Qualche domanda per Martin Schulz
Il discorso che Schulz ha fatto al Congresso del PSE nel giorno della sua candidatura alla presidenza della Commissione europea ha qualcosa di straordinario. Per quanto si sia abituati alla capacità della politica di parlare senza dire, l’abilità di Schulz in questo sport ha battuto tutti gli esempi che la politica europea ci ha offerto negli ultimi mesi. E questo – concorderete – non è poco. Non voglio dire che Schulz abbia ignorato le questioni fondamentali: ha puntato dritto su ciascuna di esse – per aggirarla all’ultimo momento con la destrezza di un giocatore di football.
“Io” ha affermato “voglio un’Europa dove nessun paese potrà imporsi sugli altri in virtù della propria forza economica”. Tutti hanno capito che pensava alla sua Germania. Quello che non si è capito è come si possa ottenere ciò in un’Europa intergovernativa. È chiaro che dove le politiche economiche vengono decise all’unanimità da una conferenza diplomatica (il Consiglio europeo) il paese più forte finisce per imporsi: quando si parla di quattrini, il manico del coltello sta sempre nelle mani di chi ne ha meno bisogno. Dunque, se non si modifica l’assetto istituzionale dell’UE rendendolo più democratico e federale, in modo che le decisioni vengano prese a maggioranza nelle sedi che rappresentano gli interessi di tutti gli europei, chi potrà impedire alla Germania di dettare le sue regole? Assisteremo a questo miracolo solo quando la Germania potrà essere messa democraticamente in minoranza (se proprio sarà necessario). Il che oggi non può semplicemente accadere; e non per colpa della Germania, ma perché i trattati europei lo vietano.
“La mia priorità” ha proseguito Schulz “sarà l'occupazione giovanile”. E poi: “Voglio concentrarmi sullo sviluppo delle piccole e medie imprese”. Anche qui, la domanda è: come, di grazia, senza una vera unione economica e fiscale, e con un Consiglio europeo che delibera all’unanimità? Come, con un bilancio ridotto al di sotto della soglia (forse psicologica, ma di per sé già ridicola) dell’1% del Pil europeo? Ci si ricorderà infatti che nel 2013 il Consiglio europeo varò un bilancio pluriennale che per la prima volta riduceva le risorse a disposizione dell’Ue per le sue politiche, e che il PE, presieduto dal medesimo Schulz, finì per piegarsi e accettarlo dopo aver mimato un accenno di opposizione. Si può imbracciare il fucile e fare l’occhio assassino, ma a che pro, quando tutti sanno che il caricatore è vuoto?
Poi ha toccato il tema socialdemocratico per eccellenza: quello della finanza e della necessità di tassarla a favore delle forze produttive. “È possibile regolamentare i mercati finanziari. Non c'è bisogno di un Ministero delle finanze europee per affermare che dove si crea valore, è lì che vanno versate le imposte”. Questo vuol dire che non serve un governo economico europeo. Ebbene, può anche darsi che non serva per “affermarlo”; ma che serva per farlo è piuttosto indubbio. Chi governerà l’economia europea senza un governo europeo? Chi lo ha fatto fino ad oggi? Nessuno. E infatti l’economia europea è allo sbando. Ogni membro dell’Unione va per i fatti suoi, e si comincia appena adesso a muovere qualche timido passo nell’unione bancaria. Da quale cielo dovrebbe caderci, nei prossimi mesi, una politica fiscale europea? Possiamo immaginare un’unione fiscale europea senza un Tesoro europeo? E come si potrà ottenere senza riformare i Trattati? O pensiamo di affidarla alla BCE, o magari al Fondo Monetario Internazionale?
Schulz si è anche premurato di dire che l’UE non dovrebbe “fare tutto, che non tutto si può risolvere a Bruxelles”. Ora, se c’è un’informazione di cui non si avvertiva un bisogno stringente è questa. Sappiamo molto bene che a Bruxelles si risolvono pochissime cose, e in pratica nessuna tra quelle essenziali e urgenti. Ci basta vedere come è stata risolta la questione greca; o quella libica; o quella siriana. Avremmo quindi preferito sapere che cosa Bruxelles intende risolvere, in una situazione di debâcle socio-economica che ormai tutti gli osservatori internazionali si aspettano di veder affrontata nel contesto di un’azione europea.
Infine: “La nostra è un'Europa che mette i cittadini al primo posto. E' giunto il momento di unirci e di agire per un'Europa sociale e democratica”. Magnifica esortazione, che però dimentica di spiegarci come si possa avere un’Europa democratica e sociale se il Parlamento europeo, unico organo rappresentativo della sovranità popolare nell’UE, non ha voce in capitolo, perché i Trattati non gli attribuiscono alcun potere legislativo sulle politiche economiche. In breve: che cosa ci sta chiedendo esattamente il candidato del PSE? Dovremmo fingere di ignorare che l’Europa dei cittadini nascerà solo il giorno in cui il Parlamento europeo rivendicherà pieni poteri (come solo una volta nella sua storia osò fare, nel 1984, e solo grazie al grande cuore e alla grande testa di Altiero Spinelli)? E il presidente di un europarlamento che il Consiglio non ha perso l’occasione di umiliare in questi ultimi cinque anni potrebbe davvero fingere, insieme a noi, di ignorarlo?
È questa l’idea: continuare a chiedere politiche comuni negando che serva, per averle, un governo comune? Durare nell’illusione che politiche di rilancio della democrazia e dello sviluppo possano venire da un’Europa sempre più sfilacciata e divisa, soffocata e repressa da un modello di governance che mortifica sistematicamente gli interessi dei cittadini sacrificandoli a due o tre “ragioni di stato” di stampo ottocentesco (quelle dei paesi che riescono a imporsi sugli altri) che nessuno saprebbe più dire con esattezza a quali interessi coincidano? Continuare a tacere la verità su quella che resta la madre di tutte le questioni: la necessità di riformare le istituzioni europee per renderle democratiche ed efficienti?
Se l’idea è questa, è quella sbagliata nel momento più sbagliato possibile. Tutto suggerisce che l’UE non potrà reggere per cinque anni un Barroso tris, né in salsa schulziana né d’altro genere. Se la Commissione che uscirà da questo confronto elettorale si limiterà ancora ad agitare l’indice e a fare “raccomandazioni” che il Consiglio sarà libero di snobbare, come sempre, l’Europa si ritroverà acefala proprio nel momento in cui le sarebbe più necessario pensare con una testa sola e agire come un solo corpo. Ma per uscire da questo pantano di ipocrisia e inconcludenza la strada è una, ed è sempre quella: riformare le istituzioni europee per metterle in grado di governare l’economia e fare tutte le politiche necessarie. Senza politiche davvero comuni non ci saranno né sviluppo sostenibile, né occupazione. Tutto il resto è – nella migliore delle ipotesi – letteratura.
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