Una nuova Bretton Woods, ma solo se...

12 novembre 2008

Quando, nel 1944, si confrontarono a Bretton Woods (nel New Hampshire) le proposte di Keynes e di White per la creazione di un nuovo ordine economico internazionale, la vera sfida non era quella tra la raffinatezza delle idee britanniche ed il pragmatismo americano: i protagonisti dello scontro erano due configurazioni del potere e due visioni del mondo, diverse per esperienza storica e per stato di salute. Come Keynes, l’Inghilterra era malata e alla fine della propria esistenza da potenza egemone mentre gli Stati Uniti, proprio come White (tra l’altro economista di matrice Keynesiana), erano forti, dinamici e pieni di volontà di affermazione.

Da un punto di vista realista, il diverso stato di salute delle due potenze a Bretton Woods spiega bene il contrasto fra le loro proposte: quella inglese, necessariamente pluralistica e cosmopolita, fondata su una moneta condivisibile da tutta l’umanità, il bancor, nascondeva la volontà di impedire che un nuovo competitor si sostituisse al governo di sua maestà nel ruolo di gendarme del mondo; quella statunitense, basata sull’idea di un gold exchange standard basato sul dollaro, rifiutava la condivisione delle responsabilità a livello mondiale e apriva la strada al “secolo breve” americano.

Alle fine della storia ha prevalso il “nuovo” sul “vecchio”, l’egemonia emergente su quella in declino. Il “peso” degli USA ha distorto a proprio favore i lavori delle commissioni e della conferenza finale, proprio come una grande massa ha il “potere” gravitazionale di distorcere il flusso del tempo. La morale generale della storia, utile a riflettere sul senso del “ma solo se…” che ho aggiunto nel titolo dell’articolo, è che ogni istituzione incorpora la configurazione del potere prevalente in un dato momento, riducendo la portata “universale” di ogni riforma dell’ordine internazionale. Ovviamente questa configurazione del potere è mutevole, e può presentarsi come più o meno equa: nel nostro caso è stata, ed è tutt’ora, totalmente sbilanciata a favore degli Stati Uniti i quali, in assenza di interlocutori di pari livello (ovviamente non possiamo considerare l’URSS pre-1989, da sempre fuori dai giochi per quanto riguarda l’influenza sulle istituzioni del capitalismo globale), hanno avuto mano libera per plasmare a proprio piacimento i risultati di Bretton Woods, e non solo.

In effetti, dal diritto di veto nel consiglio di sicurezza ONU, che produce nel 2008 un fermo immagine delle politica mondiale all’anno 1945, fino al voto a maggioranza qualificata (85% delle quote di partecipazione dei paesi aderenti) nel Fondo Monetario Internazionale (FMI) e nel gruppo della Banca Mondiale (BM), vanificato dalla quota USA del 17%, che garantisce un sostanziale potere di veto, le istituzioni internazionali sono poco più che strumenti per amplificare ad ampio raggio un messaggio di potenza e una precisa ideologia.

Un inciso, per spezzare una lancia a favore delle organizzazioni internazionali: quanto detto finora non significa assolutamente che non esiste alcuno spazio per il cambiamento o per l’introduzione di politiche anti-egemoniche dentro alle stesse istituzioni internazionali; il potere si incarna anche nei concetti, nelle parole chiave e nelle informazioni, così che anche i think thank, i centri studi ONU e le organizzazioni di informazione globale come l’OCSE possono trasformare delle idee in paradigmi dai quali è impossibile prescindere (un caso emblematico è il concetto di sviluppo sostenibile, ormai entrato a far parte del linguaggio condiviso a tutti i livelli di polity). Potremmo inoltre aggiungere che la capacità di scrivere la regole del gioco da parte di chi detiene il potere politico è limitata anche da motivi reputazionali e identitari (ovvero da quei casi che, nella teoria dei giochi, vanno sotto il nome di “contrattazioni ripetute”) ma, al di là di questo, resta comunque evidente il fatto che, almeno nel breve-medio termine, sono la ragion di stato, la forza economica ed il peso politico gli strumenti per determinare le finalità e le scelte, oltre che la struttura organizzativa delle istituzioni internazionali.

Oggi ci troviamo nella stessa situazione del ’44: la crisi finanziaria ha palesato la necessità di un cambiamento profondo nelle regole della comunità economica internazionale. Da più parti provengono richieste di una “nuova Bretton Woods” o di una “Bretton Woods II”, soprattutto da quando i leader del G20 hanno deciso di riunirsi a New York, il prossimo 15 novembre, per iniziare a discutere sulle possibili proposte di riforma. Ancora una volta sarà il potere prevalente e le forze “reazionarie” ad incarnarsi nelle nuove istituzioni, vanificando i tentativi strutturali di riforma e gettando ancora di più il pianeta fra le braccia di una “grandissima depressione”? Prima di andare avanti, è necessario guardare alle idee già in campo, dove la confusione ed i buoni e generici propositi regnano sovrani: a sentire ciò che affermano i capi di stato e di governo dei più importanti paesi del mondo una sintesi al rialzo delle varie posizioni non sarà affatto facile. Secondo l’amministrazione americana “this meeting is not about discarding market principles or about moving to a single global market regulator, there is very little support for that” (fonte New York Times), anche se è doveroso sottolineare che l’elezione di Obama potrebbe sconvolgere un po’ le carte in tavola, rendendo imprevedibile il comportamento dei neocon durante gli ultimi giorni di governo; Sarkozy, in veste di novello De Gaulle e di presidente di turno dell’Unione Europea, prima chiede un Governo europeo dell’economia tramite un direttorio dell’eurogruppo, per poi ritirare le proposte più forti affermando che “se Governo economico significa Europa federale e politica economica uguale per tutti non è certo quello che io intendo” (fonte il Sole 24Ore). Anche la Germania porta avanti una posizione ambigua fatta di chiusura nazionalista, sfiducia nel poco tecnicismo dei colleghi europei e mancanza di coraggio politico da parte della Merkel, molto meno lungimirante del suo “padre politico” Helmut Kohl. I tentennamenti europei e americani si sommano poi alla complessità dell’odierno scenario globale, composto dai nuovi e vecchi Paesi in Via di Sviluppo (PVS), dagli spazi d’azione che restano per le istituzioni oggi già esistenti, dalla crescente interdipendenza tecnologica; con le parole del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz:

"Ci sono voluti 15 anni e una guerra mondiale perché il mondo si unisse per prendere di petto i punti deboli del sistema finanziario globale che aveva contribuito a provocare la Grande Depressione. Non resta che auspicare che non debba occorrere altrettanto adesso: considerato l'attuale livello di interdipendenza globale, i costi sarebbero semplicemente esorbitanti e insostenibili. Tuttavia, se Stati Uniti e Gran Bretagna dominarono la scorsa conferenza di Bretton Woods, c'è da tener conto che l'odierno panorama globale è completamente diverso. Parimenti, le vecchie organizzazioni create a Bretton Woods furono caratterizzate da una sfilza di dottrine economiche che si sono rivelate fallimentari non soltanto nei Paesi in via di sviluppo, ma finanche nella terra d'origine del capitalismo. L'imminente summit globale dovrà assolutamente affrontare queste nuove realtà se come è doveroso - dovrà impegnarsi per creare un sistema finanziario globale più stabile e più equo." (fonte La Repubblica)

Alla confusione delle idee provenienti dal mondo della politica e dei governi si aggiungono altre piccole e grandi proposte, tutte quante utilissime ma spesso limitate o contraddittorie, ognuna delle quali fallisce nell’andare al nodo del problema: dal rilancio della Tobin Tax ai codici etici per le banche e le imprese, dall’eliminazione dei paradisi fiscali alle campagne di trasparenza nei bilanci e nelle operazioni più rischiose, dall’introduzione di metodi partecipativi e più democratici alla messa a disposizione da parte di FMI e BM di facility a brevissimo termine per sanare gli shock che affliggono e affliggeranno soprattutto i PVS.

Una nuova Bretton Woods è certamente necessaria, ma solo se riuscirà a scardinare il gioco di potere che mira a fare delle future istituzioni riformate l’ennesimo strumento di giustificazione di un mondo dove i pochi impongono ancora una volta le regole ai tanti; una nuova Bretton Woods è indispensabile, ma solo se rappresenterà la prima componente di una nuova architettura istituzionale globale, e non un maquillage delle logiche esistenti, ree di aver già dimostrato di non reggere le sfide imposte dalla globalizzazione. Una nuova Bretton Woods sarà possibile, ma solo se l’Europa inizierà ad agire come un soggetto politico unico, rilanciando quel progetto incompiuto di integrazione ed unità che porta avanti da più di 50 anni.

Il crollo economico e finanziario ha aperto una grande frattura nelle maglie del potere mondiale, accelerando la crisi egemonica degli Stati Uniti e creando le condizioni affinché un nuovo equilibrio possa realmente crearsi. L’Europa può sfruttare questo momento irripetibile, oppure aspettare che il vuoto di legittimità venga definitivamente riempito dai nuovi paesi emergenti. Quegli stessi paesi sistematicamente estromessi dal direttorio dei potenti ma che oggi sono finalmente capaci, attraverso le loro risorse economiche, produttive e demografiche, di appropriarsi del potere d’influenza e di decisione che gli europei continuano colpevolmente a non volere.

Note: http://cocktaileconomy.blogspot.com

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