Le conseguenze economiche di Angela Merkel
Il momento che l’Unione Europea sta attraversando è stato ben esemplificato dal vertice di Breslavia del settembre scorso, quando i ministri Ecofin dell’Eurogruppo si sono riuniti intorno al capezzale del malato d’Europa, la Grecia, con la partecipazione straordinaria del Segretario al Tesoro USA Timothy Geithner. La posizione in cui Geithner è venuto a trovarsi e le sue prime reazioni, un po’ scomposte ma comprensibilissime, hanno forse ricordato a qualcuno l’imbarazzo nel quale il presidente Wilson si trovò quasi un secolo fa a Parigi durante i lavori della Conferenza di pace, imbarazzo che Keynes così magistralmente descrisse nel terzo indimenticabile capitolo del suo pamphlet sulle conseguenze economiche della pace. In entrambi i casi abbiamo visto gli Stati Uniti venire in Europa con la speranza di contribuire a sbrogliare la matassa dei suoi affari nazionali, e restare invece impigliati e come smarriti nell’inestricabile viluppo delle sue trame e dei suoi interessi in perenne conflitto. Il povero Geithner, esattamente come il povero Wilson, era giunto in Europa armato delle sue migliori intenzioni e di poche idee chiarissime, e il risultato è stato quasi uno strappo diplomatico: il segretario americano non ha potuto infatti trattenere il suo sconcerto di fronte allo spettacolo dei ministri europei che litigavano e temporeggiavano sul ponte del Titanic. Una reazione molto umana nella sua incontenibile franchezza, a cui dovrebbe andare tutta la nostra simpatia.
L’analogia non muore qui. Come allora anche oggi le trame europee rischiano di prendere una piega autolesionista. Nel 1919 furono Francia e Inghilterra a distruggere le premesse per la pace e la prosperità dell’Europa intera ostinandosi a infliggere a una Germania sconfitta e stremata riparazioni di guerra insostenibili. Oggi è la Germania che sembra decisa a sacrificare il progetto europeo sull’altare di un rigorismo finanziario sempre più simile a un dogma o a uno strano idolo, un insaziabile e imperscrutabile Moloch ai cui piedi ogni altra ragione è destinata a soccombere (e che tuttavia ha conosciuto proprio recentemente, con l’acquisto di bund da parte della banca centrale tedesca, un’imbarazzante, clamorosa, rivelatrice eccezione). Ma pensare a che cosa le società europee stanno rischiando in questi mesi – forse in queste settimane – mette i brividi, e la responsabilità che grava in queste ore sul governo tedesco è spaventosa.
Se un paese membro dell’eurozona sarà lasciato fallire l’effetto più probabile sarà un tracollo a cascata degli altri paesi a rischio e molto facilmente dell’intero sistema. Abbiamo letto tutti qualche tempo fa le varie simulazioni sulle conseguenze di un’ipotetica uscita della Grecia dall’euro. Ma farsi un’idea anche solo approssimativa dei guai a cui stiamo andando incontro non è difficile. Il sistema sociale greco è già ora sottoposto a una pressione intollerabile, e non si capisce su quali margini si possa contare per una stretta ulteriore della spesa pubblica. La domanda interna è al minimo, la produzione anche. Quello che ai falchi tedeschi del FDP e della CDU sembra un semplice, onesto invito a tirare ancora la cinghia a noi pare molto più simile allo stringersi di un cappio intorno al collo di un condannato – un condannato che potrebbe trascinarci tutti con lui in fondo alla botola.
In realtà l’effetto più certo della stretta fiscale con cui l’economia europea sta cercando di strangolare se stessa sarà di fiaccare ulteriormente, e forse definitivamente, le sue residue possibilità di sviluppo azzerando il potere di acquisto dei suoi consumatori. Non occorre una sfera di cristallo per predire che le entrate fiscali sono destinate a diminuire col decrescere dei redditi e dei profitti. Nella situazione in cui ci troviamo accrescere la pressione fiscale sulle fasce di reddito medio basse e sulle imprese è il modo più certo con cui lo stato può ridurre le proprie entrate; e troppo spesso i tagli alla spesa pubblica sono l’esatto equivalente di un aumento dei tributi, con la differenza che sono indiscriminati e quindi colpiscono con più forza i più deboli. Un rincaro del ticket sulle cure mediche e i medicinali è un’imposta regressiva. Se il nostro obiettivo è di sanare i bilanci nazionali, stiamo cercando di curarci con del veleno: perché il prodotto di tutti questi fattori non può che essere un ulteriore deterioramento dei conti pubblici.
E non si tratta solo del breve periodo. Il crollo della domanda nei paesi periferici dell’Eurozona avrà un effetto depressivo sui paesi con cui hanno scambi commerciali diretti e indiretti, mentre la crisi che colpirà il sistema bancario europeo ci riporterà tutti indietro verso la nera notte dell’insolvenza e del credit crunch. L’effetto sistemico è assicurato, ed è per scongiurarlo, naturalmente, che in settembre Obama aveva spedito Geithner a Breslavia: perché se l’Europa affonderà ci saranno onde alte anche sull’altra sponda dell’Atlantico.
C’è infine da chiedersi se qualcuno abbia messo in relazione la ristrutturazione parziale del debito greco con il crollo della fiducia sui titoli italiani a cui dobbiamo la caduta del governo Berlusconi, e con l’estendersi del contagio, in questi giorni, alle economie centrali dell’UE e perfino alla Germania. Chiamare “soft default” o “default pilotato” una mezza bancarotta non è certo sufficiente a ingannare chi deve collocare milioni di euro. Adesso che uno stato dell’eurozona è stato avviato al semifallimento, chi può ragionevolmente sentirsi sicuro degli altri debiti pubblici?
Per nostra fortuna, la posizione tedesca non è affatto granitica. Abbiamo buone ragioni per credere che il partito della cancelliera sia in fibrillazione, e anche per sperare che un numero sempre crescente di colombe europeiste stia cercando di isolare in un angolo lo zoccolo duro degli euroscettici, complici le assidue telefonate di un Obama sempre più allarmato. E siamo tutti un po’ più sollevati da quando il FDP, il partito democratico liberale alleato alla CDU di Angela Merkel, ha subito un rovescio così smaccato nelle ultime elezioni amministrative del land di Berlino, soprattutto perché gli osservatori sono concordi nel ritenere che il motivo risieda nella linea euroscettica e populista che i liberali hanno tenuto finora. In breve, stiamo aspettando di vedere su quale numero la ruota della politica tedesca finirà per fermarsi, quando le diverse spinte e i molti e complessi umori che la determinano avranno trovato il loro equilibrio definitivo in materia di politica europea. Tutto, o quasi, dipende ora da questo. C’è di che rimanere con il fiato sospeso.
Tutto ciò – e sopra ogni cosa l’urgenza di passare all’azione – Obama e i suoi consiglieri lo hanno capito da un pezzo. E il governo tedesco? Per l’ennesima volta nella storia i destini dell’Europa dipendono dalle sue decisioni. Dobbiamo sperare che la Germania (la sua società in primo luogo: perché in Germania non esistono soltanto un governo e una banca centrale, ma anche un’opinione pubblica) si renda conto del pericolo a cui la sua politica sta esponendo l’Europa e decida di cambiare rotta finché ancora ci sono margini per riuscirvi: forzando la propria leadership ad una più piena e coraggiosa assunzione della responsabilità storica di cui si trova investita oppure, se necessario, sbarazzandosi di questo governo per formarne uno nuovo che sia davvero all’altezza della situazione. È duro ammetterlo, ma nelle prossime settimane non ci resterà altro che guardare a Berlino, e tenere le nostre dita ben incrociate.
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