La sinistra, l'Europa politica e la democraza

Riflessioni sul futuro possibile dell'Europa

La redazione di Europace pubblica questa riflessione di Pasqualina Napoletano in cui si afferma che "il salto che l’Europa attuale dovrebbe compiere, è nell’unica direzione fin qui conosciuta capace di assicurare integrazione e democrazia e cioè quella federale" e che, in contrapposizione al metodo intergovernativo, "il nodo della democrazia e della partecipazione torna ad imporsi e risulta ineludibile".
9 gennaio 2012
Pasqualina Napoletano

Cantiere Europa La crisi economica ha reso evidenti i limiti e le distorsioni della costruzione europea fin qui realizzata.

Il dibattito sull’Europa è uscito dalle cerchie ristrette degli specialisti e degli addetti ai lavori per divenire un tema di interesse generale.

Da mesi la stampa ospita analisi ed interventi che analizzano le cause della difficoltà delle Istituzioni Europee attuali a reagire agli attacchi speculativi sull’Euro ed in particolare a quelli sui debiti sovrani di alcuni Paesi.

L’analisi si concentra sui limiti dell’Europa politica e sul fatto che la moneta comune ai 17 paesi che l’hanno adottata e la Banca Centrale non siano in grado, in assenza di un vero governo economico, di rintuzzare gli assalti dei mercati.

Questa situazione crea sconcerto nelle opinioni pubbliche dei diversi paesi per le quali l’Euro avrebbe dovuto rappresentare uno scudo protettivo, ma così non è stato.

La necessità dell’Europa politica sta divenendo senso comune per questo vale la pena approfondire questo aspetto.

Cosa vuol dire, infatti, Europa politica?

Quasi tutti la evocano ma non sono affatto sicura che vogliano intendere la stessa cosa.

Soprattutto, quello che a me interessa sottolineare è il rischio già presente di far accettare come conseguenza ineludibile della cessione di sovranità dal livello nazionale a quello europeo la mancanza di democrazia e di partecipazione.

Cosa è stata l’interdizione dell’uso del referendum in Grecia se non questo?

Questa deriva è molto pericolosa e rischia di portare a nuove disillusioni se non al “de profundis” definitivo del progetto europeo.

Non è affatto detto che l’Unione come entità che travalica la dimensione nazionale debba portare con sé tali conseguenze.

Come si può ben vedere, già qui emerge una specificazione dell’Unione politica che non può essere sottaciuta.

Se, per tornare al referendum in Grecia, gli strumenti di partecipazione popolare previsti nel livello nazionale, vengono ritenuti inadeguati rispetto a decisioni comuni, la conseguenza dovrebbe essere quella di prevederne di nuovi e più adeguati e non di abolire di fatto quelli esistenti.

Per fare questo, il salto che l’Europa attuale dovrebbe compiere, è nell’unica direzione fin qui conosciuta capace di assicurare  integrazione e democrazia e cioè quella federale.

Qualcuno obietta che porre oggi il tema dell’Europa federale  può risultare utopistico e di scarsa attuabilità visto le resistenze dei differenti governi e la scarsa spinta delle opinioni pubbliche.

La risposta è sotto i nostri occhi nell’incapacità della Europa confederale ed intergovernativa che  c’è a maneggiare le conseguenze della crisi economica e nel raffronto con gli Stati Uniti.

Questi ultimi, infatti, hanno parametri del debito e dell’andamento economico complessivo ben più pesanti dell’Europa, eppure, sembrano districarsi molto meglio nella crisi.

Ma l’Europa come si pensa e si descrive in questa contingenza?

A ben vedere l’Europa quale entità comune è stata già sostituita dal direttorio franco- tedesco che detta le condizioni ed i passi da compiere, compresa la decisione di rivedere a marzo prossimo il Trattato dell’Unione nella parte che riguarda il patto di stabilità.

La Commissione europea ha perso centralità per divenire una specie di segretariato del Consiglio Europeo.

Al Parlamento Europeo viene concessa la possibilità di inviare propri rappresentanti nel consesso che formulerà il nuovo Trattato e nulla di più.

In alcuni Paesi europei sono sorti movimenti che contestano le ricette fin qui attuate per rispondere alla crisi, essi tentano di coordinarsi ma resta molto difficile anche a loro contrastare una tendenza che vede anche i soggetti sociali prevalenti chiusi ciascuno nella propria dimensione nazionale senza avere proposte o piattaforme significative a dimensione europea.

Gli stessi lavoratori ed i sindacati ,quando non sono in conflitto circa la difesa dell’occupazione rispetto alle imprese multinazionali,non sembrano in grado di unirsi.

Questo perché, il welfare, a cominciare dai sistemi pensionistici, è rimasta  prerogativa rigorosamente nazionale salvo le misure restrittive che la Banca Centrale Europea ed il direttorio impongono ai differenti Paesi, soprattutto quelli della zona Euro.

La sensazione è che la crisi abbia ancora di più allentato gli elementi di appartenenza comune  ad una Unione che viene sempre più avvertita come problema e non come soluzione.

E’ su questi elementi che bisogna intervenire se si vuole dare un futuro al progetto europeo.

Anche perché, nonostante i limiti e le distorsioni cui ho accennato,penso che nello stesso tempo sia radicata nei nostri cittadini la convinzione che non esista una alternativa autarchica da contrapporre all’Europa nell’era della globalizzazione.

Solo soggetti sovranazionali forti e legittimati possono tentare di imporre regole ai mercati e tagliare le unghie alla speculazione finanziaria ed è per questo che la sinistra deve continuare ad investire sul progetto europeo e contrastare derive nazionalistiche.

Fin qui abbiamo parlato di democrazia e di istituzioni è indispensabile, a questo punto, introdurre elementi di merito rispetto alle misure fin qui adottate dall’Unione europea per contrastare la crisi.

A questo proposito, l’elemento che colpisce di più è il fatto che le voci che hanno tentato di proporre alternative alla deriva recessiva in cui l’Europa è entrata siano state molte ed autorevoli e, del tutto inascoltate.

Come si vede il nodo della democrazia e della partecipazione torna ad imporsi e risulta ineludibile.

Anche perché, non è affatto vero, e questo oggi è dimostrato, che esista una sola via come risposta alla crisi e quello che è ancor meno accettabile è che le politiche che si stanno imponendo agli Stati rischiano di non essere efficaci neanche nel risanamento finanziario e nella disciplina di bilancio, unico obiettivo che le politiche europee tentano di perseguire.

Se non si immettono politiche tendenti alla crescita dell’occupazione e obiettivi qualitativi di sviluppo, anche i sacrifici imposti per il risanamento dei conti risulteranno vani, annullati dalle speculazioni sugli interessi del debito pubblico nei vari Paesi.

“Spread” questa paroletta risuona ormai nel lessico quotidiano e quando i diversi governanti vengono interrogati su quale sarebbe il giusto differenziale tra gli interessi sul debito tedesco e quello del proprio Paese a nessuno viene in mente di rispondere che in un’Unione europea che si rispetti quest’ultimo dovrebbe essere pari a zero.

Questo rivela quanto ciascuno abbia introiettato come immutabile lo stato di cose presente ed anche la scarsa fiducia nel fatto che esse possano essere cambiate.

Così come di fronte alle tensioni che hanno diviso Regno Unito e Germania c’è chi tenta una risposta che concili il rigore di bilancio tedesco con il mito della concorrenza inglese, restando prigioniero di quella cultura neoliberista che tanti danni ha già prodotto.

Le ricette fin qui attuate dall’Europa,non a caso, non hanno prodotto alcun beneficio tangibile e non hanno allontanato dall’Eurozona la morsa speculativa dei mercati.

E’ possibile riflettere su questi dati o il compito della politica è solo quello di accettare come le tavole della legge le direttive di Bruxelles e  poi trasferire il conflitto a livello nazionale su come reperire le risorse per il risanamento avendo come alternative solo tasse e tagli di spesa pubblica?

Sono consapevoli i nostri governanti che se si andrà nella direzione del Trattato proposto,  oltre al pareggio di bilancio dovranno attuare un rientro del 5% annuo dal debito se esso supera il 60% del PIL , e che, in questa prospettiva, le manovre fin qui effettuate sono  state rose e fiori?

E se in Italia nel frattempo non si saranno raggiunti risultati significativi e tangibili sul fronte dell’evasione e dell’elusione fiscale, chi continuerà a pagare per raggiungere questi obiettivi che, nel frattempo, diverranno automatici e perentori?

Se questo è il quadro, il futuro che ci aspetta è abbastanza delineato e, conseguentemente, è a livello delle politiche europee che bisogna agire in via prioritaria e questo devono farlo i partiti, i sindacati, tutti quelli che hanno responsabilità nelle decisioni e su queste scelte vanno misurate anche le proposte e le iniziative dell’attuale governo in Italia.

Investire sulla qualità dello sviluppo in Europa vuol dire fare politiche comuni nel campo industriale, della formazione, della ricerca; vuol dire mettere mano alla politica fiscale  ed almeno ad alcuni obiettivi di politica sociale quali il salario minimo ed il reddito di cittadinanza.

Se non vogliamo che questa crisi spazzi via definitivamente gli elementi di welfare che l’Europa ha costruito nel secolo scorso e che la distinguono ancora dal resto del mondo come una società più umana e più giusta, sono questi gli elementi che andrebbero rafforzati, senza inganni lessicali.

Dico questo perché, nell’uso corrente giornalistico si fa ricorso al termine “politica fiscale” non per alludere alla armonizzazione della fiscalità nei diversi Paesi in modo da evitare quel dumping che, nonostante l’Euro, ci contraddistingue ancora, ma per parlare della politica del bilancio Pubblico riferito ai diversi Stati membri,cosa molto diversa.

Non voglio dare l’impressione di voler portare fuori di noi le responsabilità del risanamento e delle riforme.
E’ giusto che in un momento critico come questo ciascuno faccia i conti con i propri sprechi e con le proprie distorsioni e, in Italia, c’è molto da fare in questo senso.

Quello che non è accettabile è non provare neanche ad avere voce in capitolo rispetto agli orientamenti europei che, in questa situazione, risultano essenziali.

Stupisce, infatti, che nei momenti più neri e critici Paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda,l’Italia, non abbiano neanche provato a coordinarsi, a vedere se c’era modo di fronteggiare più efficacemente la morsa speculativa dei mercati.

Forse sarebbe bastato un fondo salva- stati realmente adeguato fin dall’inizio e la dichiarazione che la BCE sarebbe stata , come in parte è stato, il pagatore di ultima istanza a garanzia dei titoli sul debito dei diversi Stati.

Ciascuno ha teso, invece, a distinguere il proprio destino dagli altri, con un cinismo ed una indifferenza rispetto alle tensioni sociali che, via, via si andavano diffondendo  e senza alcuna volontà di interloquire con quei movimenti.

Torna il nodo democrazia - partecipazione.

Quello che sconcerta, in più, è che governi di destra e di sinistra abbiano fatto le stesse scelte come il socialista Zapatero che si è precipitato ad accettare la regola d’oro del pareggio di bilancio in Costituzione.

C’è da chiedersi allora a cosa servano i Partiti europei previsti dal Trattato e finanziati dal bilancio  se, su temi decisivi come questo, ciascuno và in ordine sparso e, quello che vale per i socialisti spagnoli non vale per quelli francesi i quali ,se Sarkozy perdesse le elezioni Presidenziali ,potrebbero essere decisivi per affossare questa previsione che, nel frattempo, Zapatero ha già fatto digerire alla Spagna.

In ogni caso è la politica ad essere latitante dalla dimensione europea.

Gli episodi citati dimostrano quanto sia scarsa la tensione dei partiti nazionali verso una dimensione europea della politica e, questo, contribuisce ad estendere il potere tecnocratico e dei governi, a partire da quelli più forti.

Lo stesso termine Europa politica risulta ambiguo perché anche un’Europa intergovernativa è un’Europa politica, occorre specificare meglio quale politica si sceglie e, soprattutto se è una politica democratica e partecipata o se anche su questo si asseconda l’attuale fase del capitalismo globale che ha sempre più difficoltà a coniugarsi con la democrazia.

Nessuno in questo contesto può dirsi innocente di fronte ai limiti di questa Europa politica e ,se i governanti attuali portano il peso maggiore delle responsabilità, non c’è da assolvere chi li ha preceduti poiché oggi raccogliamo quello che ieri è stato seminato.

Dovendo scegliere il più significativo dei passaggi che ha segnato il destino dell’Unione attuale non si può non tornare al mitico 1989.

Fu lì che si decise nel compromesso Kohl – Mitterrand il via all’unificazione tedesca in cambio della creazione dell’Euro come vincolo europeo per la Germania unificata.

Nel frattempo, gli altri Paesi dell’est dovettero attendere più di dieci anni per aderire all’Unione, logorando in questo tempo ed in trattative tecniche estenuanti quella tensione verso l’Europa che  aveva contraddistinto la fine dei regimi comunisti.

Mitterrand accettò l’idea di rinunciare ad una Confederazione Europea che riunisse due distinte federazioni dell’Est e dell’Ovest ma, con il senno di poi, possiamo dire che il risultato è stato che l’Unione europea come si è venuta realizzando è divenuta essa stessa una Confederazione di Stati.

Torno su quel passaggio perché è lì che andava abbandonata, a mio avviso, la visione “funzionalista” di Jean Monet, secondo la quale  la politica avrebbe dovuto necessariamente seguire le scelte economiche e di mercato in favore di un salto “federale” che avrebbe messo in grado l’Unione di accogliere i nuovi dieci Paesi in una casa comune.

E ancora, dopo l’era Mitterrand - Kohl si arrivò alla decisione dell’allargamento senza essere stati in grado di riformare seriamente l’Unione e le difficoltà furono evidenti quando ci si propose l’ambizioso obiettivo della Costituzione Europea con un’Europa già a 27.

Il compromesso al ribasso fu lungo e passò attraverso la bocciatura del Trattato in Francia e in Olanda e con un testo, quello varato a Lisbona, i cui limiti oggi sono più che evidenti.

Il limite principale oggi rilevato da tutti i commentatori riguarda la sproporzione tra il vincolo dell’Unione monetaria dato dall’appartenenza ad una moneta unica accompagnato da 27 politiche economiche  sociali e fiscali.

Qualcuno sostiene che la scelta dell’Euro sia stata troppo azzardata.

A quel qualcuno vorrei ribattere che, caso mai, occorreva trarre tutte le conseguenze del fatto di avere un’unica moneta ma questo non si intende fare neanche attraverso le modifiche del Trattato fin qui proposte.

Penso poi, che se in questa crisi non ci fosse stato neanche il vincolo dell’Euro, probabilmente l’Europa si sarebbe già dissolta in un’area di libero-scambio, visto che, in questi anni non è stata capace di progredire seriamente né nel campo della politica estera e neanche in quello della difesa comune, nonostante i progressi istituzionali presenti nel Trattato di Lisbona.

Da questo punto di vista è impressionante l’inadeguatezza dell’Europa di fronte agli sconvolgimenti nel mondo arabo.

Un’afasia totale accompagnata da un burocratismo che non accetta neanche di fronte ad eventi di portata epocale, di cambiare di una virgola i propri obiettivi ed i modi attraverso cui perseguirli.

Lo sguardo resta quello utilitaristico, paternalistico ed eurocentrico e non c’è da stupirsi se in molti di questi Paesi l’Europa non esista nella percezione dell’opinione pubblica  nel corso di cambiamenti molto importanti.
 
Nel 1989 gli strumenti della politica estera europea  erano molto meno adeguati di oggi eppure ci fu un’attenzione ed un ruolo dell’Europa che oggi non si vede, a cominciare dalla creazione di una banca che, attraverso prestiti, sostenne lo sviluppo e le riforme nei Paesi dell’est europeo.

Oggi sembra che l’Europa chieda garanzie preventive ai Paesi Arabi rispetto agli sviluppi futuri di processi in corso comunque più democratici delle dittature preesistenti.

Questo atteggiamento è ridicolo e antipolitico è come se all’est qualcuno avesse potuto dare garanzie circa fenomeni che ancora oggi inquietano molto quali il razzismo, il neonazismo o la presenza di gruppi ultranazionalistici ,per non parlare di vere e proprie controriforme molto gravi nel campo della libertà di informazione e delle libertà tout court in Paesi quali l’Ungheria, che fa parte dell’Unione.

Onestamente, su questi temi chi potrebbe dare garanzie sul futuro?

Anche Paesi con democrazie consolidate si trovano a fronteggiare tendenze culturali e politiche molto pericolose ed anche  rischi di regressione su temi quali le libertà e i diritti.

Ho aggiunto questi accenni sulla politica estera per far capire che la crisi europea non coinvolge solo la politica economica e monetaria.

La perdita di peso politico tocca tutti i campi fatto salvo, forse, quello ambientale dove il ruolo dell’Europa continua ad essere di avanguardia anche per i limiti del resto del mondo.

Per tornare alla proposta di stipulare un nuovo specifico Trattato, che costituisce la scadenza più significativa all’orizzonte, esso  si presenta come un accordo internazionale tra governi che, in ogni caso,dovrà essere ratificato dai  Parlamenti nazionali dei Paesi contraenti.

Il Regno Unito, per bocca del Primo Ministro David Camerun, si è chiamato fuori e partecipa ai negoziati come osservatore.

Il merito, secondo le intenzioni della Cancelliera Merkel, dovrebbe riguardare il rafforzamento della disciplina di bilancio imponendo ai Paesi aderenti l’obbligo di inserire nelle diverse Costituzioni il pareggio di bilancio e, per i Paesi con alto debito, il rientro annuale del 5%  del debito.

La denominazione sarà: “Unione economica rinforzata”.

Questa operazione, tuttavia, non appare di facile realizzazione perché ,emergono già problemi giuridici circa la compatibilità tra questo accordo ed il diritto comunitario ed alcuni Paesi quali Austria e Finlandia hanno già fatto sapere che avranno serie difficoltà a farlo ratificare dai rispettivi Parlamenti.

Il paradosso più grande, che alcuni commentatori hanno fatto emergere, potrebbe riguardare proprio i due Paesi proponenti i quali, potrebbero avere essi stessi problemi a condurlo in porto.

In Francia, infatti, non è detto che Sarkozy rivinca le elezioni Presidenziali e Françoise Holland ha già fatto sapere di essere contrario ad inserire il pareggio di bilancio in Costituzione.

In Germania il Bundestag rileva delle incompatibilità tra questo Trattato  e la Costituzione tedesca e, la SPD, da parte sua, ha elaborato un documento di tutt’altro tenore che sta cercando di far accogliere anche agli altri Partiti Socialisti.

Quest’ultimo punta sulla necessità di investimenti europei nell’economia reale; al governo dei mercati finanziari ed all’introduzione di regole ferree per contrastare la speculazione.

Anche sul piano istituzionale la direzione appare diametralmente opposta ,infatti, si riprendono proposte quali l’elezione del Presidente dell’Unione collegata alla elezione del Parlamento Europeo e la trasformazione della Commissione  nel Governo dell’Unione.

Mi auguro che la sinistra europea prenda nelle mani la bandiera del federalismo e, intanto, imponga che nessun cambiamento dei Trattati o negoziazioni di nuovi Trattati possano  avvenire senza un coinvolgimento pieno del Parlamento Europeo.

Metta in guardia da una riforma intergovernativa dall’esito incerto proprio quando la grave situazione richiede che l’Europa dia a se stessa e al mondo il senso di un percorso comune, condiviso, democratico.

E se si dovranno scontare delle fratture interne, come quella che si delinea con il Regno Unito, si faccia in modo che almeno ne sia valsa la pena.
 

 


 

 
 

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