Cittadinanza nazionale e declino della democrazia
Sommario:
1. Significato di cittadinanza
2. Nazione come catalizzatore della cittadinanza democratica
3. Ambivalenze e contraddizioni della convergenza cittadinanza-nazionalità
3.1 Globalizzazione dell’economia e della società e nazionalizzazione della politica
3.2 Erosione della Nazione e nascita di nuove identità sub-intra-statali
4. Superare i confini nazionali per una piena realizzazione della cittadinanza
1. Significato di cittadinanza
La cittadinanza moderna come oggi generalmente la si intende è strettamente correlata al concetto di Stato. Essa designa il modo in cui un individuo dovrebbe comportarsi rispetto ad altri individui, membri della sua stessa comunità politica statuale. Il concetto è comprensivo di due significati, che si integrano e si completano vicendevolmente.
Da un lato, il termine cittadinanza designa una condizione giuridico-normativa. In questo senso, essa rappresenta l'ascrizione di un soggetto all'ordinamento giuridico dello Stato e riguarda le situazioni giuridiche che ciascun Stato definisce come condizione per il possesso o la perdita della titolarità di diritti e doveri connessi alla qualità di cittadino. E' lo status legale dell'individuo in quanto membro della comunità politica, status generalmente creato e tutelato da una Costituzione che sancisce i principi sui quali si fonda lo Stato stesso.
Dall'altro lato, implicito nel concetto di cittadinanza è anche un significato più prettamente politico-culturale, inteso come vero e proprio senso di appartenenza di un individuo ad una data comunità sociale, compresa sempre entro precisi limiti statuali. Designa lo status sociale del cittadino, cioè tutte le condizioni politiche, economiche e culturali garantite agli appartenenti a pieno titolo di un gruppo sociale, in cui stanno consapevolmente perché condividono una comunanza di interessi e valori e in cui si sentono l’un con l’altro mutuamente responsabili.
2. Nazione come catalizzatore della cittadinanza democratica
Il concetto di cittadinanza ha subito uno sviluppo storico e concettuale - parallelo allo sviluppo stesso del concetto di Stato - che parte della cultura greco-romana e dalla definizione di cittadino di Aristotele. Secondo il filosofo greco, la cittadinanza doveva essere concessa soltanto ai maschi adulti e liberi, liberi inteso anche nel senso che le necessità di lavoro non dovevano rappresentare un impedimento rispetto all'attività di governo della polis. E' una concezione elitaria ed aristocratica, perché solo una minoranza ne può godere. Il cittadino, perciò, si contrappone non solo allo straniero, ma soprattutto al servo e, più in generale, alla maggioranza dei membri della polis, che non ha diritto a mettere piede nell'agora per discutere e occuparsi dei problemi della città.
Questa concezione classica viene scardinata con la formazione dello Stato moderno. Lo status di cittadino conferisce ai membri della comunità politica statuale in quanto tali le libertà ed i diritti garantiti dalla presenza di un Leviatano che li governa e li regola. Il cittadino è tale in quanto suddito, in quanto sottomesso al volere del sovrano e rispettante le norme e le obbligazioni da lui imposte (Hobbes). Concettualmente, la cittadinanza si sradica dal suo carattere inizialmente elitario e si estende a tutti i sudditi dello Stato, i quali hanno tutti in egual misura diritto alla difesa della loro libertà privata (anche se, di fatto, il processo di parificazione dei diritti dei cittadini si vedrà pienamente compiuto solo in seguito alle lotte di rivendicazione dei movimenti sociali e sindacali). Ma il concetto di cittadinanza perde anche il carattere - fondamentale in Aristotele - di partecipazione attiva alla vita pubblica, acquisendo una simbologia più strettamente passiva di godimento di diritti.
E' proprio la nascita dello Stato nazionale che permette la piena concretizzazione della cittadinanza, attraverso un cambiamento del suo status da pura appartenenza ascritta a cittadinanza anche attiva. Il passaggio da Stato assoluto a Stato di diritto democratico alla fine del '700, con il trasferimento dell'origine della sovranità dal principe al popolo (Rousseau), fa sì che l'appartenenza statale venga a collegarsi al principio di libera volontà. Il cittadino è prima di tutto colui nel quale risiede la sovranità, che egli delega ad un ente superiore per la pacifica convivenza con gli altri individui. Il singolo è, prima ancora che destinatario del diritto, autore dello stesso. Il cittadino non è più tale in quanto suddito, ma in quanto uomo, ovvero essere razionale che è quindi capace di creare e scegliere il proprio governo. Nasce il popolo come soggetto politico - il demos - inteso come l'insieme dei cittadini che, attraverso la sottoscrizione di un contratto sociale, decidono autonomamente e liberamente di vivere insieme sotto un comune ordinamento costituzionale (democratico). Viene in questo modo recuperato e, anzi, esteso il senso originario di cittadinanza come partecipazione attiva e gestione della cosa pubblica, tipico della concezione classica.
Nella evoluzione dello stato protomoderno in repubblica democratica l'invenzione della nazione, come sostiene Habermas, ha giocato un ruolo di catalizzatore. La cittadinanza democratica è da un punto di vista politico-giuridico la piena realizzazione del concetto di cittadinanza - almeno per quanto riguarda i ceti effettivamente rappresentati nell'800 in parlamento - poiché si identifica con "appartenenza e diritti". Le libertà individuali dei cittadini sono garantite sia come libertà private dei membri della società sia come autonomia politica dei membri dello stato. Ma questa concezione giuridico-normativa rappresenta - come evidenziato nel primo paragrafo - solo una componente del concetto di cittadinanza, che richiede la soddisfazione, per la sua piena realizzazione, anche della componente culturale. Il concetto di nazione è venuto proprio a riempire il vuoto lasciato da un ordinamento costituzionale che, mentre creava un demos come entità giuridica e concettuale, non creava invece un popolo consapevole di essere una comunità di destino. Era necessario trovare una motivazione forte che rendesse i cittadini di uno Stato democratico - in cui, perciò, veniva a mancare l'unità generata dalla presenza di un sovrano assoluto - politicamente e culturalmente consapevoli. La nascita dello Stato nazionale ha riprodotto su larga scala un sistema di affetti che implica un forte senso di identità di gruppo, del 'noi', tipico di comunità piccole o intime, unite da qualche tipo di parentela o da una sua estensione. Attraverso strumenti concreti (quali la lingua, l'educazione, censimenti, controllo all'immigrazione), lo Stato moderno mette in atto un'opera di omogeneizzazione culturale al suo interno. La nazione viene presentata come comunità pre-politica, insieme di individui uniti all'origine da una comunanza etnica e perciò destinati a vivere insieme. Essa genera nei membri della comunità politica la percezione di appartenere ad un'unica comunità 'naturale', i cui membri - poiché legati da una comunanza etnico, linguistica e storica - costituiscono un unico Volk. I sudditi diventano cittadini a tutti gli effetti, ovvero non soltanto autori del proprio ordinamento giuridico, ma anche mutualmente responsabili culturalmente e politicamente perché affettivamente legati gli uni agli altri.
3. Ambivalenze e contraddizioni della convergenza cittadinanza-nazionalità
Se la coscienza nazionale ha riempito di contenuto il concetto di demos alla base della legittimazione democratica dello Stato, la visione naturalistica della Nazione come entità pre-politica ha però innescato il processo contradditorio di graduale perdita di quei principi universalistici che sono alla base stessa del concetto di cittadinanza democratica. La cittadinanza è venuta di fatto ad essere una diretta conseguenza dell’appartenenza non più ad una determinata comunità politica volontariamente e liberamente costituita, ma ad una Nazione storicamente determinata. L’ethnos si è posto come presupposto indispensabile del demos nella creazione del contratto sociale, da cui perciò è escluso alla nascita chiunque non faccia parte di una determinata etnia. L’idea di ogni uomo libero e uguale – fondamento stesso della rivoluzione democratica – è negata dalla logica di esclusione dello Stato-nazione, che divide gli uomini in ‘noi’ e ‘altri’, e priva questi ultimi dei diritti che sono invece garantiti ai primi. Rappresenta in un certo senso un regresso rispetto all’universalismo dell’Illuminismo, che aveva portato ad affermare l’idea – anche se non riuscì a tradurla in prassi a causa delle condizioni storico-istituzionali – dei ‘diritti dell’uomo’. Lo Stato-nazione stabilisce infatti un legame tra ‘diritti’ e ‘nazionalità’, limitando geograficamente, storicamente e linguisticamente un concetto prima esteso a tutta l’umanità in quanto tale. L’estremizzazione di questo processo è ritrovabile in quella che è l’altra faccia della cittadinanza democratica, il servizio militare obbligatorio, inteso come obbligo dei cittadini di sacrificare se necessario la propria vita e quella dei propri figli per la ‘Patria’. L’uomo diventa un mezzo (in senso kantiano) per garantire la sopravvivenza di un’entità, la Nazione, che è in realtà una costruzione artificiale e strumentale. L’uomo, che dovrebbe rappresentare il fine della politica, viene invece subordinato alle necessità di questo artificio storico, e i ‘diritti dell’uomo’ vengono relegati in secondo piano rispetto ai ‘diritti della nazione’.
Queste contraddizioni emergono chiaramente solo nella nostra era, alla luce di quel processo di cosiddetta ‘globalizzazione’ che ha generato un’interdipendenza di fatto degli uomini su una scala sempre più estesa rispetto ai confini dello Stato-nazione. Due problematiche, in particolare, mostrano i limiti della cittadinanza concepita con riferimento ad una ‘nazione di cittadini’.
3.1 Globalizzazione dell’economia e della società e nazionalizzazione della politica
Lo Stato nazionale oggi ha esaurito le sue potenzialità per soddisfare i bisogni dei suoi cittadini, sia per quanto riguarda la politica interna che la politica estera, entrambe governate nei fatti sempre di più da fattori che scavalcano i confini nazionali e raggiungono una dimensione mondiale. I cittadini degli Stati nazionali cominciano a diventare consapevoli del declino del loro status di cittadini: si rendono conto ogni giorno che i loro governanti non sono più capaci di garantir loro un futuro di prosperità e di pace, di garantire servizi sociali di standard elevati, di fornire ai giovani migliori la prospettiva in grandi centri di ricerca con leadership mondiale, la possibilità di pensare a una famiglia, il coraggio di intraprendere un’impresa. Come scriveva Spinelli già nel 1956, “[lo Stato] esige da noi il rispetto delle sue leggi, il pagamento delle imposte, il servizio militare e, in caso di necessità, la nostra stessa vita. Ora, questo rapporto tra il cittadino e il suo Stato è giusto ed accettabile, ma a condizioni che lo Stato sia in grado di rendere al cittadino i servizi per i quali esiste. [..] Oggi nel campo economico, militare e diplomatico, i nostri stati non rendono più servizi validi. Al lealismo dei cittadini non corrisponde più la capacità dello Stato di promuovere il benessere e la giustizia sociale, di garantire la sicurezza, di difendere e di rappresentare il proprio paese nei rapporti con gli altri.” (A. Spinelli, p. 30)
Se questo era vero negli anni in cui scriveva Spinelli, acquista ancora maggiore validità alla luce delle dimensioni imponenti che ha assunto negli ultimi anni il processo di crescente interdipendenza a livello globale. Lo Stato nazionale perde ogni giorno di più la sua caratteristica di primo referente per i cittadini, in quanto è sempre meno in grado di risolvere i grossi problemi della vita quotidiana di ognuno, legati alla guerra e alla pace, alla sicurezza, al benessere economico, alle emergenze ambientali. Colui che rimane formalmente il garante dei nostri diritti, non è in realtà in grado di assicurarceli (si pensi alla Costituzione italiana, che sancisce – tra gli altri - il diritto al lavoro e non riesce a garantirlo nei fatti).
Si giunge oggi a parlare di “società globale”, per definire una conseguenza del processo in atto di globalizzazione dei rapporti economici e sociali, che genera una dipendenza nei fatti tra individui che vivono in parti opposte del pianeta. In questo contesto sarebbe lecito attendersi una diffusione della consapevolezza che il genere umano costituisce una comunità di destino, con conseguente volontà di approfondire la comprensione tra i popoli e le relative forme organizzate di convivenza pacifica. Si registra invece una realtà politica sempre più profondamente segnata dal disordine, dal fanatismo, dall’incomprensione e dall’ intolleranza, a tal punto che si spiega il credito di teorie come quelle dello scontro di civiltà, che da ultimo negano l’esistenza di valori universali e di una comunità di comunicazione che comprenda virtualmente l’intero genere umano.
In un mondo sempre più interdipendente, ma senza alcuna forma efficace di governo, è difficile confutare la convinzione che le minacce senza confini soverchino e soffochino le opportunità senza confini. La società cosmopolita viene perciò definita anche come ‘società del rischio’, o ‘dell’insicurezza senza confini’. Infatti ai pericoli si unisce l’incapacità di intendere questi pericoli con i concetti esistenti e di dar loro una risposta con le istituzioni disponibili. Nascono nuovi attori nella politica mondiale, privati (multinazionali, Ong) e pubblici (organizzazioni internazionali, l’Unione europea stessa), che cercano di sopperire alle carenze dello Stato. Le loro azioni hanno sempre più conseguenze dirette sulla vita del singolo, che si deve sottomettere a nuovi obblighi e che detiene nuovi diritti. Ma gli Stati nazionali rimangono i soli attori democraticamente legittimati. La politica si è fermata ai confini nazionali mentre i problemi che essa dovrebbe risolvere li hanno di gran lunga travalicati. Col linguaggio di Albertini, il modello teorico che noi abbiamo creato non coincide più con la pratica. Il mappamondo in cui noi vediamo fin da piccoli dei confini netti e definiti ci appare come la realtà, e non piuttosto come una maniera di rappresentare il livello della conoscenza. Solo la politica sovrannazionale può generare l’inclusione della politica nel campo della scienza e della ragione. “Se si tiene presente che la scienza è il campo nel quale la ragione nel suo uso pratico pareggia la ragione nel suo uso teorico [..], si può constatare che la politica mondiale [..] è, ipso facto, la fine della separazione del teorico dal pratico e del pratico dal teorico, separazione che condanna il pratico all’irrazionalità e il teorico all’impotenza, e coincide con lo scacco della ragione.” (M: Albertini, p. 292).
3.2 Erosione della Nazione e nascita di nuove identità sub- intra-statali
Lo Stato è sempre meno in grado di mantenere una coesione culturale al suo interno, poiché la globalizzazione ha generato una tale mobilità di persone e di gruppi che quelle che erano un tempo comunità culturalmente e linguisticamente omogenee si ritrovano composte da sempre più sottogruppi di diversa provenienza, lingua, religione, cultura e tradizioni. Le migrazioni portano al crearsi di società multietniche e multiculturali. La comunità politica si apre all’inserimento di cittadini di qualsiasi estrazione, senza che essi debbano assimilarsi ad una supposta uniformità etnico-culturale. Il processo democratico di formazione dell’opinione e della volontà rende in parte possibile una ragionevole intesa politica anche tra persone estranee. Ma questa intesa non riesce a riprodurre quella compattezza che derivava dalla coscienza di appartenere ad una comunità unita all’origine. La vecchia nazione coincidente con i limiti territoriali dello Stato non esiste più e per questo è a rischio la solidarietà civica. Nascono continuamente nuovi sentimenti di appartenenza e nuovi stili di vita – legati a comunità sempre meno coincidenti con quella statale - e diminuisce l’omogeneità della popolazione all’interno dei confini attuali.
Lo Stato si sta sradicando di fatto dalla Nazione, ed è costretto a cercare altre forme per garantire la sua legittimità democratica e la partecipazione e il senso di appartenenza dei suoi cittadini. La soluzione non può più risiedere nell’omogeneizzazione culturale all’interno dei confini statali, perché l’unica strada per realizzarla dato l’attuale livello di interdipendenza e interscambio mondiali dovrebbe essere quella della chiusura totale e della pulizia etnica, moralmente inaccettabile. Questa contraddizione ha generato l’attuale lotta per i diritti cosmopolitici, avanzata da un numero crescente di individui non appartenenti alle comunità nazionali occidentali, e desiderosi di veder garantiti i propri diritti nel luogo in cui vivono e lavorano. A queste rivendicazioni le comunità reagiscono però a volte con la frantumazione in subculture chiuse a riccio l’una contro l’altra. Nelle nazioni che hanno avuto una loro maturazione storica è difficile e doloroso equiparare giuridicamente forme di vita diverse dalla propria.
E’ così che l’idea di patria come fattore di coesione sociale sta esplodendo ovunque, nel mondo industrializzato, in una miriade di identità, ognuna delle quali diventa un fattore di chiusura e di conflitto ed un pretesto per sottrarsi agli imperativi della solidarietà e della collaborazione. La rivendicazione di questo tipo di identità, impermeabili al dialogo ed al mutamento, è l’esatto opposto del concetto di cittadinanza: esse infatti non chiedono l’uguaglianza, ma esasperano le differenze. Ne deriva un allontanamento da quello che dovrebbe essere l’imperativo fondamentale che dovrebbe guidare ogni politico morale: quello di lavorare per la creazione di una società nella quale uomini e donne partecipino insieme al perseguimento del bene di tutti
4. Superare i confini nazionali per una piena realizzazione della cittadinanza
Il momento storico che stiamo vivendo ci costringe perciò ad un ripensamento del concetto di cittadinanza che, se fonte dei diritti dell’uomo, deve ritrovare e realizzare concretamente il suo carattere di universalità. Non è concepibile nella nostra epoca il far dipendere la garanzia dei diritti umani all’appartenenza ad una data Nazione, sia perché il concetto stesso di Nazione sta rivelando ogni giorno di più il suo carattere storicamente artificiale ed è quindi sempre meno difendibile come comunità naturalmente determinata, sia perché l’agire economico, politico e sociale scavalca continuamente i confini dei gruppi che si sono costituiti in Nazione nel passato. Se la coscienza nazionale è servita per creare un demos consapevole e dei cittadini attivi, essa ha esaurito oggi le sue potenzialità e, anzi, sta generando delle ambivalenze pericolose. Questo ruolo deve quindi essere assunto da un altro motore che riesca a riportare l’attenzione sull’uomo e sui diritti umani come fine e creare una cittadinanza veramente universale. Questo motore deve saper progettare una politica transnazionale capace di sviluppare reti globali, denunciando la simbiosi che si era creata tra stato costituzionale e la Nazione come “comunità dell’origine”. La forza solidarizzante di un popolo non è un dato ereditario che viene da una certa comunità naturale. La Nazione è stata la prima forma di identità collettiva ma è essa stessa un dato artificiale, costruito. La coscienza nazionale deriva da prerequisiti artificiali che si creano con le costituzioni statali, che istituzionalizzano la “solidarietà tra estranei”. C’è già stato in passato lo spostamento dalla coscienza locale alla coscienza nazionale e questo processo può senz’altro continuare, attraverso un’estensione della democrazia ad un livello sovranazionale. La cultura di maggioranza deve sganciarsi dal concetto di unica cultura nazionale affinché sia possibile una solidarietà basata su ciò che Habermas definisce “patriottismo costituzionale”. Un processo democratico che riesca a distribuire con equità diritti tra i cittadini può far nascere una solidarietà civica. Per poter essere fonte di solidarietà lo status di cittadino deve essere riscuotibile, cioè comportare il pieno godimento dei propri diritti.
La piena cittadinanza deve ritrovare un contesto in cui potersi affermare pienamente nelle sue due componenti, quella giuridico-normativa e quella sociale. Come delineato, lo Stato-nazione non è più in grado né di garantire i diritti dei cittadini, né di creare in loro un senso d’appartenenza che si trasformi in responsabilità civica. Questo non vuol dire che lo Stato ha perso il suo ruolo, ma piuttosto che deve essere ripensato su una nuova scala, che superi quella nazionale. La verità è che lo Stato ha costituito nella storia la condizione politica indispensabile dell’affermazione dei grandi valori della pace civile, della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. L’idea di Stato, pur nella sua evidente imperfetta realizzazione concreta, è legata indissolubilmente all’idea di cittadinanza, che significa uguaglianza di tutti di fronte alla legge e al dovere di contribuire al perseguimento del bene comune. E l’uguaglianza tra i cittadini di uno Stato, a sua volta, non può essere affermata senza affermare insieme implicitamente quella tra tutti gli uomini di un virtuale Stato mondiale. Lo Stato non è il prodotto di affinità culturali, ma si fonda idealmente su un contratto sociale liberamente sottoscritto: è proprio questo che ha consentito, nel corso della storia, di allargarne l’orbita di solidarietà e di integrare culture ed identità diverse. I sui limiti sono lo specchio dello stadio ancora iniziale del processo di emancipazione umana: ma ogni battaglia per affermare i valori della convivenza non può che esprimersi, per essere costruttiva, entro un disegno di lotta nello stato e per cambiare lo stato.
L’Europa ha sicuramente in questo senso enormi potenzialità, sta a lei la capacità di sfruttarle. Non basta a questo fine l’integrazione funzionalistica-economica. Il sostrato culturale-solidaristico potrà nascere solo attraverso un’effettiva unificazione culturale, l’avvio di un processo democratico con partiti a proiezione europea e la nascita di una sfera pubblica politica di dimensione europea. “[L’impotenza europea] è una malattia cronica della società europea. E’ deprimente, scema la vitalità dei nostri popoli e abbrevia le loro possibilità di vivere come popoli liberi. Ma li abitua anche a vivere nel rimpianto [..]. Si disprezza, in fondo al cuore, un sistema che ci uccide lentamente, ma non si pensa mai troppo a cambiarlo, e gli si è forse riconoscenti perché offre dei rinvii, forse lunghi, all’esecuzione finale. Le grandi ragioni d’essere storiche degli stati-nazione che facevano credere in esso e lo giustificavano non esistono più. Ma numerosi interessi particolari, che si sono sviluppati e consolidati sotto la sua egida, sono sempre presenti nel campo economico e sociale, militare e diplomatico. Questi interessi sono ben decisi a difendere le loro posizioni privilegiate, che sono divenute inutili, anzi nocive, per l’insieme della società , ma continuano a fornire onori, potenza e benessere a coloro che ne beneficiano. [..] E’ così che si spiega il fatto che l’esistenza di problemi divenuti insolubili al livello nazionale, è una condizione necessaria, ma niente affatto sufficiente, perché la federazione europea possa nascere.” (A. Spinelli, pp. 25-26) I cittadini degli stati europei sono già cittadini europei e mondiali, nel senso che solo grazie all’Europa come primo passo verso una vera cittadinanza cosmopolita riconquisteranno i diritti collegati ad una piena cittadinanza, ma il passo decisivo di scioglimento dai vincoli creati dall’artificio nazionale non è ancora compiuto.
La creazione della federazione europea come primo passo verso una federazione mondiale è la sola risposta adeguata per recuperare il concetto di cittadinanza nell’era della globalizzazione: soltanto imboccando questa strada si potrà superare lo stato nazionale senza negare lo Stato in quanto tale, anzi affermandolo nella sua espressione più compiuta, quella di uno stato di diritto mondiale, che prenda il posto della situazione di anarchia e dei rapporti di forza attualmente governanti la politica internazionale. Soltanto il federalismo separa l’idea di popolo da quella di nazione; soltanto esso, propone l’unione dell’uguaglianza e della differenza in un quadro che garantisca la pace, attraverso un sistema di una rete di livelli di governo. Oggi quindi il federalismo ha le potenzialità per divenire sempre più un punto di riferimento che consente di riorientare le aspettative e di mobilitare nuove energie morali ricollocando nella realtà storica i grandi valori della convivenza civile.
M. Albertini, “L’identità europea e la crisi della ragione”, 1977, in Albertini M. (a cura di), Il federalismo, Bologna: Il Mulino, 1994, pp. 285-294
Appadurai, Modernità in polvere, Roma: Meltemi, 1996
U. Beck, La società cosmopolita, Il Mulino, 2003
J. Habermas, Morale, diritto, politica,Torino: Einaudi, 1992
J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Bologna: Feltrinelli, 1998
J. Habermas, La costellazione post-nazionale, Milano: Feltrinelli, 1999
L. Levi, Cittadinanza Federale, contributo al Libro Verde sul federalismo della GFE
F. Rossolillo, “Federalismo e cittadinanza”, in Il federalista, Anno XL, 1998, numero 2 pp 166-172
A. Spinelli, “Le ragioni ideali del congresso del popolo europeo”, 1956, in La Costituente e il popolo europeo. Due scritti di Altiero Spinelli, Quaderni del Dibattito Federalista
“Filosofia Politica”, Il Mulino, n. 1/2000
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