La Turchia e l'Europa - La nuova potenza Eurasia
ANCHE se l'allargamento dell'Unione europea alla Turchia avverrà fra 10-15 anni, come prospettato venerdì a Bruxelles, è fin da ora che l'Europa dovrà prepararsi a quello che probabilmente diverrà il suo nuovo volto, la sua nuova ragion d'essere, a meno di fallimento del negoziato. È un volto che muterà noi e il popolo turco in tre modi.
Primo, l'allargamento potrebbe spezzare le tante paure che ci paralizzano, e invogliarci a divenire finalmente una potenza globale.
Secondo, l'adesione potrebbe condurre Ankara, come è avvenuto in Germania dopo il '45, a riconoscere che crimini come il genocidio (degli ebrei nel caso tedesco, degli armeni in quello turco) sono precisamente la ragione per cui nel dopoguerra nacque un'Unione fondata sulla rinuncia a sovranità nazionali inviolabili.
Terzo: la difesa dello stato di diritto e l'equilibrio dei poteri democratici sono qualcosa che l'Unione dovrà chiedere a Ankara ma anche a se stessa, nel momento in cui le democrazie sono prese d'assalto dal terrorismo.
L'Europa potenza, in primo luogo. L'Unione non cesserà d'essere Europa, perché la storia turca è connessa a quella del vecchio continente, ma incorporerà una porzione consistente dell'Asia, visto che la più gran parte del territorio turco si colloca nell'altra metà del pianeta. Avrà frontiere non solo nuove ma difficili, non collaudate, perché un'Unione che inglobi la Turchia confinerà con il Caucaso del Sud (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e con Siria, Iran e Iraq. Tutte queste zone turbolente diverranno il nostro diretto vicinato, e non è male che sia così, a meno di non voler restare un'Unione dipendente, Inerte. La nuova Unione dovrà per forza di cose occuparsi in proprio delle mutate frontiere, stabilire rapporti che non sfocino ineluttabilmente nell'adesione, senza più delegare diplomazia e sicurezza ad alleati tendenzialmente egemoni come gli Stati Uniti. In fondo, già oggi bisogna pensare l'Europa come potenza mondiale, alleata dell'America ma per molti versi autonoma da essa: una potenza che continuerà a chiamarsi Europa ma che di fatto, incorporando zone cospicue del proprio Oriente, potrebbe esser ridenominata, dagli esperti in geopolitica, Eurasia.
negoziato con Ankara costituirà una prova formidabile per i turchi ma soprattutto per noi.
Non solo loro dovranno dimostrare di esser democratici, rispettosi dei valori europei di convivenza civile, desiderosi di delegare a istanze sovrannazionali la sovranità nominalmente assoluta del vecchio Stato nazione. Anche gli europei, man mano che negozieranno, saranno spinti a riflettere su quel che vogliono divenire entro 10 anni, e a costruire quelle istituzioni forti
che consentiranno di digerire l'ingresso d'una grande nazione come la Turchia, e di proporsi al mondo come potenza che amministra confini e vicinati nuovi.
Ratificata o no, la Costituzione firmata a Roma non sarà sufficiente, perché l'Unione non può assolutamente permettersi di inglobare un Paese che mantenga, in questioni diplomatiche e militari essenziali, il diritto di veto ancora a disposizione degli Stati. Dovranno anche domandarsi come mai stanno divenendo un punto di riferimento esemplare, per Turchia come per Ucraina, per Moldavia come per Georgia e Nord Africa, nel momento in cui l'antiamericanismo s'aggrava e s'estende nel pianeta.
Da un numero sempre maggiore di Paesi, infatti, l'Europa è vista oggi come un'alternativa agli Stati Uniti. Proprio le trattative con Ankara sull'avvio dei colloqui, e i negoziati d'adesione con gli europei ex comunisti, hanno accentuato tale preferenza: in Turchia come in Ucraina, le forze filoeuropee vedono oggi nell'Unione un modello d'estensione della democrazia non solo
più pacifico, ma più efficace del modello Usa. Non è escluso che con l'andare del tempo anche Mosca prediliga simile modo d'esercitare influenza globale (fondato sull'Europa-potenza civile più che militare o, come è stato detto, sull'Europa forza gentile) e cerchi forme d'associazione con essa, una volta che s'accorgerà dello scempio causato in Cecenia dai propri dirigenti e del fallimento dell'investimento su un'Ucraina satellite, corrotta e dispotica.
Secondo, l'Unione come metodo per assorbire le tragedie storiche nate da una sovranità nazionale esercitata in maniera assoluta. Anche in questo caso il negoziato euro-turco costituirà un test cruciale - ben più delle trattative per l'adesione di dieci piccoli Stati. Eurasia, infatti, non significa annacquamento dei valori molto particolari su cui è edificata l'unificazione europea a seguito delle due liberazioni del '900: liberazione dai totalitarismi nazi-fascisti dopo il '45, liberazione dal totalitarismo comunista nell'89. L'ingresso della Turchia significa adesione a un preciso modo di ricordare il passato e assorbirlo, e ai valori specifici che hanno permesso a tale memoria, non ingabbiante ma vigile, di radicarsi.
In questo l'Europa non somiglia alla Nato, e non solo perché è un'unione anziché un'alleanza. Quando si costituì, la Nato passò la spugna sui passati nazionali, perché lottare contro il nemico rosso pareva più importante.
Non così l'Europa unita, che non è patto d'oblio ma memoria tenuta in vita dei crimini commessi dai vecchi Stati nazione. Che è memoria condivisa e sormontata grazie al drastico ridimensionamento delle sovranità statali e al prevalere del diritto internazionale sui diritti dei singoli Stati.
Questo vuol dire che la Turchia, per entrare, non potrà fare a meno di riconoscere il crimine contro l'umanità che è stato, nel 1915, il genocidio programmato degli armeni cristiani. Non è una condizione astrusa avanzata da Chirac e dalla diaspora armena (circa 6 milioni, di cui più di 350.000 in Francia)
ed è un vero peccato che la commissione Prodi, nelle raccomandazioni del 6 ottobre, abbia omesso la parola genocidio, accennando, ambiguamente, alle «sofferenze umane» patite dagli armeni nel '15-'16. Il riconoscimento di quel crimine è una condizione che interessa tutti gli europei, e che sarà vitale per la definizione stessa che noi diamo della nostra forma di democrazia.
Esso mette in luce un elemento sostanziale: non sono in realtà le diversità religiose e neppure l'imperfetta laicità, a rappresentare oggi l'ostacolo preminente.
Il principale nodo turco riguarda un evento - il genocidio degli armeni, appunto - che non è imputabile né all'Islam né all'impero ottomano ma a un regime - quello dei Giovani Turchi che prese il potere nel 1908 e fu poi soppiantato dall'ala nazionalista del movimento, nel '13 – che coscientemente volle rompere col passato imperiale e puntare su valori progressisti e moderni appresi in Europa: la laicità ideologicamente vissuta e antireligiosa, il
nazionalismo espansivo, l'identificazione ottocentesca fra cultura, lingua, razza, nazione, Stato.
In altre parole, non solo i turchi ma anche l'Unione saranno indotti prima o poi a riconoscere cose indispensabili per il divenire europeo di Ankara e per il radicamento della democrazia in Eurasia: il genocidio del 1915, l'equivoca natura di una laicità che ha sovrapposto lo Stato sull'Islam ma ha anche represso religioni (compresi i dissidenti musulmani) e il fatto
che il crimine supremo dello Stato turco sia avvenuto nel momento più europeo della sua storia. Non si possono applicare, alla Turchia, criteri diversi da quelli applicati alla Germania. Non si può accettare che la Turchia onori ancora i responsabili del genocidio e difenda posizioni negazioniste, quando questi atteggiamenti sono vietati ai tedeschi. Continuare a negare il genocidio degli armeni significa dare, a Hitler, una vittoria postuma. Fu proprio lui a dire nell'agosto '39, quando fu ammonito contro l'invasione della Polonia e lo sterminio di popoli: «Chi si ricorda più del massacro degli armeni?».
Terzo: la difesa dello stato di diritto nonostante i vincoli dell'antiterrorismo.
dovrà ricordare che nessuna lotta a nemici esterni può giustificare il sacrificio di valori fondamentali come lo stato di diritto, il rispetto delle minoranze etniche e politiche, la separazione dei poteri dello Stato e della politica dalla religione, il principio dell'habeas corpus («il tuo corpo t'appartiene», principio medievale formalizzato in Inghilterra nel 1679, in base a cui il sospetto va portato davanti alla corte per un giusto processo). Un principio che noi stessi violiamo, di questi tempi, nello stesso attimo in cui imponiamo a Ankara l'approvazione di nostri costumi e leggi.
Con la Turchia ci uniamo per difendere la democrazia che noi stessi rischiamo di minacciare esistenzialmente, come a Guantanamo, a seguito di strategie contro terroristi cui non andrebbe attribuito l'immenso potere di distruggere civiltà. In questo senso s'è pronunciata l'Alta Corte dei Lord in Inghilterra,
denunciando le leggi antiterrorismo varate da Blair dopo l'11 settembre. Ha detto un rappresentante della Corte, Leonard Hoffman: «La minaccia vera all'esistenza della nazione, se per nazione s'intende un popolo che vive in conformità con le sue leggi tradizionali e i suoi valori politici, non viene dal terrorismo ma da leggi come queste».
Nell'ora in cui apriamo alla Turchia dobbiamo saperlo: quel che chiediamo loro - il rifiuto di diventar dei mostri nel combattere i nemici, l'habeas corpus, il rispetto delle minoranze - non riguarda solo la Turchia e la sua religione dominante, ma anche le nazioni europee con radici cristiane.
Ambedue devono ricordare che l'inferno è quasi sempre partito da casa nostra.
duplice eredità di vittima e di boia, di figlia dell'Iliade e di iniziatrice dei genocidi novecenteschi. Ma anche l'Europa salverà se stessa, perché nell'estendersi a Ankara non avrà rinunciato al patto di memoria viva che fondò fin da principio il suo nascere.
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