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Nel buio
Fammi scendere subito, IM-ME-DIA-TA-ME-NTE, gli avevo gridato isterica con tutta la voce che avevo in gola e i pochi resti di forza superstiti da un’ora di inutili discussioni in quella macchina che era diventata una trappola. Si perché con lui non c’erano mai stati confronti costruttivi, chessòio, quei “normali” litigi che le coppie normali affrontano perché uno dei due era arrivato tardi ad un appuntamento, aveva salutato con entusiasmo un po’ civettuolo una vecchia conoscenza. No, nulla di quelle fisiologiche e civili discussioni fra coppie normali. Ma che non fossimo normali, separatamente e insieme, a maggior ragione, lo avevo sempre pensato. Ma avevo anche silenziosamente presagito, sin dal primo momento, che questa storia, che non aveva nessun presupposto perché si consolidasse, si sarebbe spenta velocemente e debolmente come la fiamma di un cerino. Invece si era rivelata un vero e proprio calvario, lungo ed estenuante, una continua ascesa verso picchi di felicità ed entusiasmo mai provati e, di contro, il precipitare verso abissi profondissimi di sconforto a causa delle sue uscite dai gangheri immotivate e fuori luogo e della perenne incomunicabilità. Lui era Demone o Angelo. Non aveva mezze misure. Insomma la nostra storia era paragonabile alle montagne russe, giro della morte compreso (una volta esasperata, lo avevo minacciato con un coltello da cucina).
Comunque scesi dalla sua macchina senza chiudermi alle spalle la portiera, mi voltai decisa e mi diressi a grandi falcate nel senso opposto a quello in cui stavamo andando. “Sei una grande stronza!”. Poi il tonfo secco della portiera e le ruote che slittavano sull’asfalto freddo della notte. Camminavo quasi correndo. Non riuscivo a pensare, ma in cuor mio ero convinta che non mi avrebbe lasciata lì in mezzo alla strada a quell’ora di notte (erano le due o le tre, non avevo nemmeno voglia di guardare l’orologio). Sarebbe stato da vigliacchi.
Si. Nonostante tutto, anche se, come pensavo, la nostra storia fosse finita lì, lui sicuramente sarebbe venuto a cercarmi per riaccompagnarmi a casa. Stava facendo il giro dell’isolato lasciando il tempo alla sua ira di sbollire.
Sì. Ne ero sicura.
No.Non ne fui più sicura quando dopo circa 15 minuti sentii ancora solo i miei passi echeggiare sordi sulle vie addormentate della città, quasi a richiamare il ritmico tamburellare del mio cuore in affanno. Non c’era anima viva, la zona era fuori mano e non sapevo neanche dove mi trovassi. Avevo perso del tutto l’orientamento. Che stupida ero stata! Mesi buttati al vento. E poi farmi trattare così! Ma non sarebbe più accaduto e avrebbe dovuto, come minimo, chiedermi scusa in ginocchio, farmi trovare la stanza dell’ufficio sommersa di rose rosse…insomma qualcosa di eccessivamente grande, come grande era stata la sua vigliaccata. Ed intanto camminavo non so perché, non so verso quale luogo. Sapevo solo che non avrebbe avuto senso fermarmi, anche se ne avevo voglia. Più che spaventata per la desolazione dei luoghi che attraversavo mi sentivo intimidita dal rumore che i miei tacchi emettevano. Avrei voluto camminare in punta di piedi per non svegliare quella parte di mondo che si era assopita da tempo. Dietro quei balconi e finestre serrati c’era una vita che intuivo così diversa dalla mia! Chissà quante coppie dormivano abbracciate nel calore del loro letto. Quante, chissà, facevano l’amore. Quante, magari, si davano le spalle stretti ognuno nella loro sponda di letto per stare il più lontano possibile dal compagno/a con cui avevano avuto un alterco. Eppure nessuno di loro si trovava solo, in mezzo alla strada, nel cuore della notte, in balia del freddo e di chissà quale insidia. Non c’era proprio nulla da fare. La mia esistenza era storta ed irrecuperabile, come la camicia che sbagli ad abbottonare al primo asole. Gli uomini passavano nella mia vita, rallentando senza fermarsi, come treni ad alta velocità nelle stazioni minori; per un nonnulla sparivano e mai che ripensassero a me, o ritornassero sui loro passi! Ma era possibile che fossi così attraente da procurarmi un compagno nel giro di una settimana, ma non tanto poi da tenerlo a me? Ci doveva essere qualcosa di sbagliato in me, qualche meccanismo rotto che mi rendeva difettosa, ed irrimediabilmente inutilizzabile. Lo zaino dei fallimenti era diventato così pesante che non riuscivo più a reggerlo. Quell’ennesimo fallimento, nonostante previsto come un temporale da un cielo tetro, era stato un’ulteriore masso che aveva reso insostenibile il bagaglio delle mie esperienze e mi teneva ferma a terra come una zavorra. Presa da un indicibile sconforto cominciai a piangere, a piangere senza asciugare le lacrime che sentivo scorrere a rivoli giù lungo il viso bagnandomi il collo. Piansi a singhiozzi, finchè non sentii una mano calda che mi afferrò la spalla da dietro. Mi sentii scossa. Poi come risucchiata da una voragine.
“Tesoro mio, svegliati. Non piangere E’solo un brutto sogno. Un incubo! Probabilmente sono stati quei due disgraziati giù in strada che si son messi a litigare tutta la notte proprio sotto il nostro balcone. Non potevano andare da un’altra parte! Non ho chiuso occhio. E tu, amore, come stai?”.
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