.. e le chiamano elezioni europee
La campagna in corso per l’elezione del Parlamento europeo forse è la meno tesa degli ultimi anni. Non si sente un grande dibattito in corso e i poster dei faccioni dei candidati che si rincorrono per i muri delle nostre città sono quasi tutti uguali addirittura negli slogan che vengono utilizzati. Questa situazione probabilmente è dovuta dalla mancanza di pathos per i suoi risultati, anche perché non sono legate all’elezione di alcun esecutivo. Inoltre la soglia di sbarramento al 4% e la rintroduzione delle preferenze, fa si che non tutte le liste e/o candidati in corsa credono realmente alla loro elezione e di conseguenza non si mobilitano al massimo.
Tutto ciò potrebbe essere inteso come effetto della fase congiunturale della politica italiana, stretta da una profonda crisi economica globale e da uno strapotere mediatico governativo, ma a veder bene nasconde un elemento ben più preoccupante. Le diverse forze politiche, chi più e chi meno, sottovalutano la grande importanza delle elezione del Parlamento europeo, unica istituzione sopranazionale direttamente eletta dai cittadini, vedendolo come lontano e che non ha un grande impatto nella vita quotidiana. Non c’e’ niente di più sbagliato. Forse non tutti sanno che oltre il 70% della legislazione nazionale è in qualche modo collegato con la normativa comunitaria, e a livello nazionale spesso non spetta altro che il recepimento e l’esecuzione di questa normativa. Inoltre forse non tutti sanno che negli ultimi anni il Parlamento europeo ha assunto sempre maggiori poteri nel processo decisionale comunitario che ormai lo rende codecisore, insieme ai governi nazionali, di almeno il 60% di tale normativa comunitaria, quota che con la prevista entrata in vigore nel nuovo anno del Trattato di Lisbona arriverà quasi al 90%.
Queste mere argomentazioni contabili dovrebbero essere sufficienti per far comprendere l’importanza della posta in gioco, almeno ad una classe politica mediamente lungimirante, ma così non pare che sia neanche per i maggiori media italiani. La stessa preparazione delle liste dei candidati è stata dominata da gossip di possibili candidate veline, presunti divorzi e dall’ossessione del Premier di presentarsi in tutte le circoscrizioni con l’ambizione di diventare il leader che riscuote il maggior numero di preferenze personali in Europa, magari alla guida della componente nazionale più grande all’interno del partito di maggioranza relativa al Parlamento europeo.
Infatti ormai non è più un segreto l’intenzione dei conservatori inglesi di uscire dal Partito Popolare Europeo, al fine di promuovere un nuovo gruppo euroscettico alla destra dello stesso PPE. Solo in questa prospettiva si può comprendere la forte competizione elettorale in corso tra il PPE e il PSE, in lotta per la maggioranza relativa nella prossima legislatura. Solo con questa premessa si comprende perché questi due storici partiti europei sono ben lieti di accogliere in seno ai loro gruppi le due “anomalie” italiane rispetto alle proprie tradizioni politiche, ovvero il PDL e il PD, nel disperato tentativo di racimolare più eletti possibili per superare l’altro. Ciò da maggiore rilevanza politica al voto europeo in Italia, potendo pesantemente contribuire a dettare nuove maggioranze e dunque ipotetiche nuove alleanze europee nel campo progressista. In questa ottica lo stesso Presidente del PSE Rasmussen recentemente ha ipotizzato una inedita alleanza tra socialisti, verdi e liberali che rompa il tradizionale compromesso tra i due maggiori partiti europei e possa sbarrare la strada alla riconferma del conservatore Barroso alla Presidenza della Commissione europea.
In Italia, comunque, la questione della strumentalizzazione delle scelte delle candidature non ha risparmiato neanche le forze del fu centro-sinistra. Infatti è vero che Franceschini, con un atto di coraggio rispetto al passato, ha voluto far approvare un regolamento che garantisse continuità quinquennale al lavoro degli eletti del PD, mettendo un freno al fenomeno che ha visto nella legislatura appena conclusa neanche la metà degli eurodeputati ulivisti portare a termine il proprio mandato europeo, lusingati da incarichi televisivi o politici in Italia ritenuti più prestigiosi.
Tale regolamento interno ha indotto il PD a non presentare i suoi leader, visto che non sarebbero mai andati a Bruxelles, senza però riuscire a convincere molti degli altri leader dell’opposizione a fare altrettanto. Cosi come Berlusconi anche personaggi come Vendola, Di Pietro o lo stesso Casini si sono candidati sapendo di chiedere un voto per un incarico che non possono o non vogliono realmente ricoprire. Ciò ci allontana dall’Europa. Infatti basandosi sull’incompatibilità della carica di parlamentare europeo con i principali incarichi nazionali, come dice Franceschini, “ci sarà un motivo se in nessun altro paese europeo si chiede un voto per un posto in cui non si vuole andare ?”. Vedremo a chi daranno ragione le urne il 6 e 7 giugno.
A dire il vero, però, il PD non ha voluto trarre fino in fondo le conseguenze di questa scelta coraggiosa. Infatti invece di aprire le sue liste finalmente a persone realmente nuove, facendo della competenza e dell’impegno europeista il vero criterio di selezione delle candidature, si è deciso generalmente di far avanzare le seconde linee, in modo tale da avere in lista comunque rappresentanti facilmente collegabili ai vari leader, o presunti tali, con l’intento di usare le elezioni europee come strumento di conta interna della consistenza delle varie correnti alla vigilia del congresso fondativo del partito. Ovviamente ciò non è applicabile per tutte le candidature, ma sicuramente si è persa una occasione storica per mandare un forte segnale di rinnovamento della classe politica e di fare del sincero europeismo la bandiera del costituendo partito nuovo.
Questo provincialismo della politica italiana non può che avere conseguenze dirette anche sull’annosa questione della collocazione internazionale dei partiti della sinistra. Infatti pare che finalmente il PD sia riuscita a trovare un accordo con il PSE per la creazione di un nuovo “gruppo dei socialisti e dei democratici” nel prossimo Parlamento europeo (il quale potrebbe divenire il nuovo punto di riferimento per tutte le forze riformiste nel mondo, anche di non estrazione socialista e laburista europea) ma senza dotarsi nel contempo di un solido e coerente progetto politico, rinviando a data da definire la costituzione di un vero Partito dei progressisti trans-nazionale. In questo modo si rimane alla finestra in attesa di vedere i risultati elettorali e ci si dota di un’arma ulteriore per arginare possibili ripensamenti interni.
Dall’altra parte dalla scissione di Rifondazione Comunista, protagonista della fondazione del Partito della Sinistra europea, si è data vita all’ennesimo cartello elettorale della sinistra italiana che prevede alla base del suo progetto politico la divisione dei suoi ipotetici eletti in tre diversi gruppi in Europa. Questi aspetti preoccupano perché indeboliscono una meritevole proposta politica, non cogliendo il fatto che fortunatamente al Parlamento europeo le posizioni vengano prese sulla base delle affinità politiche in seno ai gruppi e non su base nazionale.
Dunque in termini europei non può essere considerata coerente la scelta di presentare nella stessa lista candidati che collocati in famiglie politiche diverse si potrebbero trovare a votare in contrapposizione sugli stessi temi, come accadde nel 2004 per gli eletti nella lista dell’Ulivo che immediatamente si divisero in due gruppi. Sotto questo profilo, viceversa, è da apprezzare la coerenza della collocazione internazionale dichiarata da Rifondazione e Italia dei Valori, univocamente schierati nei rispettivi gruppi, ovvero quelli della sinistra unita e dei liberali europei.
Date queste premesse non stupisce che durante la campagna elettorale si senta solo sporadicamente parlare di Europa, ma unicamente di polemiche politiche tutte italiane, riducendo le elezioni europee in un mero grande sondaggio nazionale. Pare che a questa classe politica non interessi trovare comuni soluzioni europee, uniche capaci di farci uscire da una drammatica crisi economica globale. Pare che nessuno voglia ragionare su quali rapporti si vogliano instaurare con la nuova amministrazione Obama, la quale chiede un maggior coinvolgimento dell’Unione europea per la governance mondiale. Sembra, infine, che le proposte comunitarie sul diritto d’asilo e politiche per l’immigrazione, gia in agenda per la prima seduta del nuovo Parlamento, siano meno rilevanti rispetto alle ultime esternazioni sull’argomento del Maroni o del Gasparri di turno.
Nella sostanza solo pochi candidati conoscono il contesto istituzionale in cui dovrebbero agire e hanno voglia o siano in grado di affrontare tematiche reali del dibattito politico europeo, reputando che questi non siano di interesse dell’elettore italiano. Non vi è quasi traccia di temi di importanza vitale per il futuro di tutti cittadini come ripensare dal 2010 la strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione o quale sviluppo ambientale ed energetico per l’Europa. I candidati generalmente non si occupano neanche di proposte attualmente in campo che hanno riscosso già migliaia di adesioni in tutta Europa come ad esempio le campagne sul diritto di cittadinanza europeo di residenza, sul reddito minimo garantito europeo o per il governo e la Costituzione europea, solo per citarne alcune.
Tutto ciò fa scadere la campagna elettorale nel solito teatrino della politica piena di dichiarazioni e presunte rivelazioni, lontani dai reali interessi sociali e dallo stesso oggetto della competizione elettorale, con la conseguenza di far allontanare l’elettore della strada dalle urne e più in generale dalla politica, perché percepita sempre uguale a se stessa. Probabilmente solo la parte più giovane del corpo elettorale, e in genere quella più vicina alla dimensione internazionale riuscirà a scardinare questo circolo vizioso tra attori della politica e mass media, riuscendo ad accedere a quelle informazioni necessarie per prendere coscienza dell’importanza della posta in gioco per il nostro futuro. In definitiva la speranza, che è sempre l’ultima a morire, è che questi volenterosi siano determinanti a tramutare in realtà l’ultima provocazione proposta dal Movimento Federalista Europeo in occasione dei suoi dibattiti sulle europee, ovvero che al Parlamento europeo venga dal voto popolare “vietato l’ingresso a chi non parla d’Europa”.
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