Ius soli: un obiettivo politico di civiltà per l’Italia e per l’Europa
Genova, 27 dicembre 2017
Gentile Presidente Mattarella,
Le scrivo per esprimere la mia indignazione per la mancata approvazione della legge sullo ius soli. Da cittadino italiano ed europeo ritengo sia un errore imperdonabile continuare a discriminare in questo modo persone nate e vissute in Italia escludendole dalla partecipazione alla vita politica del nostro paese.
Dopo l’uscita del Regno Unito con la Brexit in Europa abbiamo comunque un 28° paese dell’UE costituito dalle decine di milioni di persone che vivono, lavorano e studiano nel nostro continente senza diritto di cittadinanza. Un paese fantasma, presente in tutti i 27 paesi dell'UE, senza diritto di voto che subisce un vero e proprio apartheid, come ci suggerisce il filosofo francese Etienne Balibar.
Costoro fanno già parte integrante del composito “popolo europeo” sebbene non ne abbiano gli stessi diritti. Per colmare questo deficit democratico occorre superare la definizione di cittadinanza europea, come semplice sommatoria di cittadinanze nazionali, ed estendere lo ius soli a livello europeo sino ad ottenere una cittadinanza basata sulla residenza. Altrimenti si rischia seriamente un regime di esclusione del tutto simile a quello del sistema di apartheid.
L’Italia rappresenta il crocevia del Mediterraneo e la cerniera fra tre continenti: per questo motivo dovrebbe dare il buon esempio contribuendo a rompere il legame tra l’ideologia nazionalista e le istituzioni repubblicane che si fonda sul principio di esclusione, su frontiere visibili o invisibili ma sempre materializzate nelle leggi e nelle pratiche quotidiane.
In questi giorni vale la pena rileggere le parole di Balibar, e in particolare quelle del suo libro “Nous, citoyens d’Europe?” (tradotto in italiano da Manifestolibri) in cui afferma che la costruzione dell’Europa politica passa dalla inevitabile ridefinizione della cittadinanza europea.
Balibar invita a recepire tre tesi del politologo e filosofo olandese Herman van Gunsteren che ripropongo alla Sua attenzione nella speranza che possa dare seguito alla mia indignazione:
1) Noi apparteniamo tutti a delle “comunità di destino” su differenti scale, cioè a delle comunità di fatto, nelle quali si incontrano gruppi che non hanno scelto di vivere insieme ma che altrettanto non possono abolire la loro interdipendenza. Come diceva Kant “Essi … devono infine sopportarsi a vicenda” (Per la pace perpetua). L’alternativa inafferabile per loro, ovvero per noi, è fare di questo una relazione politica reciproca, oppure entrare nella spirale della distruzione.
2) La cittadinanza, nel mondo attuale, non può che essere una cittadinanza “imperfetta”, ovvero non già una semi-cittadinanza o una cittadinanza limitata ma una cittadinanza in via di rifondazione permanente: l’importante non è tanto la definizione formale o l’iscrizione costituzionale dei diritti quanto la costruzione della modalità di accesso ai diritti per i più.
3) Questo accesso poggia, idealmente su un principio che si può definire etico o metagiuridico, ma che per me esprime un obiettivo politico di civiltà: ogni individuo sulla terra deve avere almeno un luogo in cui può godere dei diritti di cittadino, in cui, di conseguenza, è un “uomo” nel senso effettivo del termine. Ora, come recita la prima tesi, questo luogo non può che essere quello in cui si trova, in cui è stato “pro-gettato” dalla storia, dalla politica e dall’economia: where he/she belongs.
Quella appena descritta è la situazione in cui si trovano 850.000 uomini e donne, ragazzi e ragazze, alcuni di essi compagni di scuola di mia figlia Viola. Essi appartengono all’Italia: qui imparano la lingua italiana e la nostra cultura e qui dovrebbero poter diventare uomini e donne con pieni diritti politici e civili.
Altrimenti chi spiegherà, un giorno, a mia figlia le motivazioni di questo apartheid?
Nicola Vallinoto
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