Nazionalismi, veleno dell'Europa

24 febbraio 2008
Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa - 24 febbraio 2008

Nata per stemperare i nazionalismi violenti, l'Unione Europea ha compiuto in questi giorni un passo paradossale, dagli effetti forse sinistri: quasi senza rendersene conto, la maggior parte dei suoi Stati ha decretato che l'indipendenza del Kosovo era una cosa non solo ineluttabile ma buona e giusta, così come il Signore vide che erano una cosa buona la terra e il cielo appena creati. D'un colpo i principali governi europei hanno smentito la propria storia, decidendo di proteggere uno Stato che ha come palese ragion d'essere la segregazione etnica. Si sono trasformati in una forza che legittima Stati razziali, inserendoli in una Comunità che a parole li rifiuta.

Dicono i fautori del riconoscimento che la mossa era ineluttabile, visto il naufragio della diplomazia. Dicono anche che non sarà vera indipendenza, e che dunque non esisterà contagio: sarà un'indipendenza sotto sorveglianza, finta. Il nuovo Stato sarà un protettorato europeo come dal '99 è stato un protettorato Onu e Nato.

Ma l'Europa svela la propria inconsistenza, mostrandosi così schiava della necessità. E svela la propria pochezza, scommettendo sulla forza civilizzatrice d'un protettorato che sbarazza i kosovari di responsabilità primarie: spetterà infatti all'Europa proteggere le minoranze, non ai kosovari. Questi ultimi non devono migliorare: alla civiltà penserà l'Europa, se ci penserà. Vero è che c'è inquietudine nell'Unione, che non c'è l'entusiasmo americano di fronte
all'incancrenirsi di nazionalismi nel continente. Ma l'inquietudine è appena un'increspatura sulle acque del fatalismo. L'Europa non sa la storia che fa, e sembra aver scordato che la storia è tragica.

E' una storia tragica per l'Unione come per i Balcani, cui stiamo aprendo le porte senza pensieri seri sul futuro. Per quanto concerne l'Unione si conferma la malattia gravissima in cui da anni viviamo: incapace di unirsi, abolendo i diritti di veto posseduti da ciascuno Stato, l'Europa ridiventa preda dei dèmoni. Tutta la sua politica di allargamento, ormai, è all'insegna del nazionalismo ritrovato. Ogni nuovo staterello cui si promette l'adesione avrà il suo veto, neppure addolcito dalla coscienza - viva nei paesi fondatori - dei propri storici errori e orrori. La dipendenza dagli Stati Uniti si dilata, si fa patologica rivalità mimetica. Diverremo potenza anche noi se riscopriremo lo Stato nazione e ne creeremo perfino di nuovi: questo diciamo a noi stessi, vacuamente. Con una variante però: se l'Europa fosse una federazione all'americana, sopporterebbe queste variazioni di appartenenze interne. Nelle condizioni attuali, essendo una somma di mini-sovranità, rischia la degenerazione. Rischia di fare quel che non vorrebbe: di riaccendere le identità etniche, facendosene garante e dissimulandole.

Questo ritorno dei nazionalismi è tragico anche per i Balcani e gli organismi internazionali. Nel prospettare l'indipendenza sotto protettorato, i ministri degli Esteri francese e inglese, Kouchner e Miliband, dissero nel 2007 che lo status quo non poteva essere accettato, e che le aggressioni serbe non andavano dimenticate. In realtà è lo status quo che oggi si accetta, e la smemoratezza dilaga. Lo status quo delle spartizioni, delle persecuzioni delle minoranze, delle logiche belliche. La smemoratezza di quel che sembrò essere
l'intervento occidentale nei Balcani: una lotta contro l'odio etnico, non per suscitare mini Stati razziali. Tutto questo nasce inoltre con le migliori intenzioni: per la liberazione dei popoli. Con 90 anni di ritardo, l'Europa vive il suo momento wilsoniano, come lo chiama lo storico indiano Erez Manela. L'autodeterminazione dei popoli, proposta dal presidente Wilson tra il 1918 e il 1919, viene riproposta da un'Europa immemore di quel che già allora si nascondeva dietro l'autodeterminazione: i protettorati, i conflitti, le ipocrisie, la violenza delle disillusioni.

Anche questa volta c'è ipocrisia: i dirigenti dell'Unione sanno che l'indipendenza non funzionerà senza stampelle esterne. Che la Serbia con l'appoggio russo affamerà il Kosovo, cominciando a fargli mancare l'energia (il 45 per cento dell'elettricità kosovara viene da Belgrado). Sa che la legalità internazionale non potrà essereinvocata, visto che la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, approvata nel '99, prometteva a Belgrado il rispetto dei confini esistenti.

Tragica è infine l'impresa in cui l'Europa s'imbarca per lungo tempo.

Senza essere ancora un'Unione, bloccata dai veti interni, l'Europa si permette la più costosa delle avventure: l'avventura dei protettorati coloniali, iniziata in Bosnia-Erzegovina e combinata con negoziatid'adesione sempre meno esigenti e sempre più tattici. Un'avventurapotenzialmente sciagurata, visto che nessuno osa rompere con le pratiche del protettorato Nato-Onu. A ciò si aggiunga il dramma dei fuggitivi serbi: la più ampia popolazione di profughi in Europa. Sono 700.000 i serbi fuggiti da Bosnia e Croazia (in Croazia restano i
serbi convertiti al cattolicesimo, scrive lo studioso Raju Thomas). A essi s'aggiungono 207.000 serbi e Rom del Kosovo.

Il protettorato Nato-Onu è stato in realtà un disastro. Lo spiega nei dettagli un rapporto redatto nel 2007 dall'Istituto di Politica Europea di Berlino, per l'esercito tedesco: in quasi nove anni, Onu e Nato hanno consentito che nascesse uno Stato criminale, che mescola radicalismo politico, servizi deviati, razzismo, mafia. Quasi tutti i suoi dirigenti, a cominciare da Hashim Thaci (premier dal novembre 2007) hanno militato nell'Armata di liberazione del Kosovo, e sono legati alla mafia internazionale e italiana: il Kosovo è specializzato nel commercio d'armi, nel riciclaggio di denaro sporco, nel traffico di droga, di clandestini, di prostituzione. È uno Stato che tollera linciaggi antiserbi come quello del marzo 2004. Che segrega i serbi in villaggi-ghetti. Che perseguita i Rom.
Ma l'Europa di queste cose non si è occupata a fondo. Si è occupata della bandiera e dello statuto della nazione: senza dare garanzie vere ai serbi, senza domandarsi cosa fosse per loro il Kosovo, considerandoli eternamente colpevoli delle colpe di Milosevic. La guerra contro quest'ultimo si giustifica ex post solo se oggi non si accettano i piccoli Milosevic kosovari. Li si accetta, invece. Qui è il paradosso: grazie all'ombrello aperto dall'Europa, il male può di nuovo insinuarsi nelle sue pieghe.

Nel rapporto degli studiosi tedeschi, la comunità internazionale appare complice di questi nazionalismi violenti: "grottesco è il suo rifiuto di vedere la realtà", e insano l'ottimistico "compiacimento da incompetenti" che anima i suoi massimi rappresentanti. Le forze Kfor della Nato, le forze Unmik dell'Onu, sono implicate in grandi nefandezze mafiose. L'amministrazione Usa ha
sistematicamente "preferito i politici più violenti", fin dai tempi di Clinton, e "più volte ha aiutato i criminali a fuggire". Nella base Usa in Kosovo c'è un carcere stile Guantanamo, il Campo Bondsteel (dal nome d'un comandante Usa in Vietnam).

I nazionalismi sono un veleno per l'Europa: alla lunga possono renderla irriconoscibile. Ancora non esiste come Unione, ed eccola pronta a creare protettorati che col tempo secerneranno risentimenti e impunità. Sotto un protettorato o dentro l'Unione (lo si è visto in Austria, Italia, Polonia) tutto diventa possibile: i razzismi al potere, l'illegalità, e quel fenomeno sempre più diffuso cui la Banca Mondiale diede il nome di State Capture, nel 2000. La "cattura dello Stato" avviene a opera di persone o gruppi che privatizzano il
potere, aggirando leggi e istituzioni. Visto che esiste l'Europa come garanzia esterna, le nazioni e i loro dirigenti possono permettersi ogni cosa: i risentimenti e la caccia al diverso, l'abitudine all'irresponsabilità e la "cattura dello Stato".

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