Le politiche impossibili del Consiglio Europeo
All’indomani del vertice Ecofin per la riforma del patto di stabilità, il 18 ottobre scorso, la situazione dell’Unione Europea appariva già bloccata in un equilibrio sempre più simile a una paralisi o agli effetti di uno strano sortilegio: il genere di stallo, ad ogni modo, in cui non è pensabile perdurare per un tempo indefinito. Si ha l’impressione che né il Consiglio Europeo, né la Commissione, né la Banca Centrale Europea (BCE) credano davvero in quello che fanno quando spingono sull’acceleratore della riforma e manovrano per garantire alle politiche economiche degli stati membri un inedito rigore. Prima ancora che il vertice annunciato avesse luogo non pochi osservatori si erano resi conto che correva già verso un accordo di compromesso, e oggi sembra difficile, anche alla luce di un certo banale buon senso, dare torto a chi ritiene che la direzione di un’inflessibile austerity sia nei fatti impraticabile. Sarebbe davvero possibile all’Italia, nella congiuntura attuale e senza una crescita del PIL degna di questo nome, un rientro del debito pubblico pari al 5% annuo? Ribadiamo: in assenza di crescita, e in un contesto già segnato drammaticamente da tagli massicci ai servizi essenziali, disoccupazione, fallimenti e depressione generale dei redditi medio–bassi. Lo stesso vale naturalmente per paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e altri che sarebbe superfluo, e ancor più inquietante, enumerare.
Alla luce di questi fatti si comprende come le dichiarazioni di Trichet sulla necessità di un maggior rigore finanziario nascessero anch’esse già morte. Alcune frasi del governatore suonavano paradossali anche all’orecchio meglio disposto, e la tentazione di fare le pulci alla postilla che la BCE ha aggiunto in margine al disegno di riforma uscito dal Consiglio dei Ministri dell’ottobre scorso riesce quasi irresistibile. “Ridurre i livelli di debito”, vi si legge, “è particolarmente importante anche in vista [...] dell’impatto dei recenti pacchetti di salvataggio delle banche”: il che, tradotto nei termini del più brutale realismo, significa che dopo avere salvato dal fallimento, e con denaro pubblico, le banche si tratterebbe di passare il conto al contribuente, già estenuato da un clima fin troppo austero. Ancora (e sempre a sostegno di politiche restrittive): il debito pubblico “riduce le possibilità di politiche di bilancio anticicliche”, notazione quasi incomprensibile dal momento che noi ci troviamo in una fase negativa del ciclo, quella in cui appunto servirebbero delle generose politiche di bilancio: che senso avrebbe invece stringere i cordoni della borsa con una politica di tagli e tasse?
Il dato che qui campeggia è l’atteggiamento quasi schizofrenico che sembra ispirare le politiche del Consiglio – ostaggio evidente dell’egemonia economico-culturale tedesca – e da cui a quanto pare nemmeno la BCE è immune. Del resto ne abbiamo già fatto esperienza, in tempi tutt’altro che remoti: che ne fu del rigore di Trichet quando si trattò di confezionare il pacchetto di aiuti alla Grecia? Quale fu la condotta della BCE, se non di piegarsi immediatamente all’inevitabile? Un commentatore malizioso insinuerebbe a questo punto che la corazza del governatore è di cartapesta e le sue zanne sono di gomma; e che se l’esperienza reca in sé qualche lezione, alla prima seria scossa di terremoto sui mercati finanziari il Consiglio Europeo intimerà alla BCE di acquistare titoli di debito pubblico, e la BCE acquisterà.
Se oggi l’allarme per un possibile default irlandese, portoghese o greco torna a proporre il dilemma in termini paurosamente simili, si presta però a un interrogativo di carattere generale: fino a quando le politiche di salvataggio garantiranno la tenuta dell’euro, e con l’euro della stessa Unione? I pacchetti di salvataggio possono placare temporaneamente i mercati, ma il loro effetto macroeconomico è un altro: consumare ulteriori risorse all’interno di un sistema (quello europeo) che ne ha sempre meno. Che l’intervento sia comunque in perdita ce lo dice un complesso di fattori: sostenere le banche private serve a poco, se queste banche non sono poi in condizione di erogare prestiti perché non c’è sufficiente domanda per consumi e investimenti; le condizioni di rigore inflitte ai paesi beneficiari non possono che peggiorarne consumi, investimenti e gettito fiscale; infine, le somme che il Consiglio mette a disposizione degli stati a rischio default sono sottratte agli altri, oppure, in parte, sono moneta nuova di zecca, ed entrambi gli interventi hanno i loro costi: nel primo caso un ovvio aggravio per i bilanci degli stati salvatori, nel secondo un accrescimento della massa monetaria che intasa già i mercati finanziari e non trova sbocco nell’economia produttiva. Quando la quantità di moneta in circolazione eccede macroscopicamente il valore reale della produzione e degli scambi i rischi collegati, com’è noto, sono due: un futuro di inflazione, o l’ennesima bolla in qualche settore del mercato finanziario.
A conti fatti, il problema è che senza una politica di sviluppo il rigore che Consiglio Europeo, Commissione e BCE insistono a pretendere non sarebbe sostenibile. Un emisfero cerebrale dell’Unione lo sa perfettamente, mentre l’altro emisfero comanda interventi che lo negano. La schizofrenia è tutta qui. Il risultato è una politica destinata a battere in ritirata al primo scontro con la realtà, e il risultato del risultato è lo stallo di cui si diceva in apertura: il sortilegio che sembra imprigionare l’Unione in un’immobilità che, tuttavia, è ben lungi dall’essere stabile e durevole.
Ma chi fosse colto dal sospetto che questo strana condotta celi qualche verità ancora più profonda correrebbe il rischio di una conferma. Se venire a patti con la realtà significherebbe lavorare a politiche che si prefiggano di gestirla, e in particolare a politiche di rilancio della crescita (sostenibile), allora il problema che ci troviamo davanti non è di poco conto, e per una ragione molto precisa: perché pretendere una politica di sviluppo per l’Europa significa pretendere l’unica istituzione in grado di produrla, vale a dire un governo europeo. Questo a sua volta presupporrebbe un trasferimento massiccio di competenze (e ulteriori risorse) dagli stati membri all’Unione e una razionalizzazione del meccanismo decisionale europeo che facesse piazza pulita, in primo luogo, del criterio dell’unanimità. Inoltre, poiché un governo con simili poteri richiederebbe una piena legittimazione democratica, dovrebbe essere espresso da un Parlamento Europeo dotato delle prerogative di un vero organo legislativo. In breve – lo si è già capito – occorrerebbe una federazione europea.
Con ciò abbiamo compiuto parecchi passi verso il cuore del problema. Se il Consiglio europeo, e con esso a quanto pare la BCE, insiste nell’atteggiamento schizofrenico delle politiche impossibili e dei piani nati morti è perché l’unica sensata alternativa, una politica europea di sviluppo, è qualcosa che esclude la stessa natura istituzionale del Consiglio, organo vincolato al metodo intergovernativo, e richiede a gran voce le prerogative di un esecutivo federale. Sarebbe il momento in cui il metodo intergovernativo lascerebbe il passo al metodo federalista: il momento degli Stati Uniti d’Europa. Sarebbe un futuro economico e sociale sostenibile per l’Europa e per l’esattezza l’unico possibile, se la ragione economica e il semplice buon senso non mentono.
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