L'Iraq, la democrazia e l'uso della forza
Caro Direttore, domenica scorsa, alla vigilia dell'arrivo del presidente Bush a Bruxelles, ho scritto ed inviato al direttore di Repubblica un articolo che terminava con le parole «Welcome, Mr President». Era un benvenuto che testimoniava la mia profonda soddisfazione per la decisione senza precedenti del presidente americano di incontrare in modo ufficiale le grandi istituzioni europee, Parlamento e Commissione. Ed era, al medesimo tempo, l'auspicio e la speranza che, a partire da questo pieno riconoscimento del ruolo dell'Ue, si fossero finalmente determinate le condizioni per un rilancio su nuove e solide basi del rapporto tra Stati Uniti ed Europa.
A questo mio articolo, generosamente trascurando il fatto che fosse stato pubblicato su un quotidiano concorrente, il suo giornale ha dedicato due editoriali: uno scritto da Paolo Franchi, e uno, non meno autorevole, disegnato da Giannelli. Come sempre mi accade per gli interventi che portano le loro firme, li ho letti e meditati. leader dell'Unione. Con la penna e la matita, Franchi e Giannelli hanno sollevato e mi hanno posto due domande di fondo.
Quale filo corre tra il mio benvenuto di oggi al presidente Bush e l'invito da me rivolto ai cittadini romani nel giugno dello scorso anno di accogliere il presidente americano, allora in visita in Italia, esponendo le bandiere arcobaleno della pace? Tra le due prese di posizione, c'è continuità o, invece, si deve parlare di svolta? Questa, posta in modo come sempre straordinario da Giannelli con l'immagine di una bandiera della pace strappatami di mano da un vento impetuoso e da me sostituita con la bandiera americana, era la prima domanda.
Una domanda pesante e che la tensione di questi giorni così carichi di angoscia per la sorte di Giuliana Sgrena rende ancor più impegnativa. Ancor più rilevante era il secondo quesito. Che si debba parlare di continuità o, al contrario, di svolta, qual è la linea di politica estera che ho in mente per l'Ulivo, per l'Unione, per l'Italia? A Franchi e Giannelli potrei dire che il programma comune dell'Unione e il contributo che ad esso verrà dall'Ulivo, che dell'Unione
vuole essere un motore riformista, verranno definendosi nei prossimi mesi e che, quindi, il tempo per rispondere ai loro quesiti non è ancora arrivato.
Ma, dopo cinque anni trascorsi lavorando in Europa e per l'Europa e nel momento in cui mi preparo alla sfida elettorale del 2006 per conquistare alle forze democratiche riunite sotto il segno dell'Unione il diritto e la responsabilità di governare il Paese, non voglio replicare così. Le loro sono domande alle quali, dopo qualche giorno fatto volutamente trascorrere per una doverosa riflessione, sento di dovere dare risposta meditata. Al primo quesito - svolta o continuità? -, posso, in tutta coscienza, rispondere che sono persuaso di avere mantenuto, sull'intera vicenda irachena, una linea del tutto coerente. «Una guerra che non avrebbe mai dovuto essere iniziata». Così dissi, subito, a conflitto appena iniziato, e così la penso ancora oggi, dopo le elezioni in Iraq. Elezioni che ho sempre considerato una tappa essenziale nella costruzione di un Iraq libero e indipendente e per le quali mi sono personalmente speso, come presidente della Commissione europea, con l'obiettivo di inviare degli osservatori internazionali. Per quanto questa forma di controllo, pur necessaria, si sia poi rivelata impossibile, non ho esitato un attimo a salutare il voto di milioni di donne e di uomini come un avvenimento che può aprire una nuova e promettente pagina nella storia dell'Iraq.
Ma questo non basta a farmi cambiare idea sulla guerra. Perché non di un'operazione di pace si è trattato, ma di guerra. Una guerra contro la quale si sono espressi tutti i popoli europei, e la maggioranza del Consiglio di sicurezza e dell'Assemblea generale dell'Onu, che mancava tanto di una valida
giustificazione quanto di una difendibile legittimità internazionale e che ha lasciato e continua a lasciare una lunga scia di morte e di dolore.
Angelo Panebianco scrive che, dopo le elezioni in Iraq, le affermazioni del tipo «la democrazia non si esporta con la guerra» sono passate di moda. Pur apprezzando il giudizio positivo da lui espresso sul mio benvenuto al presidente Bush, debbo dire con nettezza che non sono d'accordo con il mio vecchio amico e collega. A dargli, fortunatamente, torto è la storia tutt'intera dell'Europa unita. Dal primo riunirsi dei sei Paesi fondatori sino al recentissimo e non ancora concluso allargamento ad est che estenderà e garantirà a mezzo miliardo di persone un'area di pace, di sicurezza e di libertà, la recente storia europea è una straordinaria esperienza di esportazione pacifica della democrazia.
Non è un caso che alla nostra Unione Europea guardino, come ad un possibile approdo finale nel cammino verso la democrazia o più semplicemente come ad un affascinante modello politico ed istituzionale, Paesi ai confini dell'Europa come l'Ucraina o la Georgia o Paesi più lontani come le nazioni dell'Unione Africana. Sulla guerra in Iraq non ho, dunque, cambiato idea. Ma non è in questi termini ristretti che va posto il problema che è, oggi, piuttosto, il problema della violenza di massa alla quale, in assenza di un'organizzazione statuale in grado di controllare il territorio e di garantire la sicurezza, è tuttora esposta la popolazione irachena. Una violenza nella quale trovano spazio e alimento i terrorismi di ogni tipo.
In queste condizioni, la protezione delle popolazioni e, soprattutto, la ricostruzione materiale ed istituzionale dell'Iraq, richiedono l'impegno e l'intervento della comunità internazionale. Un impegno e un intervento che, pur necessariamente prevedendo una componente di forza sino al momento nel quale il nuovo Stato iracheno potrà interamente ed autonomamente assicurare la sicurezza dei propri cittadini e degli stranieri presenti sul suo territorio (e il pensiero corre di nuovo a Giuliana Sgrena), deve avere un carattere essenzialmente umanitario e multinazionale e avvenire sotto l'autorità delle
Nazioni Unite. Questo è il quadro che ci troviamo davanti e questa è la strada sulla quale dobbiamo cercare di procedere per aiutare a costruire un nuovo Iraq, libero, democratico e pacifico. Una strada che, dopo le elezioni, si è fatta un poco più larga ma sulla quale, come in qualsiasi viaggio bene organizzato, non si potrà utilmente procedere senza la definizione di un chiaro calendario che si ponga l'obiettivo finale del passaggio di tutte le responsabilità civili e militari al nuovo Stato iracheno e che, pertanto, tra le tappe da mettere progressivamente in sequenza, preveda obbligatoriamente anche quella del ritiro delle truppe. La convocazione di una conferenza internazionale di pace, a più riprese invocata e invano suggerita al governo da noi, opposizione italiana, ed ora formalmente proposta da Europa e Stati Uniti, costituisce il foro più appropriato per definire questo percorso.
Questa, dunque, è la mia posizione. Non sono cieco alle novità sul territorio
mediorientale: il voto e la prossima formazione di un nuovo governo in Iraq
(anche se non mancano le preoccupazioni per il futuro assetto del Paese), i nuovi spiragli di dialogo che si aprono tra israeliani e palestinesi ora che entrambe le parti si sono date nuovi governi. E non sono cieco di fronte alla novità, sostanzialmente confermata negli incontri e nei colloqui di Bruxelles tra il presidente Bush e i rappresentanti europei, di una politica estera americana che finalmente riconosce nell'Unione Europea un protagonista della politica mondiale. Colgo i segni del cambiamento ma non per questo rinuncio alle mie convinzioni profonde: la scelta europea, l'amicizia su un piano di pari dignità con gli Stati Uniti d'America e, prima di tutto e sopra tutto, la pace. La pace è l'obiettivo di fondo di quella che io vedo come la politica estera per l'Italia. Non abbiamo bisogno di inventare cose nuove. Per trovare la nostra stella polare, ci basta restare fedeli alla nostra Costituzione. Leggiamolo tutto intero, l'articolo 11 della nostra carta costituzionale. «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». In quelle parole scritte dai nostri padri costituenti c'è già tutto ciò che ci serve per orientare, ancor oggi, le nostre scelte.
C'è il rifiuto, fermo e assoluto, della guerra in nome del rispetto dovuto alla libertà di ciascun popolo e, dunque, alla persona come valore supremo da tutelare. C'è, su un piano di assoluta parità di valori, il richiamo alla pace e alla giustizia come obiettivo e valori fondanti delle relazioni fra le nazioni. C'è, in nome di questi stessi valori di pace e giustizia e purché avvenga su un piano di parità, il richiamo alle organizzazioni internazionali: l'Unione Europea come nostra casa naturale e prima garanzia del nostro futuro, l'Alleanza atlantica come strumento di quel patto tra Europa e America senza il quale pace e sicurezza nel mondo sono destinate a restare parole vuote, le Nazioni Unite come motore e supremo garante dell'ordine e della legalità internazionali. Non si tratta di indicazioni generiche.
Non è generica l'indicazione che la guerra, ogni guerra portata contro un altro popolo o un altro Stato, è bandita come illegittima e immorale. Non è generica l'indicazione che ci si debba concretamente impegnare per ridurre l'iniquità nell'accesso alle ricchezze tra le nazioni del mondo e per difendere l'ambiente. Non è generica l'indicazione che le controversie internazionali devono essere risolte ricorrendo agli strumenti della politica. Non è, infine, per nulla generica l'indicazione, pure essa limpidamente deducibile dal dettato costituzionale, che l'uso della forza è consentito solo e soltanto quando esso è indispensabile per portare pace e giustizia e quando è approvato dalla comunità internazionale. Rispetto a quest'ultimo punto, decisamente il più delicato, già un anno fa, nel decimo anniversario del genocidio ruandese e proprio sul Corriere della Sera , ribadito che l'Onu è, nella quasi generalità dei casi, l'unica istituzione dalla quale può legittimamente derivare l'approvazione della comunità internazionale, non mi sono sottratto all'onere di indicare in quali casi un intervento armato potrebbe essere considerato giustificato. «Quanto alla sostanza - scrivevo un anno fa -, l'uso della forza potrebbe e dovrebbe essere ammesso solo in quei casi in cui essa servisse a proteggere delle popolazioni: uomini, donne, famiglie, bambini, anziani. Stiamo, dunque, parlando dei casi, e solo dei casi nei quali si tratti di offrire protezione da atti di genocidio, da una guerra civile, dall'aggressione ad uno Stato sovrano, da atti di terrorismo.
In nessun modo si dovrebbe accettare come giustificato l'uso della forza qualora esso dovesse servire a risolvere una controversia internazionale o a determinare un cambio di regime in un altro Stato.
Affinché il termine protezione conservi un significato autentico, si dovrebbe,
peraltro, ammettere che questi tipi di interventi possano essere attuati, quando indispensabile, anche in forma preventiva. Contrasterebbe, infatti, con ogni elementare regola di coscienza una regola che imponesse di attendere che il genocidio fosse in atto per muoversi a protezione delle popolazioni interessate». Non erano parole scritte a caso. Da esse, guardando ai casi degli anni più recenti, discendeva l'approvazione degli interventi nel Kosovo (per proteggere le popolazioni locali delle violenze dei serbi), a Timor Est, in Albania e, con minore fortuna, in Somalia (per fare fronte al caos generato dal disfacimento di uno Stato), nel Kuwait (per difenderlo dall'invasione da parte dell'Iraq), in Afghanistan (per contrastare il terrorismo) e in Macedonia (per evitare lo scoppio di una guerra civile). Da quelle medesime parole, che imporrebbero oggi un immediato intervento nel Darfur per prevenire disastri ancora più terribili, derivava pure l'ammissione della colpa per non essere intervenuti in Bosnia, dove la comunità internazionale si mosse solo dopo il massacro di Srebrenica, e in Rwanda, dove poche migliaia di soldati avrebbero probabilmente evitato orrori talmente disumani da spingere, poi, alla costituzione del Tribunale penale internazionale.
Non ho, infine, quasi bisogno di aggiungere che già allora, sulla base degli stessi principi applicati agli altri casi, consideravo l'intervento in Iraq privo non solo di legittimità in quanto non approvato dall'Onu né dalla maggior parte della comunità internazionale, ma anche ingiustificato. Mentre giudicavo che, posta fine all'occupazione, avrebbero potuto esistere tutte le condizioni di un intervento umanitario. Con questo, il cerchio partito dall'Iraq si chiude. Più che di tornare sulla vicenda irachena, tuttavia, ciò che mi premeva era offrire un possibile e coerente quadro di assieme per la politica estera italiana. A questo stadio, si tratta niente di più che del mio personale contributo. Coltivo, tuttavia, la speranza che, lungo una linea e un cammino come quello che ho indicato, si possano ritrovare tutti coloro, partiti, associazioni, movimenti e cittadini che partecipano e si riconoscono nel progetto dell'Unione e che, come dice la nostra Costituzione, vogliono lavorare per un mondo di pace e di giustizia.
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