario trovare le chiavi di volta per un dibattito politico serio ed onesto, in Francia e in Europa, che permetta di integrarle, precisarle e correggerle.
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