Ancora sulla Grecia

13 luglio 2011
Michele Ballerin (Scrittore e pubblicista, collabora con giornali e riviste di cultura politica. Nel 2010 ha pubblicato "Ciò che siamo, ciò che vogliamo. Dalla crisi dei valori all'Europa del diritto", ed. Il ponte vecchio)

Questo non è un articolo: è un appello.

Il termometro dei CDS – le assicurazioni sugli investimenti finanziari – sta di nuovo segnando febbre alta per le finanze greche. Questo significa che sempre meno investitori si fidano dei titoli greci, e che il mercato li sta rigettando. Se la tendenza continua diventerà presto impossibile per il governo finanziare il proprio debito. Per questo vanno moltiplicandosi le voci di una possibile ristrutturazione. E ristrutturazione vuol dire bancarotta, ancorché parziale: qualcosa come il 50% dei creditori non avrà indietro i propri soldi.

Se la superficie del problema sembra squisitamente tecnica, la sua sostanza è di altro genere. La sostanza dei problemi non è mai tecnica: ormai dovremmo averlo capito. E l’ipotesi di ristrutturazione del debito greco non è un’opzione da vagliare tra le altre: è una vergogna, di cui nessun politico europeo dovrebbe macchiarsi. Perché sarebbe la fine del progetto europeo, dello spirito europeo. Il fatto che molti cittadini europei – perfino molti politici – non si siano ancora accorti che esiste un progetto europeo non significa che non esista, e che non sia l’unico progetto politico degno di questo nome sul nostro continente.

Ora, ci si è chiesti come reagirebbero gli investitori che fino ad oggi sono stati disposti a scommettere sui titoli degli altri paesi periferici dell’Unione? Ci si è chiesti che cosa accadrebbe se venisse a cadere il tabù supremo e uno stato europeo (uno stato dell’Unione, e per di più della zona euro) fosse lasciato fallire? Ci si è chiesti che cosa comporterebbe questa clamorosa, conclamata, plateale dichiarazione di fallimento del progetto europeo, della solidarietà europea?

Per fortuna io e il mio lettore siamo persone a modo. Ma un osservatore un po’ irascibile sarebbe tentato di afferrare la classe dirigente europea per il bavero e strattonarla. La sua irresponsabilità sta raggiungendo un culmine storico. Improvvisamente pare che 60 anni di costruzione europea possano essere presi sottogamba e, all’occorrenza, gettati fuori bordo, e che due guerre mondiali e le loro atroci lezioni possano essere lasciate alle spalle e dimenticate.
Si dà per scontato che un’intera classe politica – una classe politica che ha fra le mani i destini della civiltà europea – possa ridurre la propria capacità di visione e creazione all’asettico, cieco pragmatismo di un hedge fund. Ci stiamo giocando in borsa il passato e il futuro dell’Europa.

Wolfgang Schäuble, il ministro tedesco delle finanze, ci sta abituando a impostare il problema greco in questi termini: o si ristruttura il debito, cercando di contenere i danni con un accorto monitoraggio, o la bancarotta sarà soltanto rinviata, con danni molto maggiori quando risulterà inevitabile.
Il dilemma di Schäuble ha una sua lucidità. Il ministro dimentica però una terza opzione, l’unica che dovrebbe interessarci: salvare la Grecia mettendola sui binari dello sviluppo e dandole una bella spinta. È quello che ogni stato farebbe con una regione svantaggiata. È quello che gli Stati Uniti hanno fatto di recente con la California, senza neppure porsi il problema se fosse opportuno o no intervenire con il loro corposo bilancio federale. Proteste sull'Acropoli.

L’idea di un piano europeo di investimenti per lo sviluppo (finanziato nel modo più ovvio: con l’emissione di un debito pubblico federale, come si ventilò già negli anni Cinquanta per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) desta perplessità invincibili in chiunque non sia abituato a pensare in termini europei: nella maggior parte di noi, temo. Ma allora il problema è tutto nostro. Non si può fare l’Europa senza pensare europeo: è l’ultima illusione di cui dobbiamo sbarazzarci. Lo ripeto a beneficio del lettore distratto: non si può costruire l’Europa senza prima imparare a pensare europeo. E pensare europeo vuol dire, nel caso della Grecia, che l’idea di abbandonare un paese membro dell’Unione al suo destino e accompagnarlo verso una dolce morte economica e sociale non dovrebbe neppure sfiorarci la mente.
Ristrutturiamo il debito greco, miei cinici, disincantati amici: e dopo? Che ne sarà della Grecia dopo? Che ne sarà della democrazia greca?

Quello di cui la Grecia ha bisogno è crescere: e per crescere servono risorse e, non meno indispensabile, la garanzia che vengano investite in modo strategico. Soldi, investimenti strategici, garanzie, monitoraggio: un piano, e un’unica cabina di regia, a Bruxelles. Il prezzo per la Grecia sarebbe la definitiva messa in comune della propria sovranità politico economica, e per l’Europa – lo stesso.

Esistono difficoltà insormontabili che si oppongano a un simile intervento, a un simile salto di qualità? No: di difficoltà insormontabili non si vede neppure l’ombra. Occorrono un po’ di ingegneria istituzionale e una buona capacità di coordinamento. Qualcosa di ben più impegnativo fu fatto in Francia dopo il Piano Marshall, con il piano di rilancio degli investimenti proposto e pazientemente attuato da Jean Monnet: quando la Francia sembrava incapace di imboccare la strada del proprio futuro economico e prossima ad accasciarsi, scoraggiata, a un passo dalle proprie inesplorate possibilità. Problemi ben più spaventosi furono affrontati e risolti nella Germania di Adenauer.

Non ci sono difficoltà straordinarie e gli strumenti non ci mancano. Quello che manca è la stoffa politica di cui un destino più benevolo ha intessuto uomini come De Gasperi, Adenauer, Spaak, Mitterrand, Kohl ormai troppi, troppi anni fa. Quello che manca è un pugno di statisti che per una volta distolga lo sguardo dal barometro dei sondaggi e lo posi su quel grande compito storico che ancora oggi attende di essere ultimato, e che le circostanze sembrano spingere sull’orlo dell’abisso: l’unità politica dell’Europa e il suo ingresso in una nuova epoca di sviluppo e di progresso civile e democratico.
Lo sguardo dello statista non è quello del trader. Per lui il progetto europeo non ha bisogno di sofisticate giustificazioni: si giustifica da sé, è un valore in se stesso, come la democrazia, la pace e la giustizia. E gli ostacoli – le resistenze culturali, gli egoismi, gli interessi sedimentati e refrattari al cambiamento – sono solo un invito a superarli, come succede ad ogni politico di razza, che le difficoltà eccitano come il drappo rosso eccita il toro.

Non si può togliere all’opinione pubblica tedesca la sua fetta di ragione: è antipatico farsi carico dei problemi di un'altra nazione culturalmente ed economicamente arretrata. Solo che è una ragione piccola piccola, e andrebbe tacitata – e un poco perfino umiliata – accostandole una ragione molto più imponente: il fatto che senza solidarietà l’Europa non si costruisce, e senza Europa gli europei non contano nulla e non vanno da nessuna parte. A costo di essere il solo a farlo, mi porrò qui una domanda spiacevole: in che senso esattamente la ristrutturazione del debito greco sarebbe una soluzione? Se la Grecia fallisce chi o che cosa garantirà il debito portoghese, irlandese, spagnolo, belga, italiano?… Si può prendere qualsiasi decisione e muovere tutti i passi che si desidera nella direzione che si preferisce: ma occorre chiedersi quale prospettiva la nostra scelta ci offre.

Che il nostro lungo sonno stia per finire? Se non finirà, c’è una legione di concretissimi incubi già pronti a ad abitarlo. Allora svegliamoci, lettore: in Europa.

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