La lunga notte sta per finire
Ciò che sta succedendo in Italia, prima con le elezioni amministrative di maggio ed ora con i referendum, mostra che non solo sta giungendo al termine un ciclo politico iniziato 17 anni orsono e dominato dalla personalità di Silvio Berlusconi, ma che la fine di questo ciclo è inserita in un passaggio epocale ben più grande, che non è più solo italiano, ma anche europeo (e mediterraneo).
La storia ci insegna che dalla crisi di un assetto di potere si esce veramente solo quando emerge un nuovo potere, più forte del primo. E che, prima di giungere a questo, c’è una fase di transizione, fatta di grandi turbolenze sociali e di confusione politica, in cui è difficile percepire i segni del vero cambiamento di potere: gli analisti ed i commentatori generalmente continuano ad utilizzare gli schemi di riferimento ed il quadro politico del passato, anziché vedere, nel mutamento in corso, i pezzi del “nuovo ordine” che si sta lentamente costruendo.
In Italia, come in Spagna, nei paesi del Nord-Africa ed in generale in Europa, è in corso questo nuovo bisogno di partecipazione nelle scelte politiche da parte di una nuova generazione di giovani: sono gli indignados perché privati di un futuro, sia per la precarietà della condizione lavorativa sia perché impotenti di fronte ad una politica che non controllano e che si riproduce secondo logiche di puro potere, estranee ai bisogni reali della società europea in crisi. Che ha specificità diverse da Paese a Paese, ma che tutti li accomuna nel fatto di vivere la fine del modello di sviluppo del secondo dopoguerra e che si manifesta come crisi energetica, ambientale, finanziaria, economica e sociale ad un tempo.
Questo cumulo di crisi oramai si è riversato sulla politica, manifestandosi come crisi del rapporto tra governati e governanti. In altri termini come crisi di questa democrazia ‘nazionale’, non più in grado di rispondere alle sfide del nostro tempo. Scavalcata da problemi che sono europei e mondiali, essa non rappresenta più il quadro all’interno del quale poter compiere le scelte decisive per l’avvenire dei popoli.
Il caso italiano è emblematico. Come ha evidenziato correttamente il settimanale inglese The Economist nell’articolo che ha fatto il giro del mondo (The man who screwed an entire country), il declino politico di Berlusconi non è imputabile tanto al suo stile di vita privato o alle sue vicende giudiziarie (che comunque pesano certamente) , bensì al fatto che la crisi economica che ha investito il Paese è giunta al punto che non può più essere mascherata, spargendo ottimismo e sorrisi a buon mercato, ma va affrontata per quel che è realmente: crisi del debito e della spesa pubblica. Ma questa è una questione europea, non solo italiana, come insegna in modo eclatante il caso della Grecia (ed a ruota, Portogallo, Irlanda, Spagna), perché legata al fatto di avere in comune una moneta ed un insieme di istituzioni sovrannazionali. E che coinvolge anche i Paesi considerati ‘virtuosi’, come la Germania, la Francia o l’Olanda. Sono due facce della stessa medaglia.
Dunque, la crisi, dopo aver messo in ginocchio le economie e le democrazie nazionali, sta facendo emergere il primo segno di un nuovo ordine democratico: un bisogno di partecipazione diffuso, da Paese a Paese, che vuole uscire dalla gabbia della paura entro la quale stava rinchiuso da troppo tempo. E’ come se i popoli cominciassero a sfidare i propri governi, a non creder più alle loro menzogne, a cercare verità nuove ed una nuova luce alla fine della lunga notte. Ed un bisogno più consapevole di partecipazione e di democrazia emergerà dalla crisi se saprà coniugare la soluzione dei problemi locali e nazionali con quelli europei e mondiali. E’ questa la vera sfida che le nuove generazioni hanno di fronte, da Roma a Madrid, da Atene a Parigi, da Helsinki a Berlino: costruire una “democrazia europea” come forma della nuova partecipazione politica necessaria per uscire dal lungo tunnel della crisi.
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