L'Europa e i mostri del passato

24 giugno 2007
Barbara Spinelli
Fonte: La stampa - 24 giugno 2007

I mostri del passato
BARBARA SPINELLI

Dicono che l’esperienza e gli errori servono a maturare, ma per l’Unione
europea le cose non stanno così: nel vertice di Bruxelles che venerdì e
sabato doveva salvare la Costituzione dei Ventisette si è scelto di tornare
indietro, non di andare avanti e di ripartire dal punto più alto cui si era
arrivati. Hanno contato più i pochi Stati ansiosi di frenare l’Unione, che
non gli Stati che in gran parte avevano già ratificato il progetto
costituzionale proposto nel luglio 2003 dai rappresentanti del popolo, dei
governi, delle istituzioni europee. Pochi Stati hanno spadroneggiato sui
più, e a forza di spadroneggiare hanno spostato le lancette degli orologi
costringendo il tempo ad arretrare e a cancellare non solo le esperienze
vissute ma anche le risposte date agli errori passati.

La finta che da decenni consuma l’Europa ricomincia dunque, impermeabile
agli insegnamenti della storia: continua l’abitudine a costruire l’Europa
senza darle né il metodo né i mezzi né le parole per affermarsi. Non solo:
pur appellandosi alle volontà dei cittadini, pur affermando di voler
riavvicinare l’Europa alle popolazioni deluse, i capi di Stato e di governo
hanno ignorato il parere delle genti. Il popolo europeo non aveva chiesto
queste pavide rinunce. Aveva chiesto una costituzione europea, in cui
potersi identificare come ci si identifica con le costituzioni nazionali: il
66 per cento l’aveva reclamata con forza, nel sondaggio Eurobarometro di
giugno. Non è quello che gli Stati gli hanno dato, se è vero che perfino la
parola costituzione li ha impauriti. Gli Stati hanno protetto non i popoli
ma se stessi e le proprie false sovranità. Il linguaggio del progetto
costituzionale era troppo farraginoso - era stato detto ­ e per questo
francesi e olandesi l’avevano respinto nel 2005. I testi odierni hanno un
linguaggio infinitamente più opaco, impenetrabile, ambiguo. Più
precisamente, i Ventisette sono tornati al trattato di Nizza del 2000,
migliorandolo in alcuni punti importanti ma non decisivi. Di qui
l’impressione che sette anni siano passati invano, quasi non fossero
esistiti. Non è esistito il momento in cui fu chiaro a tutti che Nizza era
una trappola paralizzante, e venne convocata una Convenzione più
rappresentativa delle volontà popolari. Non è esistita la decisione di
affidare la riforma delle istituzioni e dunque la nascita di un’Europa
politica non più a governi gelosi delle proprie prerogative ma a un corpo
più democratico (la Convenzione appunto, composta di rappresentanti dei
parlamenti nazionali, dei governi, del Parlamento europeo, della Commissione
di Bruxelles). Ogni futura modifica non richiederà la convocazione di
un’analoga Convenzione, come era scritto nella parte quarta della
Costituzione oggi affossata (articolo IV-443).

Anche questo paragrafo viene estromesso, assieme a tanti altri paragrafi,
dal mandato su cui lavorerà, a partire dal 23 luglio, la Conferenza
intergovernativa incaricata di emendare i vecchi trattati e proporli a
ratifica prima delle elezioni europee del 2009.

Ma, soprattutto, gli Stati hanno agito come se non avessero avuto alle
spalle una serie di fallimenti, riconducibili tutti all’incapacità
dell’Unione di prendere decisioni comuni anche quando fra i Ventisette c’è
disaccordo: fallimenti come la spaccatura sull’Iraq e l’impossibilità di una
comune politica internazionale. Il ministro degli Esteri europeo, che doveva
avere una sua autonomia e presiedere i Consigli dei ministri, diventa una
figura senza autorità. Non si chiamerà d’altronde ministro degli Esteri ma
Alto Rappresentante. Sarà una copia di quello che abbiamo già dal 1999
(Xavier Solana) e che ha dimostrato di non funzionare.

Gli Stati insomma si riprendono ­ per intero ­ i poteri che avevano promesso
di delegare. In politica estera non accetteranno alcuna autorità sopra di
sé, e ciascuno ottiene di gestirla «secondo i propri interessi nazionali».
Non ci sarà una Carta dei diritti obbligatoria per tutti, ma solo un accenno
alla sua esistenza e la possibilità, per Inghilterra e Polonia, di non
considerare i suoi dettami vincolanti. Londra non considera validi i
paragrafi sul diritto di sciopero e altri diritti sociali. Varsavia giudica
irrilevanti diritti etici come la non discriminazione.

In realtà non si è tornati indietro di sette anni ma di più di mezzo secolo.
Certo, l’europeizzazione delle politiche nazionali è un dato di fatto
difficilmente smantellabile, anche se viene restaurato il falso potere
sovrano degli Stati. Ma nei modi di pensare e di fare, i dirigenti nazionali
tornano all’epoca che precedette la nascita stessa dell’unificazione
europea. Il vertice appena concluso a Bruxelles ha svegliato mostri maligni,
che sembravano dormienti, e l’Europa torna a essere un continente dove quel
che conta è l’equilibrio di potenze invece della cooperazione e della comune
volontà: la balance of power che tiene le singole nazioni del nostro
continente in stato di perenne rivalità, intente a tenersi a bada
reciprocamente e a brandire l’una contro l’altra le proprie sovranità
assolute.

La balance of power è il veleno che per secoli ha corroso l’Europa fino a
distruggerla, e contro cui fu inventata ­ dopo la guerra ­ l’Unione europea:
questo veleno viene inoculato di nuovo nelle nostre vene, spensieratamente,
come se la storia fosse fatta di nulla. Altro significato non ha lo scontro
Berlino-Varsavia, che ha impregnato l’intero semestre di presidenza tedesca.
Il governo polacco si è presentato a Bruxelles con l’esplicito proposito di
ottenere un risarcimento per i disastri bellici causati dalla Germania («Se
nel 1939 la Germania non avesse invaso la Polonia, oggi avremmo 66 milioni
di abitanti invece di 38 e il problema non si porrebbe», ha detto il premier
Jaroslaw Kaczynski) sostenendo che la regola di decisione basata sulla
doppia maggioranza degli Stati e della popolazione è a ben vedere un premio
dato alle stragi di Hitler.

Il risentimento, l’uso della storia, l’invidia per paesi come la Germania,
divenuta ricca anche se perdente nell’ultima guerra: queste le emozioni che
hanno dominato i lavori a Bruxelles. Quando Angela Merkel ha minacciato di
convocare una conferenza senza Varsavia, ripetendo il gesto compiuto nell’85
a Milano dal governo Craxi (così si riuscì a convocare una conferenza
intergovernativa sulla riforma delle istituzioni, mettendo in minoranza la
Thatcher), era troppo tardi. Sarkozy e Blair si sono opposti, e l’Italia ha
dimenticato Craxi e Andreotti.

Dicono che la sostanza resta, anche se la forma svanisce. Dicono che gli
Stati non vogliono dire quel che fanno, e ancor meno scriverlo. In parte è
vero: la dissimulazione torna a essere quel che distingue l’Unione. Ma
proprio questa continua dissimulazione stava negli ultimi quindici anni
uccidendo l’Europa, impedendole di divenire potenza per meglio salvare i
simulacri che sono ormai gli Stati sovrani. Non si parla più di
costituzione, non c’è più il preambolo del vecchio progetto né si accenna al
comune inno, alla comune bandiera, alla comune parola d’ordine («uniti nella
diversità»). Non si critica il diritto di veto, anche se un pochino lo si
attenuerà. Il presidente della Commissione Barroso annuncia che «dalla bella
lirica si è passati alla più efficiente prosa», ma in questa prosa non c’è
efficienza e nel pragmatismo non c’è che menzogna: la menzogna secondo cui
gli Stati hanno sovranità autentiche, per il solo fatto che riprendono il
controllo dell’Europa e le vietano di nascere.

Chi in Italia aveva previsto e voluto simili involuzioni ha parzialmente
ottenuto ragione, anche se lo sguardo che getta sull’Unione è non meno
menzognero: è uno sguardo che sottovaluta la debolezza effettiva degli Stati
e il riaffiorare continuo delle volontà europeiste. Il governo, presente a
Bruxelles con Prodi e D’Alema, ha fatto comunque poco per smentire queste
previsioni. Ha acconsentito all’arretramento, ha accettato perfino una
richiesta assai equivoca del presidente Sarkozy: la rinuncia a considerare
la «concorrenza libera e non distorta» uno dei fini dell’Unione, che dà alla
Commissione di Bruxelles il diritto di punire il protezionismo degli Stati.

Ma soprattutto ha accettato di negoziare sulla base del trattato di Nizza
anziché sulla Costituzione ratificata da 18 paesi, tra cui il nostro.
Proprio quello che si era impegnato a non fare, nell’incontro di Prodi e
D’Alema con il Capo dello Stato il 16 maggio scorso. In realtà non c’era che
Napolitano a volersi battere per una linea coerente e ferma anche a prezzo
di rompere. La sua voce nei prossimi mesi e anni, quando inevitabilmente
riaffiorerà il bisogno d’Europa, sarà sempre più preziosa.

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