Imparare il pluralismo, imparare l’Europa: il valore della sentenza CEDU

11 novembre 2009
Francesca Lacaita

La seconda frase dell'articolo 2 del Protocollo n. 1 mira a salvaguardare la possibilità di pluralismo in materia di istruzione, essenziale per la conservazione della "società democratica", com’è intesa dalla Convenzione. […] Il dovere di neutralità e imparzialità dello Stato è incompatibile con qualsiasi potere discrezionale da parte sua quanto alla legittimità delle credenze religiose o dei loro modi di esprimersi. Nel contesto dell'educazione, la neutralità dovrebbe garantire il pluralismo (Court Européenne des droits de l’homme. Deuxième Section – Affaire Lautsi c. Italie (Requête no 30814/06) Arrêt Strasbourg 3 novembre 2009)

       Council of Europe

Lo scandalo della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche consiste soprattutto nel fatto che essa ha contraddetto quel tacito consenso imperante in Italia, ossia che in materia religiosa prevalgono naturaliter le supposte sensibilità della maggioranza. Lo si è visto dalle reazioni. Da una parte, toni scioccati, offesi, come se di per sé non fosse lecito pronunciarsi su tali questioni, e comunque mai nel senso della sentenza. Più che discutere del merito, si è opposto un muro di alti lai sull’oltraggio al Crocifisso, al Cristianesimo, all’Italia, alla sua Identità, alla sua Cultura, alle sue Radici, alle sue Tradizioni, al suo Popolo. Si è data la stura a un antieuropeismo a prima vista inedito in un Paese tradizionalmente sostenitore dell’“Europa”, un antieuropeismo che ha fra l’altro rivelato una stupefacente ignoranza in tanti presunti leaders e opinion-makers nostrani, per i quali CEDU e Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Consiglio d’Europa e Unione Europea sono a quanto pare la stessa cosa. Né è mancata una variopinta schiera di amministratori locali (non tutti di centrodestra) che hanno annunciato iniziative a difesa del crocifisso o l’imposizione per decreto del medesimo, ovvero promesso multe per chi osasse rimuoverlo, e (segnatamente il sindaco di Cittadella) rovesciato insulti e minacce sulla famiglia italo-finlandese che si era rivolta alla CEDU. Dall’altra parte, tentativi di smorzare i toni (“il crocifisso è una tradizione innocua”) e tanto “buonsenso”. Ci manca solo il crocifisso. No a guerre di religione. In fondo, discutere dei simboli è discutere del nulla, e noi siamo concreti. Non impicchiamoci al crocifisso. Naturalmente non si sono pronunciati commenti sulle sguaiate iniziative annunciate dai novelli crociati, non vorremmo mica abbassarci a prendere in considerazione certe buffonate, né è pubblicamente giunta nessuna parola di solidarietà alla famiglia ricorrente, perché se uno va a toccare certi temi se l’è proprio cercata.

      Fatto sta che il ricorso del governo italiano contro la sentenza CEDU avrà il sostegno di tutti i partiti presenti in Parlamento, nel migliore spirito bipartisan e di unità nazionale. Né gli intellettuali sembrano inclini a rovinare la festa. A parte poche eccezioni (Rodotà sulla “Repubblica”, Ainis sulla “Stampa”), l’orientamento generale è espresso, nella sua forma migliore, nell’articolo di Claudio Magris sul “Corriere”, che vede nel crocifisso “un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta”, quindi “quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio”. Un argomento caro ai laici, già avanzato da Natalia Ginzburg anni fa in una discussione analoga, e che è senz’altro valido, purché, naturalmente, si condivida a priori tale interpretazione .

      Ci sono due piani su cui si può articolare questa questione. Uno è specificamente italiano, l’altro è europeo.

      Sul piano specificamente italiano, è certamente problematica la tetragona concezione maggioritaria che caratterizza la vita sociale e politica del nostro Paese, e che rischia seriamente di mutilare la nostra democrazia. In Italia non si è mai avuto a che fare con minoranze che non avessero riferimenti nelle élite. Non le minoranze religiose, in generale laiche e secolarizzate, storicamente più coinvolte nel progetto nazionale delle stesse masse cattoliche, e quindi non propense a rivendicare visibilità. Non le minoranze linguistiche o etno-nazionali, sostanzialmente cancellate dalla memoria, dalla percezione o dalla sensibilità collettiva. Né si è mai voluto imparare dalle esperienze degli emigranti italiani all’estero. Gli anni della “Seconda Repubblica”, con la centralità delle maggioranze, la “riscoperta” del patriottismo e dell’identità nazionale (nei termini tradizionali di enfasi su quanto unisce, e non di gestione di quanto divide), la drammatizzazione delle problematiche legate all’immigrazione, e la competizione per il favore della Chiesa cattolica hanno fatto il resto, accentuando la tendenza di fondo al conformismo. Chi è in qualche modo “differente” o “diverso” è invitato ad assimilarsi, o comunque a non avanzare rivendicazioni. La stessa isteria di toni manifestata in quest’occasione altro non serve che ad intimidire, a definire preventivamente i termini del discorso pubblico, a salvaguardare i privilegi esistenti. Si possono immaginare le conseguenze per la qualità complessiva della nostra democrazia. Il rispetto della libertà di chi è differente non è solo un principio liberale, ma anche fatto proprio da una comunista libertaria come Rosa Luxemburg. Del resto, siamo proprio sicuri che questo zelo nei riguardi del crocifisso sia effettivamente condiviso dalla maggioranza reale, concreta (non ideologica) dei cittadini, al di là di un generico richiamo alle consuetudini, alla stregua dell’arredo scolastico o del cappone a Natale? Per quanto tempo ancora accetteremo di vedere individui in carne ed ossa tenuti in ostaggio da una presunta maggioranza cui baciare le mani?

      Mentre si disquisiva a vanvera sulle croci dei campanili nei paesaggi italiani, mentre alcuni amministratori locali annunciavano nell’assordante silenzio generale iniziative degne dell’Alabama ai tempi delle leggi “Jim Crow” o dell’Irlanda del Nord degli anni Trenta, quando veniva definita dal suo capo di governo “uno Stato protestante per gente protestante”, nessuno pare si sia chiesto se ha senso che ci sia un’interpretazione di Stato dei simboli religiosi. Perché di questo si tratta. Gli avvocati del governo hanno sostenuto che il messaggio del crocifisso sarebbe un “messaggio umanista, che può essere letto in modo indipendente della sua dimensione religiosa, costituito da un insieme di principi ed di valori che formano la base delle nostre democrazie”, in quanto “evoca principi che possono essere condivisi anche da quanti non professano la fede cristiana (non violenza, uguale dignità di tutti gli esseri umani, giustizia, primato dell’individuo sul gruppo, amore per il prossimo e perdono dei nemici)”, e quindi è “perfettamente compatibile con la laicità e accettabile anche dai non cristiani e dai non credenti”. Molto bello, ma chi lo stabilisce, per conto di chi, come e da quando? E se un individuo si ostina a vedere nel crocifisso qualcos’altro, che succede? Si pone ipso facto al di fuori dell’“uguale dignità di tutti gli esseri umani”? Viene convinto che la presunta interpretazione maggioritaria (quale che sia) è quella vera, è quella giusta? Riconducendo il suo significato a quello “obiettivamente” religioso, la CEDU ha negato un’interpretazione di Stato che avrebbe fatto strame del “primato dell’individuo sul gruppo”.

      Negare l’interpretazione di Stato dei simboli religiosi non significa affatto coartare la libera espressione dell’identità religiosa o della persona tout court. Al contrario. Non ci deve essere alcun ostacolo affinché studenti, insegnanti, presidi e personale non docente possano andare in una scuola pubblica con il crocifisso al collo, la kippah, i boccoli o la Stella di David, lo hijab (senza che nessuno, tanto meno lo Stato, si arroghi il diritto di interpretarlo arbitrariamente come un simbolo di sottomissione della donna), il codino degli Hare Krishna, la tonaca o il velo da suora – portarli e mostrarli rientra nelle libertà individuali, che trovano un limite solo nelle libertà altrui. Lungi dal richiamarsi a un ormai anacronistico laicismo alla francese (anch’esso una forma di “interpretazione” e di regolamentazione di Stato dei simboli religiosi), l’assenza dei simboli religiosi maggioritari dai muri degli edifici pubblici (il crocifisso, si ricordi, è prescritto unicamente da regolamenti e da circolari ministeriali risalenti all’epoca fascista) garantisce la neutralità della cosa pubblica in materia religiosa, quindi il pluralismo stesso e la libertà delle coscienze.

      Sul piano dell’Europa, la questione si formula come metodologia della convivenza. Nonostante le “comuni” radici cristiane, la religione è stata per secoli motivo di conflitto e di divisione tra gli europei. L’idea di Europa unita è storicamente diventata reale dopo che la pretesa di imporre i propri interessi nazionali e di egemonizzare il continente aveva portato il medesimo al disastro. Non c’è quindi spazio per trionfalismi maggioritari in Europa. Lo avevano ben capito i padri fondatori, i quali, pur quasi tutti democristiani, si astennero dalle proclamazioni di principio sull’identità culturale o religiosa, limitandosi rigorosamente ad affermare le procedure e ai valori democratici, ben prima che l’immigrazione da altri continenti o l’eventuale allargamento a Paesi europei di religione non cristiana rendessero imprescindibile la via pluralista. Beninteso, a ciascuno resta il diritto di battersi affinché gli europei, o la maggioranza degli europei si riconoscano in primo luogo come cristiani. Ma senza le stampelle date dai proclami maggioritari o da possibili articoli di un’eventuale Costituzione europea. È la stessa storia europea, sono le stesse ragioni dello stare insieme che vi si oppongono.

      Siamo a un bivio. Da una parte, la via pluralista, che è l’unica via per costruire uno spazio sociale e politico europeo, in cui una coscienza collettiva maggioritaria, quale essa sia, non è punto da escludere, ma sempre facendo salvo il primato dell’individuo sul gruppo, quindi senza avvalli ufficiali. Dall’altra parte, la chiusura in un orticello identitario maggioritario che certamente avvantaggia posizioni di potere dominanti, da difendere con le unghie e con i denti contro gli “altri”, all’interno di un’Europa che sempre più apparirebbe come una non-Europa. Ci piace? A noi l’ardua sentenza.

Note: http://www.echr.coe.int/echr/

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