Un Presidente per l’Europa.
Superati gli scogli del referendum irlandese e della ratifica della Polonia (e forse della Repubblica Ceca), il Trattato di Lisbona dovrebbe darci, a partire dal 1° gennaio 2010, il primo Presidente del Consiglio Europeo a tempo pieno, in carica per due anni e mezzo ed, eventualmente, rinnovabile per analogo periodo. La scelta del futuro ‘presidente dell’Europa’ non è facile, anche perché questa partita si inserisce in un gioco di nuove nomine che prevede anche la scelta dell’Alto Rappresentante per la politica estera, un "quasi" ministro degli Esteri, che dovrà tentare di far parlare
finalmente l'Europa con una sola voce sullo scenario internazionale. Inoltre in scadenza ci sono altre due cariche che dovranno essere rinnovate nei prossimi mesi: quella del presidente della Banca Centrale Europea e quella del presidente dell'Eurogruppo (il consiglio dei ministri economici e finanziari della UE).
Ma è ovviamente sul nome del Presidente stabile del Consiglio Europeo che si polarizza la massima attenzione politica. E già nel Vertice di Bruxelles (29-30 ottobre) i governi nazionali mettono le carte sul tavolo con i nomi dei loro candidati. Qual è il compito del Presidente del Consiglio Europeo secondo il nuovo Trattato di Lisbona? E’ fondamentalmente di due tipi. Il primo è quello di dare impulso ai lavori del Consiglio Europeo (composto dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri) e continuità alla sua azione volta a perseguire gli obiettivi strategici che la UE intende darsi, ad esempio: la difesa ambientale, la fornitura di energia, la stabilità finanziaria, la sicurezza, ecc. Con la presidenza semestrale a rotazione era praticamente impossibile garantire continuità e, soprattutto, perseguire obiettivi a lunga scadenza. Ora sarà possibile, almeno in teoria, poi dipenderà dalla forza e dalle condizioni politiche vedere se lo sarà anche in pratica. Il secondo compito è quello di assicurare la rappresentanza
esterna della UE per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune. Se si aggiunge poi che il Presidente non può esercitare un mandato nazionale, si comprende come, in tal modo, si pongono le basi perché l’Europa possa cominciare finalmente ad avere un ‘volto’ chiaro, riconoscibile ed autonomo, sia verso i cittadini europei, sia verso l’esterno.
Fino a qualche tempo fa Tony Blair sembrava in ‘pole position’ nella corsa alla presidenza. Sponsorizzato da Sarkozy e altri (ma non dalla Merkel) veniva giudicato come un candidato prestigioso, ben conosciuto, grande comunicatore, in grado di dare autorevolezza all’Europa nel mondo. Ma poi sono state avanzate critiche sensate. Il ‘presidente dell’Europa’ a tempo pieno non può venire da un Paese che non utilizza l’euro, che è fuori dagli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, che non ha sottoscritto la Carta dei diritti fondamentali della UE (resa obbligatoria dal Trattato di Lisbona), in pratica non può venire da un Paese euro-scettico. Sulla base di queste fondamentali considerazioni persino il quotidiano inglese The Observer è giunto a dire che Blair is not the man for the job (25 ottobre), non è l’uomo adatto per questo incarico.
Quali caratteristiche dovrebbe avere, a nostro avviso, il futuro Presidente del Consiglio Europeo? Non ci soffermiamo tanto su quelle di carattere personale (prestigio internazionale, capacità comunicativa, ecc.) che pur sono indubbiamente importanti, quanto sulla visione che dovrebbe avere dell’Europa. Da questo punto di vista, un suo possibile ‘profilo’ dovrebbe tener conto di due questioni decisive. La prima sta nel considerare o meno l’attuale Unione europea (anche con Lisbona) come un momento del processo di unificazione europea che è iniziato 50 anni fa con la Dichiarazione Schuman (la Comunità europea del carbone e dell’acciaio vista come la prima tappa
della Federazione europea). Proseguito, poi, con la creazione delle Comunità europee, l’elezione diretta del Parlamento europeo, la nascita dell’euro, l’attuale riforma del Trattato di Lisbona. E che deve andare avanti fino ad un pieno assetto federale dell’Unione, condizione indispensabile per rispondere alle sfide del mondo. La seconda questione sta nella capacità del futuro Presidente di ergersi al di sopra degli interessi nazionali, per far emergere l’interesse europeo in tutte le questioni dell’agenda europea, a partire da quelle che riguardano la crisi economica fino a quelle di carattere più politico, rivendicando una presenza europea su tutti i dossier importanti della politica internazionale, a cominciare dalla questione iraniana. A tal fine, la richiesta di un seggio per la UE nel Consiglio di sicurezza dell’ONU – cosa ora possibile con il Trattato di Lisbona – può diventare un obiettivo importante da perseguire.
Occorre, dunque, che il futuro Presidente del Consiglio europeo abbia una visione realmente europeista – e non intergovernativa - della propria funzione. Come ha dichiarato Jean-Claude Junker, primo ministro del Lussemburgo, questa visione deve essere federalista nel senso europeo del termine, cioè nel senso che punta a mettere in comune ciò che riguarda tutti, mentre lascia al di fuori dell’Unione ciò che è soltanto nostro.
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