La supremazia mondiale del dollaro alla resa dei conti (1917-2008)
La “partita doppia” di Luca Pacioli [1], quella del “sistema patrimoniale” (prima che il “sistema del reddito” fornisse ai più addestrati ragionieri, ai più raffinati matematici ed ai più abili finanzieri la possibilità di spacciare distruzioni di patrimonio come creazioni di profitto), ha presentato infine il suo aritmetico verdetto al termine del dominio mondiale del dollaro, durato ben novanta anni. Rinvio a giudizio per bancarotta fraudolenta. Nell’attesa che i mercati e le Corti emettano i rispettivi giudizi, può essere utile ripercorrere per sommi capi la carriera di questa valuta nelle sue due vite: moneta di una potenza creditrice, dagli anni Venti fino ai Sessanta, moneta di un “impero del debito” [2]dagli anni Settanta ai nostri giorni.
Tre Keynes ci avevano posto in grado di prevedere come sarebbe andata a finire: il giovane funzionario del Tesoro britannico, che nel 1919 si dimise dalla delegazione finanziaria al tavolo della pace per protesta contro le riparazioni imposte alla Germania [3]; il maturo professore, che nel 1936 introdusse nella scienza economica spiriti animali, stato delle aspettative, trappole della liquidità ed altre diavolerie corrispondenti ai comportamenti effettivamente osservabili e capaci di dare spiegazione teorica all’esperienza della disoccupazione di massa di lunga durata [4]; infine il plenipotenziario che a Bretton Woods, nel 1944, anziano e malato, fu sconfitto insieme all’Impero britannico nell’estremo tentativo di evitare, col suo bancor, il predominio del dollaro [5]. Nel dopoguerra, l’obiettivo keynesiano di una creazione di base monetaria internazionale commisurata allo sviluppo non inflazionistico del mondo, piuttosto che alle esigenze di una singola potenza, fu perseguito da Robert Triffin [6].
Secondo la magistrale ricostruzione di Hudson [7], la supremazia del dollaro ebbe inizio nel 1917, quando il Governo americano finanziò lo sforzo bellico della Gran Bretagna, della Francia e dell’Italia contro gli Imperi centrali imponendo la modalità del finanziamento intergovernativo al posto dei prestiti bancari privati e degli aiuti solidali fra alleati, fino allora usuali per far fronte alle esigenze finanziarie delle guerre. Gli Stati europei, per combattersi fra loro, acquistarono armamenti dall’ex colonia, s’indebitarono col Governo americano e non seppero neanche risolvere il conflitto da soli. L’intervento finale degli Stati Uniti, quando gli Stati europei erano ormai allo stremo dell’orrenda carneficina, fece di loro i veri vincitori della guerra.
Il problema del debito interalleato s’intrecciò con quello delle riparazioni tedesche. La Germania, argomentò Keynes a Versailles, non avrebbe potuto pagare le riparazioni alla Gran Bretagna ed alla Francia se non vendendo merci e servizi ai vincitori, che però non intendevano cedere spazi sui propri mercati. A loro volta le potenze europee “vincitrici” non avrebbero potuto rimborsare il debito verso il Governo americano se non riscuotendo le riparazioni tedesche oppure procurandosi a loro volta i mezzi necessari attraverso un surplus commerciale. Le riparazioni, insomma, avrebbero finito col provocare una seconda guerra mondiale. Inascoltato, Keynes si dimise e scrisse The Economic Consequences of the Peace. La profezia fu compresa solo quando si realizzò, ma servì almeno a gestire il secondo dopoguerra in modo più intelligente del primo.
Roosevelt, appena in carica, fece fallire la Conferenza di Londra del 1933, dalla quale Gran Bretagna e Francia si attendevano, come l’Amministrazione Hoover aveva lasciato sperare, la remissione del debito o almeno una moratoria, dunque la possibilità di transigere in conformità nei confronti della Germania. La motivazione formale addotta dall’Amministrazione Roosevelt fu che nel 1917 gli Stati Uniti non erano ancora alleati, ma solo “associati” nella guerra. Il New Deal, che all’interno degli Stati Uniti applicava una politica a favore dei debitori, nei confronti degli Stati europei applicò invece la più rigorosa politica del creditore, accompagnata da misure protezionistiche. I Paesi debitori, che avrebbero voluto onorare l’impegno nei confronti degli Stati Uniti, vistasi preclusa la via delle esportazioni, chiesero in modo più pressante il pagamento delle riparazioni tedesche. Tutto ciò favorì enormemente la propaganda di Hitler e precipitò gli avvenimenti che condussero alla distruzione dell’Europa.
Nel 1936, Keynes pubblicò la General Theory e si schierò a favore di un’imitazione del New Deal da parte della Gran Bretagna. Indubbiamente il New Deal, lanciato già da qualche anno, attuava per la prima volta quelle politiche a sostegno della domanda monetaria e quegli interventi pubblici diretti nell’economia che Keynes riteneva indispensabili per garantire un livello di reddito stabile e prossimo alla piena occupazione nel sistema capitalistico, caratterizzato da istituzioni finanziarie complesse, la cui instabilità era intrinseca alle modalità stesse di finanziamento degli investimenti [8]. L’applicazione di politiche simili al New Deal, dunque beggar your neighbour, da parte dei singoli Stati nazionali avrebbe però condotto dritto alla guerra. Per Roosevelt e per Keynes questa contraddizione poteva essere meno visibile, grazie alla vastità ed alla ricchezza del mercato interno nel primo caso e dello spazio imperiale nel secondo, ma per gli altri Stati europei la sua sottovalutazione costituì l’errore più rovinoso del nazionalismo economico. I federalisti inglesi videro la contraddizione, la denunciarono e propugnarono un nuovo ordine internazionale, tuttavia il mondo aveva preso un’altra strada e lo stesso Lionel Robbins, nel dopoguerra, si dichiarò pentito di avere osteggiato la reflazione invocata da Keynes [9].
Gli strumenti finanziari con cui il Governo USA sostenne gli Alleati prima e durante la II guerra mondiale (cash and carry e lend-lease) aggiunsero un nuovo insostenibile peso al debito precedente, consentirono agli Americani di imporre alla Gran Bretagna la rinuncia alla preferenza imperiale, rafforzarono definitivamente la posizione americana nel mondo e sanzionarono il subentro degli Stati Uniti alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza egemone. Così la divisione degli Stati nazionali europei consegnò l’intero continente agli Stati Uniti.
L’Accordo di Bretton Woods, con l’adozione del piano White (un gold exchange standard fondato sulla convertibilità del dollaro in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia) ed il rigetto della proposta di Keynes (una moneta internazionale denominata bancor), suggellò il successo del disegno americano di dominio unilaterale sul mondo occidentale. L’affermazione del dollaro come moneta internazionale, il diritto di veto americano al Fondo Monetario Internazionale, l’utilizzo della Banca mondiale per promuovere una divisione internazionale del lavoro favorevole alle esportazioni americane, il doppio standard che divenne la regola del GATT in materia commerciale, formarono l’ossatura del sistema economico corrispondente all’egemonia americana.
Gli Stati Uniti ottennero la rinuncia definitiva a qualsiasi ambizione coloniale europea al momento della crisi di Suez (1956), quando pretesero che il FMI subordinasse il sostegno alla sterlina al ritiro delle truppe anglo-francesi dal Canale. Gli Americani, come illustra Hudson, miravano ad impadronirsi dell’Impero inglese fin dal primo prestito intergovernativo del 1917. La crisi della sterlina nel 1956 fu determinata soprattutto dalla conversione in dollari degli sterling balances. Si trattava di debiti contratti dalla Gran Bretagna nei confronti delle Colonie per la fornitura di prodotti alimentari agli Stati Uniti, principale contributo economico britannico alla guerra. A Bretton Woods, Keynes aveva chiesto che questi “depositi” formassero oggetto di clearing bilaterale fra la Gran Bretagna e le Colonie, così da poterli rimborsare gradualmente col ricavato delle esportazioni, ma gli Stati Uniti avevano preteso ed ottenuto, con l’abbandono della preferenza imperiale, anche la multilateralizzazione di questi debiti britannici.
Hudson s’interroga a più riprese (a proposito del prestito del 1917, della Conferenza di Londra e di Bretton Woods) sui possibili motivi dell’acquiescenza britannica alle richieste americane e tenta diverse risposte. In primo luogo la Gran Bretagna era mossa dalla convinzione di dover mantenere salda la politica del creditore, onorando gli impegni, pur essendo ormai in posizione debitrice, perché tale politica, come la proprietà privata, si poneva tra i fondamentali del capitalismo, e le classi dirigenti britanniche dell’epoca, tra le cui fila non mancavano fautori del fascismo e del nazismo, avevano un timor sacro del comunismo sovietico. In secondo luogo Hudson ipotizza che la Gran Bretagna fosse rassegnata a passare il testimone agli Stati Uniti per realizzare tramite loro la diffusione della lingua e della cultura (ovvero della “razza”) inglesi sul mondo intero. Ognuna di queste spiegazioni coglie aspetti rilevanti, ma non bisogna dimenticare che in realtà la Gran Bretagna non aveva altre possibilità: erano la divisione in Stati nazionali sovrani e le loro guerre a consegnare tutta l’Europa nelle mani degli Stati Uniti.
L’accettazione del dollaro come moneta internazionale, quando gli Stati Uniti erano in posizione attiva, durante gli “anni d’oro” 1946-1965, è dunque comprensibile. Il sistema monetario di Bretton Woods aveva riorganizzato il “mondo libero” sul dollaro come l’Impero inglese lo era stato sulla sterlina convertibile. Gli Stati Uniti rappresentavano oltre la metà del prodotto mondiale, detenevano quasi la totalità delle riserve auree ed erano i soli in grado di finanziare la ricostruzione e la ripresa economica post-bellica. Lo fecero in modo esemplare, per l’evidente corrispondenza della ricostruzione alla ragion di stato americana, per l’avanzamento intervenuto nel modo di pensare l’economia (un quarto di secolo era trascorso da Economic Consequences), infine forse per idealismo (almeno per una corrente minoritaria sempre presente nella storia americana).
Gli Stati Uniti, però, sono riusciti a protrarre il ruolo internazionale del dollaro fino ad oggi, quaranta anni dopo la fine della convertibilità in oro (nel 1968 essa fu limitata alle sole banche centrali e nel 1971 abolita del tutto da Nixon). Il potere esercitato dagli Stati Uniti in quanto creditori è intuitivo, ma quello continuato ad esercitare in veste di debitori richiede qualche spiegazione. Come intuito da Triffin, l’adozione del dollaro come moneta internazionale poteva produrre due opposte situazioni (the Triffin dilemma): scarsità di moneta internazionale con la bilancia dei pagamenti americana attiva ed eccesso di dollari nel caso opposto. Si passò, come previsto, dal dollar-shortage, negli anni Cinquanta, alla dollar-inflation, con le guerre di Corea e soprattutto del Viet Nam. Dopo la dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro in oro, il gold-exchange standard divenne, anche formalmente, un dollar standard, che permise agli Stati Uniti di finanziare una serie, fino ad oggi pressoché ininterrotta, di deficit della loro bilancia con l’estero.
Fino al 1982 si è trattato di deficit dovuti ai movimenti di capitale: gli Stati Uniti compravano a debito le imprese del resto del mondo, lucravano alti saggi di profitto e capital gains sugli investimenti e pagavano modesti interessi sui Treasury Bills e sui Treasury Bonds. La bilancia dei pagamenti correnti non manifestava squilibri. Principali finanziatori degli Stati Uniti, in questa fase, erano l’Europa ed il Giappone. A partire dal 1982, però, il deficit ha investito la bilancia delle merci e dei servizi (current account), ed è peggiorato fino a raggiungere ratios del 5-7% sul pil, poco sensibile alle variazioni di cambio del dollaro. La spesa militare, in continuo aumento, è stata finanziata con indebitamento verso l’estero senza un corrispondente aumento delle aliquote fiscali, che sono state invece diminuite per le classi di reddito più alte. Il Governo ha evitato così di chiedere al Congresso, ed al popolo americano, di sostenere il costo delle guerre. Il “deficit senza lacrime”, contro il quale si scagliarono inutilmente De Gaulle e Rueff, ha consentito di finanziare i cannoni senza rinunciare al burro.
L’Europa si è messa in salvo con la creazione dell’euro, un processo durato trenta anni. Principali finanziatori degli Stati Uniti, in questa seconda fase, sono diventati i Paesi asiatici esportatori di prodotti industriali (forte sfruttamento di manodopera a basso costo, senza contributi sociali, senza limiti ambientali, con stretto controllo statale del cambio) ed i Paesi esportatori di petrolio. I proventi delle esportazioni di questi Paesi, depositati presso le banche americane e reinvestiti principalmente in titoli del Tesoro USA, hanno fatto degli Stati Uniti il primo debitore mondiale e l’accumularsi dei deficit ha reso insostenibile il debito con l’estero.
Sarebbe davvero sorprendente che il Governo americano e le troppe Autorità fra le quali la responsabilità del controllo sul sistema finanziario è ripartita, quotidianamente sotto pressione per la necessità di rinnovare i debiti vecchi e di collocarne altri nuovi, si preoccupassero di esercitare controlli rigorosi, di impedire le innovazioni finanziarie più spericolate, di limitare il proliferare di istituzioni finanziarie non sottoposte ai vincoli Fed e di porre, in definitiva, un limite a livelli di leverage protesi verso l’infinito. Come illustrato da Minsky, in un sistema capitalistico come il nostro (quello vero, non quello dei libri di testo dei Chicago boys), l’instabilità è intrinseca perché le fasi di finanza fisiologica (hedge financing) generano una crescita dei profitti, quindi un aumento di valore dei capital assets che induce a speculare sul loro prezzo attraverso forme di finanza speculativa (speculative financing) che possono poi condurre alla necessità di ricorrere a nuovo indebitamento per finanziare anche solo gli interessi sull’indebitamento precedente (Ponzi financing).
Questa è la via della bancarotta. Si tratta di una spiegazione diversa da quella dell’attesa irrazionale di un continuo rialzo delle Borse, come in Galbraith [10]o in Shiller [11], perché Minsky mette in risalto il carattere endogeno dell’instabilità: anche se tutti gli operatori si comportano razionalmente, la somma dei loro comportamenti razionali non è sostenibile dall’economia nel suo insieme. Col Governo degli Stati Uniti impegnato a collocare debiti e le Autorità di controllo disposte a lasciar correre, la bancarotta non ha più misteri [12]. L’ideologia fondamentalista del mercato, la deregulation, le privatizzazioni/esproprio di beni pubblici e di monopoli naturali, tutto l’armamentario di Chicago recitato da Reagan e dai suoi successori non avevano altra funzione che quella d’una cortina fumogena, per coprire gli Stati Uniti mentre adottavano in realtà la politica del debitore: quella secondo cui i debiti non si pagano.
Questa non è una crisi come tutte le altre, solo più grave, ma l’ultima convulsione del ruolo internazionale del dollaro. Non si può progettare la ripresa dell’economia mondiale ed impedire la ricaduta nel protezionismo e nella guerra senza riforme radicali [13]:
- la creazione di una world currency unit, con funzioni analoghe a quelle svolte dall’european currency unit (ecu) nella fase precedente la creazione dell’euro;
- l’affidamento della sovrintendenza economica e finanziaria mondiale al Fmi, trasformato in un vero e proprio Consiglio dei ministri dell’economia dell’Onu (corrispondente all’Ecofin europeo), come già proposto da Delors;
- l’affidamento alla Banca dei regolamenti internazionali della funzione di banca centrale del sistema mondiale (o sistema dei sistemi monetari);
- l’affidamento alla Bce delle funzioni di sorveglianza bancaria e finanziaria nell’Eurozona ed alla Bri delle funzioni corrispondenti a livello mondiale;
- l’istituzione di Authorities indipendenti, a livello europeo e mondiale, per lo svolgimento delle funzioni oggi affidate, in conflitto d’interessi, alle Agenzie di rating;
- l’istituzione di una Compagnia assicurativa pubblica mondiale per la copertura dei rischi globali, o almeno di una Authorithy per la valutazione indipendente dei rischi stessi, come riferimento per il mercato assicurativo;
- l’impegno ad una lotta comune contro i flussi finanziari illeciti, camuffati e segreti, che rendono possibili e remunerativi droga, crimine e terrorismo, anche nei loro paradisi off-shore;
- l’utilizzo della Banca Mondiale per il perseguimento di obiettivi di sviluppo umano e di contrasto alla povertà.
[2] Bill Bonner and Addison Wiggin, Empire of Debt. The rise of an Epic Financial Crisis, 2006, Hoboken.
[3] John Maynard Keynes, The Economic Consequences of the Peace, 1919, Cambridge.
[4] J.M.K., The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936, London.
[5] Robert Skidelsky, John Maynard Keynes. Volume Three. Fighting for Freedom 1937-1946, 2000, New York.
[6] Gli scritti di Triffin, dal 1935 fino al 1988, sono stati tradotti in italiano e raccolti nel volume Dollaro, euro e moneta mondiale, con prefazione di Alfonso Iozzo, 1997, Bologna. Ai fini di quest’articolo faccio riferimento soprattutto a: Robert Triffin, Our International Monetary System: Yesterday, Today and Tomorrow, 1968, New York.
[7] Michael Hudson, Super Imperialism. The Origin and Fundamentals of U.S. World Dominance, second edition 2003, London, first published 1972.
[8] L’introduzione dell’instabilità finanziaria costituisce l’aspetto più innovativo dell’economia keynesiana, tuttavia è ignorata dalla sintesi neo-classica ed è banalizzata dagli stessi modelli neo-keynesiani. L’approfondimento della teoria keynesiana, rispetto alla semplicistica vulgata, si è reso necessario soltanto alla fine degli anni d’oro (1946-66) col ripetersi di crisi finanziarie di durata ed intensità crescenti. Si vedano le due opere maggiori di Minsky: Hyman P. Minsky, John Maynard Keynes, 1975, New York; Stabilizing an Unstable Economy, 2008, New York, first published 1986.
[9] Lionel Robbins, Economic Planning and International Order, 1937, London. Su Robbins e Keynes si veda Guido Montani, Introduzione all’edizione italiana degli scritti di Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, 1985, Bologna. Su Robbins e i federalisti inglesi si veda Lucio Levi, Federalist Thinking, cap. 6, English Constitutional Federalism and the Crisis of the European System of States between the World Wars, 2008, Lanham.
[10] John Kenneth Galbraith, The Great Crasb, 1961, Boston.
[11] Robert J. Shiller, Irrational Exuberance, 2000, Princeton N.J.
[12] Una delle ricostruzioni più tempestive è quella di Morris: Charles R. Morris, The Trillion Dollar Meltdown: Easy Money, High Rollers, and the Great Credit Crash, 2008, Public Affairs.
[13] Le proposte elencate sono state avanzate nell’articolo: Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi, The Foundation of a Cooperative Global Financial System. A new Bretton Woods to confront the crisis of the international role of the US dollar, in The Federalist Debate, 2/2006. Clicca qui per accedere alla versione italiana dell’articolo
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