Otto domande e otto risposte sui rischi che corriamo
1) Che cosa sta succedendo nelle piazze italiane?
La società italiana sta sperimentando un progressivo degrado economico e sociale. Questo processo, che corrisponde allo svolgersi di un preciso ciclo economico e geopolitico, ha carattere strutturale e non è destinato ad arrestarsi o a invertirsi nei prossimi mesi. È alla luce di esso che andrebbe letta e interpretata la realtà italiana in generale, e in particolare le agitazioni sociali che stanno avendo luogo.
2) Ci sono analogie con le proteste degli anni Settanta?
No. In generale, non ci sono analogie. Il degrado economico del presente e le sue particolari condizioni non hanno riscontri nel passato dell’Italia repubblicana, perciò ogni paragone è fuorviante. Le proteste degli anni Settanta avevano un contenuto ideologico e non nascevano da un malessere sociale. Al contrario, oggi la protesta è forzata dalla circostanza di un oggettivo impoverimento degli strati sociali medi e bassi, ed è priva di un contenuto politico. È azione senza pensiero: il movimento riflesso di un organismo minacciato. Il paragone con gli anni Settanta è la prima delle quattro o cinque banalità che si presentano alla mente quando ci si interroga sugli avvenimenti in corso.
3) Si può parlare di un movimento?
Allo stato attuale la risposta dev’essere “no”. Un moto collettivo diventa un movimento quando ha obiettivi, una strategia e una tattica comuni. Il prerequisito è una qualche forma di pensiero politico condiviso, ma proprio questa è la principale carenza del presente. Il vuoto che sta risucchiando le diverse forze sociali è di tipo intellettuale prima ancora che sociale o politico: corrisponde a quello spazio di pensiero non ancora formulato che vediamo compresso a sinistra da forme di veterocomunismo e a destra da un moderatismo privo di contenuti e prospettive, e che possiamo definire come l'ideale di un nuovo riformismo europeo. È possibile – è anzi pressoché inevitabile – che il vuoto finisca per riempirsi modellando la materia sociale che lo occupa e conferendole la propria precisa fisionomia, come la bottiglia dà all’acqua la sua forma. Allora nascerebbe un movimento, e, quel che più conta, un embrione del nuovo riformismo. Ma questo tema – il più centrale – è troppo complesso per essere trattato in una nota. E' importante invece ricordare che i grandi rivolgimenti sociali non nascono strutturati: esplodono in maniera informe e poi vengono cavalcati e monopolizzati dalla forza politica che per calcolo o per caso si trova nel luogo giusto, al momento giusto e con il giusto slogan. Perciò sbaglia chi ritiene che le agitazioni di queste ore siano innocue perché poco strutturate. L'esempio delle rivolte arabe dovrebbe insegnarci qualcosa.
4) Che cosa possiamo aspettarci nei prossimi giorni o mesi?
Il decorso fisiologico è abbastanza prevedibile, perché è quasi inevitabile. Proteste massicce non possono essere esenti da violenze perché la piazza non è mai del tutto controllabile. L’idea di una grande protesta sociale “innocua” costituisce un’aspettativa irrealistica, e anche un po’ ipocrita. Una protesta non è un atto puramente volontario ma nasce da una necessità obiettiva. È il livello di tensione sociale che ne determina meccanicamente il grado di violenza, e la tensione sociale è funzione diretta delle condizioni economiche. Le buone intenzioni non possono curare una febbre: bisogna intervenire sull’infezione. Poiché le condizioni economiche sono destinate a peggiorare nei prossimi mesi, questo significa che l’intensità della protesta crescerà e le violenze aumenteranno, indipendentemente dalla volontà di chiunque.
5) È possibile che la protesta assuma una forma non violenta?
Una folla che si tiene lontana dalla “zona rossa” è una folla saggia, che rassicura i ceti benestanti e non spaventa la classe politica. Ma per lo stesso motivo è una folla inefficace, che non può incidere sui lavori di un parlamento distratto e sulle decisioni di un governo ostile. C’è una soglia oltre la quale questa “saggezza” diventa insostenibile per gli stessi manifestanti: tale soglia viene fatalmente superata quando il tenore di vita di una massa critica di cittadini diventa insostenibile. Allora non c’è più scelta. È semplice come una legge fisica, o una formula chimica. Esistono un margine per il dialogo e una capacità di tolleranza del disagio sociale: ma nessuno dei due è inesauribile.
6) Se le violenze dovessero aumentare quali potrebbero essere le conseguenze?
Quando la società si agita fino a forzare i limiti della legalità lo stato si irrigidisce. Ciò ha l’effetto di accrescere la tensione, il che a sua volta giustifica un maggiore irrigidimento. È il circolo vizioso che spinge uno stato sui binari dell’autoritarismo. Questo è tanto più prevedibile per uno stato come quello italiano, nelle cui strutture una matrice culturale di stampo fascista è sempre rimasta presente, benché in condizione di latenza. Inoltre, non possiamo dimenticare che l’Italia si è data per oltre quindici anni il governo più illiberale di tutta la sua storia repubblicana; e che – terzo fattore non meno decisivo – mai come in questi giorni la società appare scollata dalla politica e sfiduciata nei confronti delle istituzioni. Si aggiunga il controllo dell’informazione, che da un pezzo ha superato il livello di guardia. Sono gli ingredienti perfetti per il colpo di mano antidemocratico: ci sono gli uomini, c’è il clima, e le condizioni oggettive vanno maturando in fretta.
È lo scenario che deve preoccuparci maggiormente, e, al tempo stesso, non è chiaro come si potrebbe scongiurarlo.
7) I partiti possono avere un ruolo costruttivo?
Sembra difficile ormai che i partiti di maggioranza possano intervenire in maniera efficace. L'ingresso nel parlamento di forze radicali e populiste lo sta minando dall'interno forzando la maggioranza (sempre più risicata) verso soluzioni di compromesso che non permettono politiche davvero incisive. Gli orientamenti della dirigenza democratica, ossia del principale partito progressista italiano, sembrano suggerire che è in atto una conversione verso il centro moderato nel momento meno opportuno degli ultimi sessant’anni: quando, cioè, un’emergenza sociale di proporzioni inedite esigerebbe l'attuazione di riforme decisamente radicali. Questo ha l’effetto di negare qualsiasi risposta politica al dramma socioeconomico in corso. Non è possibile affrontare il nostro presente economico con gli strumenti della politica “moderata”: non c’è in esso nulla di moderato, da qualsiasi punto di vista lo si esamini. Perciò è vicinissimo il momento in cui la politica potrà dirsi completamente fuori gioco. Allora resterà solo il braccio di ferro fra la società e lo stato. Qualche elemento di rottura e di rinnovamento potrebbe venire dal centrosinistra grazie all’istituto delle primarie e ai risultati che ha appena dato. Ma le probabilità vanno riducendosi, e bisogna prenderne atto.
8) Quali fattori potrebbero contrastare questa deriva?
Quello che occorre non è un generico “rinnovamento”, ma una politica economica in una direzione ben precisa e senza perdere altro tempo. Lo stato deve farsi carico dei redditi, in un modo o nell'altro. Solo una politica dei redditi potrebbe garantire la tenuta del sistema. Ma oggi l’unico governo che potrebbe mettere in campo una politica dei redditi - l'unico che dispone delle risorse per farlo - è quello europeo. La soluzione è dove l’opinione pubblica meno se la aspetta: nell’Unione Europea. È l'Europa – ormai da diversi anni – a “contenere” il sistema italiano, esercitando nei suoi confronti la stessa funzione di un esoscheletro. E, al tempo stesso, è questa la principale differenza di contesto rispetto agli anni Venti del secolo scorso.
Tuttavia, su questo fronte non mancano segnali preoccupanti. L’Unione Europea sta attraversando una fase di crisi profonda, nella quale i legami di solidarietà fra gli stati membri toccano oggi il punto più basso della storia comunitaria. L’immagine che sta dando di sé è improntata a un rigore privo di visione politica e a un’inefficienza che è connaturata alla sua stessa natura intergovernativa. Il problema è che un governo europeo non esiste. L’unico segnale capace di rovesciare la tendenza in atto potrebbe venire dall’Europa, purché decidesse finalmente di esistere come organismo politico e democratico e si assumesse le sue responsabilità, che non sono “tecniche” ma politiche e sociali, come a questo punto dovrebbe risultare chiaro a tutti. O l’Europa darà vita il prima possibile a un governo federale e democratico che si incarichi delle politiche economiche ormai indifferibili – improntate a una solidarietà di fatto, al rilancio di uno sviluppo sostenibile e al sostegno dei redditi più poveri – o la sua stessa esistenza sarà messa in dubbio. Non importa se questo richiederebbe uno strappo istituzionale, se per farlo occorrerebbe aggirare i trattati europei o forzarne il contenuto - come del resto si è fatto per il Fiscal compact e il Meccanismo di stabilità, che sono nati in pochi mesi al di fuori del diritto comunitario per mettere i bilanci nazionali in mano all'UE: quello che conta è che si agisca in fretta facendo l'unica cosa che resta da fare. Il governo tedesco dovrebbe riflettere intensamente in queste ore.
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