Rilanciare la campagna "L'Europa ripudia la guerra". Appoggiare il Trattato costituzionale europeo

Perché sono due aspetti della medesima campagna
18 gennaio 2005

Europace Potremmo consolarci con il pensiero che almeno Vittorio Agnoletto, dopo il suo voto contrario al Trattato costituzionale europeo, ha annunciato il rilancio della campagna per inserire il ripudio della guerra nell’articolo 1 del Trattato stesso. Ma senza farci troppe illusioni sul profilo che terrà nel suo complesso il gruppo europarlamentare di cui Agnoletto fa parte. Perché in realtà anche il Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea / Sinistra verde nordica è senz’altro diviso sul senso e sulla direzione da dare al progetto europeo.

Alcuni suoi membri, tra cui quelli dei Comunisti italiani o della stessa Rifondazione comunista, potranno pure riconoscersi in un orizzonte federalista, e ritenere che l’attuale Trattato costituzionale così com’è lo ritardi. Ma che dire delle rappresentanti dello Sinn Féin, il partito irlandese considerato vicino all’IRA, che ha sempre coerentemente posto al centro della sua politica lo stato nazionale e la sua ideologia, e che sino a qualche anno fa sosteneva esplicitamente l’uscita dell’Irlanda dall’Unione Europea? O del danese Ole Krarup, eletto per il Folkebevægelsen mod EU (traduzione: Movimento popolare contro l’EU)?

Considerata la necessità di mediare fra tali posizioni, si comprende il contesto della goffa dichiarazione di Fausto Bertinotti sull’assenza di un popolo europeo e sul Trattato costituzionale quale “ostacolo” da “rimuovere” per costruire un’altra Europa. Tuttavia il risultato che così si ottiene è in ogni caso il sostegno allo status quo. Perché di fatto si preferisce lo status quo alle conquiste, per quanto limitate, contenute in un Trattato che comunque prevede gli strumenti e le procedure per il loro ampliamento. Perché per lanciare e condurre campagne come quella per il ripudio della guerra nella Costituzione europea, o quella per la cittadinanza sulla base della residenza (campagne che stanno profondamente a cuore a tutti noi di Europace), si deve almeno convenire che il progetto europeo è qualcosa di più di un’Assemblea Permanente per la Fratellanza tra i Popoli: se si riafferma la centralità dello stato nazionale, tali campagne non hanno molto senso. Perché, infine, la mobilitazione dal basso necessaria per migliorare il Trattato ha certamente maggiori possibilità di successo se avviene nell’ambito di un quadro costituzionale e istituzionale definito, in cui il demos europeo è soggetto politico a tutti gli effetti, anziché essere, come adesso, alla pietosa mercé delle congiunture di potere che si formano in alto.

Sempre più si ha la percezione di una crescente esclusione dei cittadini dai processi decisionali, assieme a un senso di impoverimento della vita politica in generale. Le speranze di cambiamento suscitate all’inizio del dopo guerra fredda sono state in gran parte deluse. Se si torna con il pensiero alle prospettive che sembravano aprirsi allora, si noterà che si incentravano in particolare sull’aumento di spazi di democrazia, soprattutto al di là dello stato nazionale: si parlava di società civile, di democrazia transnazionale, persino di Europa delle Regioni. Soprattutto si parlava di pace, che sarebbe stata garantita da nuovi e diversi rapporti tra gli stati. E non ci si accorgeva che proprio mentre si parlava di fine dello stato nazionale, proprio mentre l’Europa con il Trattato di Maastricht intraprendeva un complesso percorso di una maggiore integrazione, nel frattempo l’ideologia esclusivista dello stato nazionale si riaffermava negli editoriali come nell’azione politica e di stato.

I confini possono apparire quasi inesistenti tra uno stato e l’altro dell’Unione Europea, specialmente se li si attraversa solo temporaneamente o con buone risorse economiche a disposizione. Ma esistono, eccome, intorno alla UE medesima, significando un divario enorme tra i diritti dei “cittadini” e quella dei nuovi “iloti” – sino alla quasi riduzione a merce di questi ultimi. Si riproducono all’interno della stessa UE, come nelle diversità di trattamento previste in molti dei quindici stati pre-allargamento tra gli stranieri provenienti dall’Europa dei Quindici e quelli provenienti dall’Europa dei Dieci.

Confini dettati dalla ragione economica, quindi incontestabili e intoccabili nelle logiche dell’Alta Politica. E ci sono le “frontiere” – quelle zone appena fuori porta, spazi percepiti come culturalmente e politicamente “altri”, sorta di palcoscenico per lo spiegamento e l’esercizio degli interessi economici e geostrategici delle cancellerie europee, felici che la fine della guerra fredda abbia in apparenza spezzato i limiti che costringevano il loro peso e il loro ruolo nel confronto fra le due superpotenze. Si pensi ai Balcani, alle politiche delle capitali europee sin dall’alba degli anni Novanta, alla loro preoccupazione di ritagliarsi ciascuna la propria zona d’influenza, che ha la sua buona parte di responsabilità nell’apparente ineluttabilità con cui la regione è sprofondata nella spirale della guerra, mentre l’Europa stava a guardare divisa ed inerte. Sino a giungere alla campagna militare della NATO in Jugoslavia: manifestazione della svolta conservatrice e unilateralista della seconda amministrazione Clinton, fallimento e rifiuto della diplomazia e della mediazione, presentata come l’unico modo per fermare la violenza e ristabilire la pace e la democrazia, la “guerra umanitaria” che doveva fondare un nuovo ordine giuridico con al centro i diritti umani, al di là della sovranità degli stati – una guerra pedagogica, in cui l’Occidente compatto, unito, al di sopra di ogni legge, e non giudicabile da nessuno, svezza a suon di bombe la frontiera arretrata dai demoni della dittatura e del nazionalismo… Bombe che cadono dall’alto dei cieli sui civili, su ponti, fabbriche, monasteri, scuole, ospedali, e che, in un copione destinato a ripetersi in seguito, non portano democrazia e pacifica convivenza, nonostante tutta la retorica del boogie-woogie. Eppure agli occhi di molti, anche a sinistra, la guerra del Kosovo rimane il fulgido esempio di “guerra giusta”, rispetto a cui la guerra in Iraq lascia invece molto a desiderare.

Ma la stessa guerra in Iraq ha le sue radici ideologiche nell’impresa balcanica. Nella convinzione che la sola azione efficace contro le violazioni dei diritti umani sia quella militare. Nell’adesione alla guerra come prova di maturità politica, di capacità di stare al mondo, di idoneità a governare. Nell’uso sapiente della propaganda e se necessario della menzogna. Nella personalizzazione e demonizzazione del nemico (Milošević come Saddam Hussein = Hitler; via M., via S.H., come via H., tutto bene), a cui corrisponde un’altrettanta personalizzazione della leadership politica “da questa parte” (una tentazione a cui anche i futuri governanti del centrosinistra fanno certamente fatica a resistere). Nell’ossessione tutta ideologica per la seconda guerra mondiale quale giustificazione ideale dell’impresa militare e mito fondante della nuova comunità politica da costruire: chi si oppone alla guerra viene automaticamente accusato di estraneità all’ordine e ai valori affermatisi con la fine della seconda guerra mondiale, o di affinità con il vincitore “sbagliato”.

Il tentativo di rendere nuovamente la guerra un “normale” fatto della vita degli europei è andato di pari passo, soprattutto in Italia, dalla diffusione di una retorica e di discorsi che cancellano o minimizzano le esperienze di costruzione della pace fatte a partire dal secondo dopoguerra in Europa e altrove. In questa prospettiva gli strumenti di risoluzione dei conflitti sono gli stessi della vigilia della seconda guerra mondiale. E la stessa integrazione europea viene vista unicamente in funzione dell’“Occidente” e dell’alleanza con gli Stati Uniti. Che nell’immediato secondo dopoguerra l’idea di Europa unita abbia avuto un vasto sostegno popolare “dal basso” proprio per porre fine a tutte le guerre e assicurare un futuro di pace, non è solo irrilevante, è bellamente dimenticato. In altri termini, il progetto europeo di quei politici, intellettuali ed editorialisti che ci esortano a considerare quella militare come una “normale” opzione politica, decisa ogni volta dal “senso di responsabilità”, è, anche se questi si dicono europeisti, monco e limitato: monco, perché ignora una (o “la”) componente fondamentale del progetto di unità europea nelle sue origini, dal primo dopoguerra e da prima ancora; limitato, perché troverà un limite negli interessi politici e strategici del più forte, ovvero negli “interessi nazionali” di ciascuno (quegli stessi “interessi nazionali” che hanno conosciuto una nuova priorità e rivalutazione proprio con la fine della guerra fredda). Non implicherà certamente lo sviluppo di una compiuta democrazia europea e transnazionale – le politiche militari sono di necessità “riservate”, e chi le sottolinea come un aspetto centrale della nuova Europa si può star certi che ha in mente un’Europa prevalentemente intergovernativa e tecnocratica, un ulteriore palcoscenico per i leader europei, ma in cui il ruolo di una società civile transnazionale semplicemente non sia previsto, o sia limitato il più possibile, e in cui non desta sorpresa che i diritti di cittadinanza si svuotino sempre più.

Questa è la prospettiva che apre lo status quo. Un’Europa ancora in gran parte a misura di capi di governo. Un’Europa in cui rimangono sempre, nel contesto del dopo guerra fredda, i rischi di un’ulteriore involuzione militarista a pregiudizio non solo dei rapporti del nostro continente con le parti più povere del pianeta, ma degli stessi spazi di democrazia in Europa (si veda tra l’altro, in Italia, il progetto di legge Martino-Castelli per la revisione delle leggi penali militari approvato al Senato, e in via di approvazione alla Camera). A tali rischi è necessario rispondere anche rafforzando l’integrazione europea e in particolare i poteri della società civile europea e dei rappresentanti al Parlamento europeo. È necessario quindi avere un Trattato costituzionale adesso. È fuorviante pensare di affondare il Trattato costituzionale esistente e sperare di ottenere così la Costituzione perfetta. Sono troppi gli interessi che auspicherebbero pure una revisione di questo Trattato, ma nel senso di accordare maggiori poteri ai governi. Inevitabilmente, maggiori poteri ai governi equivale a meno democrazia europea, più burocratizzazione, più militarizzazione.

l'Europa ripudia la guerra Al tempo stesso però occorre rilanciare la campagna per l’aggiunta nella Costituzione europea del ripudio della guerra come mezzo di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali. Come attualmente c’è nelle costituzioni italiana e tedesca – di quei paesi che hanno conosciuto sulla loro pelle il volto più aggressivo e distruttivo del nazionalismo. Per significare la presa di distanza dell’Europa dal suo passato e inaugurare una nuova fase di relazioni con il resto del mondo. Per avviare quindi una seria discussione sul ruolo e il carattere dell’esercito europeo, sui corpi civili di pace, e sulla natura e sulle modalità delle missioni di pace – l’opinione pubblica deve essere informata su queste questioni; non è più tollerabile che vengano discusse sempre a porte chiuse da gruppi ristrettissimi. Per riprenderci la politica europea come movimenti, società civile e opinione pubblica. Incalzando i nostri rappresentanti nazionali ed europei, costringendoli a dirci che Europa auspicano. Noi lo vogliamo sapere.

Una campagna, questa, che saprà parlare al cuore dei cittadini europei, ben al di là degli attuali confini del movimento pacifista e federalista. I compagni del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea / Sinistra verde nordica da che parte staranno?

Note: - Le bugie di Bertinotti sulla costituzione europea
http://italy.peacelink.org/europace/articles/art_9049.html

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