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19 febbraio 2007

Kojevas

Racconto fantastico su un giovane mago che, attraverso le proprie scelte controcorrente e sfruttando le sue capacità di compiere incantesimi, riesce ad interrompere un conflitto che potrebbe innescare una spirale infinita di atti bellici e rappresaglie.
Autore: Mimmo Gerratana

Kojevas aveva un difetto: faceva sempre il contrario di quanto gli veniva ordinato o semplicemente chiesto. Una volta il suo precettore Kantorchak lo aveva pregato di ripulire un campo da erbacce e vegetazione incolta per prepararlo alla semina del grano, ma lui lo aveva trasformato in una verde e folta prateria, buona solo per il bestiame.
Nessuno aveva mai capito se si trattasse di un difetto congenito dei suoi neuroni oppure di una mentalità assimilata nell'infanzia per qualche oscuro motivo. Nemmeno lo stesso Kojevas era stato mai in grado di trovare una risposta. Ricordava solo che a un certo punto, quando era ancora piuttosto piccolo, suo padre lo aveva chiamato a sé ed esortato, con voce gentile e gli abituali gesti bruschi, ad essere ubbidiente, ad avere rispetto per chi era più anziano e quindi possedeva più esperienza di lui, ad osservare le leggi e le consuetudini dell'Impero Ecumenico. E soprattutto ad eseguire ogni comando che lui, il padre, gli impartiva e gli avrebbe dato per il suo stesso bene. La figura del genitore doveva accompagnarlo in ogni momento dell'esistenza, doveva restare sempre dentro di lui come una guida perenne per le sue azioni.
Ma subito dopo il padre era scomparso dalla sua vita. Come volatilizzato. Era accaduto il giorno successivo a quell'episodio. E d'improvviso lui si era ritrovato da solo. Solo nella grande fattoria dell'Est, con la schiava che lo aveva partorito e accudito, con i contadini e le loro serve da governare, gli animali da allevare e i campi da coltivare. Privo di un educatore, però. Senza più alcuna guida. Suo padre era sparito dal mondo e, stranamente, solo alcune ore più tardi Kojevas sentiva già appassirne perfino il ricordo: gli rimaneva vivido in mente soltanto quell'ultimo incontro, che rammentava ancora da adulto, ma il resto era come se fosse evaporato insieme con il corpo fisico del genitore.
Quando la schiava di suo padre aveva raccontato l'accaduto a Kantorchak, questi si era subito reso conto che il ragazzo possedeva poteri magici e aveva deciso di prenderlo sotto la sua protezione. Kantorchak era uno dei maghi più potenti e prestigiosi dell'Impero, presiedeva il gabinetto dei consiglieri del sovrano e spesso soggiornava nella Capitale, al centro dei territori dell'Ovest oltre il grande oceano. Così aveva deciso di portare con sé Kojevas, per destinarlo un giorno alla propria successione.
Ma fin dall'inizio era stato un problema. Il ragazzo aveva cominciato subito a combinare un sacco di guai: se gli veniva ordinato di evocare un vento, lui fermava ogni soffio d'aria; se gli chiedevano la pioggia, faceva splendere il sole; se doveva guarire una bestia, la sopprimeva pietosamente; se il suo compito era di eliminarla perché infetta, la faceva sopravvivere. Insomma, sempre e soltanto il contrario di quanto gli veniva chiesto. Avevano analizzato il suo cervello, all'Accademia Imperiale, senza però trovarvi nulla di anomalo. Allora avevano deciso di condizionarlo con incantesimi ristrutturanti, ma senza successo. La sua mente pareva impermeabile ad ogni interferenza esterna: Kojevas dimostrava poteri più forti rispetto a quelli di ogni altro apprendista e alla totalità dei maestri. E ciò, unito a quella sua indole inaspettata, lo rendeva oltremodo pericoloso.
Anni e anni di tentativi. Con tutte le erbe mediche che i mastri farmacisti conoscevano, decotti di qualsiasi genere, misture anche mai sperimentate prima. Avevano provato pure con piante e funghi allucinogeni, resine capaci di suscitare sopore o depressione psichica, immersioni nel ghiaccio, nell'acqua bollente, lunghe sedute di punture con le spine di arbusti che provocavano sogni orrendi. Ma niente da fare. La mente di Kojevas era in grado di elaborare immagini e concetti come e perfino meglio di quelle altrui, aveva una prontezza e una capacità di intuizione quasi prodigiose, però funzionava al contrario quando si trattava di eseguire un ordine, un compito o di esaudire un desiderio che non era suo.
Ciò non accadeva però quando aveva preso una decisione da solo. In questo caso riusciva a fare esattamente quanto si era prefissato. Era capace di restare concentrato, di estraniarsi dal mondo per ore, per giorni o anche per mesi di seguito, pur di portare a compimento un progetto che aveva concepito da sé. Non si arrendeva davanti ad alcuna difficoltà.
Così alla fine il verdetto fu obbligato: antisociale. Kojevas non era nelle condizioni di interagire con il resto dell'umanità. E a Kantorchak non rimase che riportarlo nei territori dell'Est dove era nato, alla fattoria di famiglia: più stava lontano dagli altri e meglio era per tutti. Così era stato deciso.
Ormai adulto, quindi, Kojevas si ritrovò nuovamente da solo. Dopo tutti quegli anni la schiava nutrice era morta, e così i contadini e le loro serve, già anziani quando lui era soltanto un bambino. Al ritorno trovò la grande casa e i campi in abbandono, e nelle stalle come negli ovili non c'era più nemmeno una bestia. Non gli rimase che dedicarsi a sistemare la fattoria per farla tornare produttiva: doveva pur sopravvivere. Utilizzò i suoi poteri magici, per questo: dissodò i terreni, li ripulì dalle erbacce, riprese a coltivarli regolando il cambiamento del clima in base alle esigenze delle piante, generò bestiame di numerose specie diverse e selezionò accuratamente le razze per renderlo resistente, costruì attrezzi di nuova concezione e cominciò anche a venderli alle altre fattorie. Tutto era ben accetto, all'Est, se serviva ad alleviare la durezza del lavoro nelle campagne. Non c'era il benessere dell'Occidente, lì.
La sua vita da adulto, tutto sommato, procedette perciò con relativa serenità, benché nell'isolamento quasi assoluto. Kojevas non parlava mai con nessuno, infatti, se non quando si trattava di vendere utensili e di mettersi d'accordo sul prezzo. Evitava accuratamente, fra l'altro, di offrire i propri servigi nel campo della magia, per paura di ricadere nel suo difetto e di essere scacciato anche dalla terra natale. Viveva appartato nella grande casa che aveva arredato al minimo. Solo i libri non riusciva a negarsi: così le stanze erano tutte ingombre di volumi, non solo i capenti scaffali che aveva costruito ma anche le poltrone, i divani, i mobili, i pavimenti.
Trascorreva interamente a leggere il tempo libero dall'attività nella fattoria. E non aveva nemmeno una schiava: il che da un lato lo liberava del disagio di una presenza che avrebbe ritenuto comunque estranea e che in qualche modo lo avrebbe reso guardingo, considerata la sua natura; ma dall'altro gli precludeva ogni possibilità di avere una discendenza. Ma non era tanto questo a farlo riflettere, in ogni caso, quanto la mancanza stessa di un essere umano vicino a sé, di qualcosa che potesse assomigliare alla premura o all'affetto.
Ogni tanto, comunque, lo consolavano le visite che Kantorchak faceva nei propri luoghi d'origine. Quando, ogni due o tre mesi, il grande mago tornava all'Est per curare le sue proprietà, andava in visita da lui per alcuni giorni. Gli voleva bene, in fondo, e solo molto a malincuore aveva deciso di confinarlo nella fattoria, dopo che erano falliti tutti i tentativi di guarirlo dalla sua deviazione mentale. Ma naturalmente si guardava bene dall'ordinargli alcunché o anche solo dal consigliargli un'azione o una linea di condotta: quel ragazzo, anche se oramai cresciuto, era fatto così e a quel punto si poteva soltanto accettarlo. Benché tenendolo accuratamente lontano dagli altri.

Poi sparì anche Kantorchak. Non nel corpo, ma nello spirito. Una mattina, durante uno dei suoi soggiorni nella fattoria, Kojevas non lo trovò come sempre seduto a leggere un libro, né ad aggirarsi per la casa o i campi. Lo cercò allora nella camera in cui abitualmente dormiva. E il mago era proprio lì, disteso supino sul letto, immobile, le mani lungo i fianchi e lo sguardo perso in direzione del soffitto. Pensò che fosse morto, era molto anziano ormai, ma il suo cuore batteva, benché debolmente e con grande lentezza. Cercò quindi di chiamarlo, di scuoterlo, ma senza ottenere risposta. Provò anche un incantesimo di riunificazione del corpo e dell'anima, però anche questo non ebbe esito.
Kantorchak era scomparso, irrimediabilmente. Non come suo padre, di cui gli restava ormai un unico e sempre più sbiadito ricordo. Del suo precettore invece, ne era certo, gli sarebbe rimasta impressa nella mente non solo l'immagine di carne che gli stava davanti in quel momento, ma anche ogni parola, ogni gesto, ogni insegnamento, ogni imprecazione, ogni sospiro di resa quando aveva cercato inutilmente di inculcargli le regole sociali. Per qualche ragione oscura Kantorchak se n'era andato: forse in un altro mondo diverso dal loro, forse in un'altra dimensione, forse semplicemente dentro se stesso. Ma se n'era andato. E lui ancora una volta si ritrovava solo nella grande casa.
Ma non vi restò per molto. Arrivò un'aerocarrozza trainata da demoni alati. Non aveva mai amato quegli esseri innaturali, creati dai maghi con lo scopo di facilitare gli spostamenti da un luogo all'altro dell'immenso Impero. Lui preferiva avere il terreno sotto i piedi, o al limite il mare. Si era sempre fidato, soprattutto, della docilità e della morbida andatura dei vecchi gnu giganti, che sapevano sempre dove andare anche se il conducente non era troppo pratico. Stavolta però era una causa di forza maggiore: lo aveva mandato a chiamare nientemeno che l'imperatore in persona, per un problema della massima urgenza. Era la prima volta nella sua vita: non poteva rifiutare.
Poche ore dopo veniva introdotto nel grande studio di Getulio III, un ometto dallo sguardo acuto che sembrava sparire dietro la sua immensa scrivania di quercia massiccia. L'imperatore andò subito al sodo. Tutti i maghi, dall'Ovest all'Est, dal Sud all'estremo Nord, erano caduti in catalessi, come morti. Non esisteva più un gabinetto reale. L'evento poteva essere attribuito solo a un potentissimo incantesimo. Peraltro erano giunte informazioni, anche se ancora frammentarie, su un'invasione in corso nei territori orientali. Alcuni contadini sostenevano di avere visto truppe dello stato di Huanghe attraversare il confine.
La repubblica femminile. Era stata fondata molto tempo prima, Kojevas non ricordava quanto, da schiave fuggite nelle steppe dell'Est. Si diceva che alcune avevano appreso le arti magiche o che fossero figlie illegittime di maghi, e che si erano servite per riprodursi dei pochi contadini poveri che avevano accettato di seguirle. I maschi venivano uccisi non appena le gravidanze andavano a buon fine. Ma era sempre stato detto che le huanghiane non fossero dotate di poteri incisivi: solo capacità limitate di guarigione e di condizionamento, che i maghi avevano sempre saputo tenere a bada. Evidentemente, con gli anni avevano acquisito più forza. Forse erano riuscite perfino a carpire in qualche modo le formule della dissociazione mentale.
Insomma, non si capiva come mai, gli disse il sovrano, ma in tutto l'Impero era rimasto integro solo lui, Kojevas. E adesso toccava proprio a lui difendere il territorio da quell'invasione. Getulio gli porse la custodia di una grossa spada che teneva poggiata accanto alla sua monumentale poltrona. Era il Gladio di Cristallo, il simbolo del potere ecumenico, l'unico talismano in grado di attuare l'incantesimo di annientamento. Era da secoli che non veniva più usato, ma ora era arrivato il momento di riesumarlo. Lo sguardo dell'imperatore era tagliente proprio come il filo di una spada, mentre gli porgeva quell'arma micidiale. Toccava a lui, Kojevas, gli intimò, non solo eliminare l'esercito d'invasione ma anche spazzare via dalla faccia della terra l'intera genia delle huanghiane. Risvegliando i maghi e ristabilendo così l'ordine naturale.
Kojevas prese la spada e senza una parola risalì sull'aerocarrozza, che nel giro di qualche ora lo riportò nei territori dell'Est sorvolando l'immenso oceano. Giunto nella sua fattoria, si concesse appena il tempo di un bagno caldo e di un pasto frugale e si rimise in viaggio, ancora verso oriente, ma stavolta sul suo vecchio carro trainato da Feuer, lo gnu gigante che era già adulto prima che lui nascesse e che lo aveva sempre portato alla giusta destinazione, qualunque essa fosse.
A una biforcazione del sentiero indirizzò il carro verso le Montagne Desolate, a nord-est del suo territorio natale. Fu un lungo viaggio, durò un giorno e una notte senza alcuna sosta. Il vecchio Feuer lo portò esattamente sulla cima più alta, sopra quale si ergeva una pietra squadrata, della dimensione di un piccolo altare. Kojevas scese dal carro portando con sé la pesante spada, la tirò fuori dalla guaina e la lama risplendette di tutti i colori dell'iride alla luce del sole che stava sorgendo. Il cristallo era purissimo e finemente sfaccettato come un prisma perfetto: lo abbagliò quando ci posò sopra lo sguardo. Ma fu un attimo. Subito dopo lui si voltò verso la pietra e ne individuò sulla superficie superiore una fessura seminascosta da ciuffi di muschio fresco. Era come stava scritto sui libri: aveva la stessa larghezza della lama. Senza esitare, quindi, vi infisse in sol colpo la spada fino all'elsa.
Sulla montagna cadde un'ombra fitta e poi tutto intorno il cielo si oscurò, facendo ricadere i territori settentrionali in una fioca luce pre-aurorale: il sole si era ritornato sotto l'orizzonte. Proprio come stava scritto sui libri: quando la spada tornava nel luogo in cui era nata, dentro la pietra da cui era stata tratta, il tempo riprendeva a scorrere più lento, come nelle epoche antiche quando non esistevano maghi e incantesimi. E l'aria si faceva più frizzante, una leggera brezza sfiorava le grandi praterie, l'acqua dei ruscelli gorgogliava quieta, gli uccellini cinguettavano. La spada pian piano si sarebbe di nuovo fusa con la roccia, fino a sparire in essa. E sarebbe occorsa una magia potentissima per costruirne un'altra. Come era stato, del resto: a farle prendere la sua forma di gladio cristallino avevano contribuito i contemporanei incantesimi di tutti i maghi dell'Impero.
Kojevas rimase ore ed ore davanti alla roccia, senza mangiare né bere, gli occhi fissi sull'elsa che ne sporgeva, mentre lo gnu pascolava placidamente sull'altopiano circostante. Riattaccò Feuer al carro solo quando anche l'ultimo frammento di spada si fu dissolto nella pietra. Allora risalì sul carro e lo guidò ancora una volta verso oriente, in direzione dei pennacchi di fumo che, con il lento avanzare della luce solare, adesso poteva scorgere distintamente sul limitare delle grandi steppe.

Viaggiò per un altro giorno e un'altra notte, cibandosi di piante che trovava lungo il cammino e permettendo ogni tanto allo gnu di fermarsi a rifiatare e a pascolare l'erba tenera della primavera. Poco dopo l'alba arrivò in vista di un grande accampamento difeso da un largo e profondo fossato: un solo ponte di legno permetteva di entrarvi, sorvegliato da un folto gruppo di schiave armate di balestre e lunghe lance.
Si fermò un attimo a riflettere. E decise di pronunciare un incantesimo di mutamento. Pochi secondi dopo aveva assunto l'aspetto femminile, con morbidi capelli mossi dalla brezza e una lunga e pesante tunica di tessuto ruvido, come quelle usate dalla schiava di suo padre. E sempre come lei, nessun ornamento. Staccò quindi Feuer dal carro, dandogli una pacca sulla groppa a mo' di saluto per comunicargli che lo lasciava libero, e si avviò a piedi verso l'ingresso dell'accampamento. Si girò una sola volta in direzione dell'animale. Si accertò che quello avesse imboccato con la sua andatura lenta la strada di casa, guidato dall'aroma dell'erba fresca, e con l'animo sollevato percorse le ultime centinaia di metri che lo separavano dal gruppo di donne sul ponte.
Non era mai stato di molte parole. E quando quelle gli chiesero chi fosse e da dove venisse, rispose solo con il suo vero nome e quello della contrada in cui sorgeva la sua fattoria. Le huanghiane lo guardarono con curiosità. A differenza di lui, indossavano corte giubbe che lasciavano scoperte le braccia e quasi tutte le gambe, fino alle caviglie da cui si dipartivano stivaletti di morbida pelle, e portavano collane, bracciali, orecchini, fermagli, cerchi per i capelli di ogni forma e colore. E anche le loro chiome erano di numerose tinte diverse, acconciate in svariate fogge, e la pelle intorno agli occhi e le labbra mostravano delicate sfumature dall'azzurro al verde, dal giallo all'arancione, dal rosa al rosso cremisi. Gli piaceva guardare quei visi così differenti l'uno dall'altro.
Le guardie dovettero pensare che Kojevas fosse una schiava dell'Impero che chiedeva di unirsi al loro esercito: ad alcune sentì dire che numerose donne, durante la loro spedizione, lo avevano già fatto. E si aspettavano che tante altre avrebbero preso una decisione simile. Così lo fecero entrare e due di loro lo guidarono attraverso il vasto accampamento verso una tenda più grande delle altre, posta proprio al centro della spianata.
Dovevano esserci migliaia e migliaia di donne. Più che un campo, a Kojevas parve una vera città, quasi come la Capitale dell'Impero, lì oltre l'oceano, se non fosse stato che al posto dei palazzi e delle strade lastricate c'erano tende, ricoveri di fortuna e sentieri sterrati. E fango dovunque: nelle vicinanze scorreva un grande fiume e la vegetazione era ormai quasi del tutto scomparsa, perché utilizzata per il nutrimento o calpestata da quella miriade di piedi calzati di stivaletti. Si vedevano anche tante carcasse di animali, pelli stese a seccare insieme con ossa, budella, tendini forse impiegati per costruire utensili o armi, una volta che la carne era stata mangiata; e poi indumenti appena lavati ed esposti al sole su corde tese fra tronchi nudi e secchi. E fuochi in ogni direzione dello sguardo, a perdita d'occhio.
Lo fecero fermare davanti all'ingresso della grande tenda e una huanghiana entrò ad annunciare il suo arrivo. Lui continuò a guardarsi intorno per tutto il tempo. Dovettero scuoterlo, poco dopo, per fargli capire che sarebbe stato ricevuto. Varcata la soglia dietro le due guardie, si trovò davanti a un altro gruppo di donne sedute in cerchio attorno a un focolare. Stavano discutendo animatamente ma smisero non appena lo videro. Anche loro indossavano abiti e ornamenti di ogni foggia e colore. Gesticolavano molto, inoltre, e avevano espressioni infervorate sui volti: Kojevas era riuscito ad afferrare solo poche parole, prima che smettessero per rivolgersi a lui, a proposito di una possibile decisione se riprendere o meno l'avanzata in direzione del capoluogo dell'Est.
I loro sguardi adesso erano tutti rivolti verso nella sua direzione. Non soltanto verso il viso, anche sulla sua corporatura esile, quasi efebica, sui grandi occhi grigioverdi, l'essenziale abbigliamento. Di quest'ultimo sembrarono piuttosto sorprese anche le donne sedute nella tenda. Forse perché le schiave che si presentavano nel campo, per chiedere di unirsi alla loro armata, cercavano sempre di ornare in qualche modo il proprio abbigliamento per uniformarsi già da subito alle usanze huanghiane: Kojevas, infatti, aveva notato anche gioielli molto più rudimentali degli altri al collo e alle orecchie e alle braccia di numerose guerriere, che avevano pure accorciato e guarnito alla meglio con pezze colorate le loro tuniche di tessuto grezzo. Erano nuove arrivate, si vedeva anche da come percorrevano ancora un po' smarrite gli intricati sentieri del campo.
Ma c'era sicuramente dell'altro. Le donne raccolte in cerchio attorno al fuoco lo stavano fissando come in attesa: quasi certamente, pensò, aspettavano che raccontasse loro la storia della sua vita, che rievocasse i maltrattamenti, le umiliazioni, le privazioni a cui venivano sottoposte le schiave nell'Impero. Era vero. E con ogni probabilità si comportavano tutte così, quando mettevano piede per la prima volta nell'accampamento.
Lui invece taceva e le guardava a sua volta. Era stato sempre un tipo di poche parole. Lo attirava soprattutto una donna con neri occhi a mandorla e il fisico massiccio, quasi da uomo, che aveva sentito chiamare Hegelel e lo fissava più insistentemente delle altre. La trovò bellissima. Nelle sue pupille credette di scorgere abissi profondissimi e inesplorati. Fu proprio lei a rivolgergli la parola chiedendogli chi era e da dove veniva. Lui rispose laconicamente, come aveva sempre fatto con tutti: solo nome e contrada. Quella che sedeva accanto a Hegelel gli si rivolse a sua volta, allora, stupita della sua poca voglia di parlare, di raccontare. Era come pensava lui: chi arrivava nel campo cercava di alleggerire con le parole il dolore e l'avvilimento che aveva provato per anni, di dividerli con le nuove sorelle. E subito, poi, chiedeva un'arma per combattere l'imperatore e i maghi che opprimevano buona parte del mondo.
Kojevas rispose, con lo sguardo sempre fisso su Hegelel, che in realtà non si trovava lì per combattere: era invece curioso ("curiosa", disse) di conoscere queste huanghiane che, stando a quanto aveva appreso nel tempo, mettevano a repentaglio la sicurezza e le leggi dell'Impero Ecumenico, uccidendo i maschi una volta che le avessero ingravidate. Un'altra delle donne gli rispose indignata che erano tutte fandonie messe in giro dai maghi, e che si vedeva come la sua mente fosse rimasta condizionata dai loro incantesimi. Urlava, quasi. Ma subito intervenne Hegelel e gli spiegò con pacatezza che nella repubblica di Huanghe non veniva ammazzato mai nessuno. Gli uomini, che lo avevano liberamente scelto, vivevano lì in perfetta pace, dedicandosi alla casa, ai campi da coltivare, all'artigianato e alla cura dei figli maschi. Che da loro, inoltre, non esisteva alcun tipo di schiavitù: ognuno guadagnava il giusto dal suo lavoro. Compiti delle donne erano invece la difesa armata, il commercio, l'amministrazione locale, il governo dello stato, la custodia delle figlie femmine.
Kojevas ascoltò quelle parole con attenzione, soppesandole ad una ad una. Ai suoi occhi il loro significato diventava più chiaro non appena rivolgeva il viso verso Hegelel: era come se lei gli parlasse soprattutto attraverso lo sguardo, i gesti, i movimenti del volto. Le profonde pupille perennemente fisse sulle sue.
Ma non era la sola, a un certo punto. Gli occhi di tutte le donne nella tenda, si accorse, tranne quelli delle due guardie, da qualche minuto si erano posati sulla sua persona come costruendovi intorno un'intricata rete di sguardi. Qualcosa le insospettiva, intuì: stavano cercando di frugare nella sua mente ricorrendo a un muto incantesimo di cooperazione al condizionamento. Ma i suoi pensieri erano sempre stati impermeabili ad ogni forma di intrusione esterna. La rete restò fuori di lui, quindi, respinta da una barriera che difficilmente un normale campo di forza psichica avrebbe potuto superare.
Le donne desistettero, dopo un po', e si guardarono l'un l'altra in viso. Erano visibilmente indecise sul da farsi. Nell'aria cominciò ad aleggiare una specie di tensione palpabile. Fu Hegelel a interromperla. Gli rivolse di nuovo la parola, ma stavolta in maniera più brusca, benché con un'aria vagamente sorniona. Gli disse che non aveva dimostrato di essere una vera donna, la sua mente era ancora schiava dell'Impero, che aveva molto da imparare per liberarsi dalla sudditanza, che per prima cosa avrebbe dovuto prendere coscienza di sé, della propria esistenza fino a quel momento, dei propri desideri, delle inclinazioni, delle aspirazioni. E anche delle proprie gioie e dei propri dolori. Assaporarli fino in fondo e soffrirne, se era il caso. Questo significava essere davvero donna. Quindi si aprì in un sorriso indecifrabile: era essenziale che riconoscesse la sua parte femminile, aggiunse. Doveva. Sottolineando quest'ultima parola, mentre si alzava in piedi di scatto, con un'acuta vibrazione della voce.
Anche le altre donne si sollevarono all'improvviso e tutti i loro sguardi andarono a convergere di nuovo sul viso di Kojevas. Alcuni sorpresi, altri sbalorditi, altri ancora con incredula curiosità. Poi si fissarono nuovamente l'un l'altra, mentre lui finiva di pronunciare sottovoce la formula di mutamento e riacquistava lentamente il proprio aspetto maschile, con l'abituale e ormai lisa giubba da lavoro, le brache strette alle caviglie, i duri scarponi di pelle appena conciata. La sua tenuta da lavoro nei campi: non aveva mai portato i completi di morbida seta nera, casacca lunga con larghi pantaloni, insieme con babbucce di caldo feltro ai piedi, tipici dell'abbigliamento dei maghi.
Kojevas aveva sempre fatto il contrario di ciò che gli veniva ordinato, chiesto o anche solo consigliato. Era sempre stato questo il suo difetto. Anche in quel momento. Trascorsero altri interminabili secondi di teso silenzio, nella tenda. Quindi le huanghiane uscirono, lasciandolo solo con le due guardie, le lunghe lance puntate adesso contro il suo petto.

Le donne amavano passeggiare all'aperto, quando dovevano prendere una decisione. Specie se il dilemma si presentava delicato o perfino grave, come in quest'occasione. Avevano bisogno di tempo e di calma. Inoltre, ciò permetteva loro di discutere in pubblico, senza segreti, senza doversi assumere da sole il peso della scelta, e avendo anche la possibilità di ascoltare il parere di qualsiasi sorella avesse voluto intervenire, dire la sua, fornire un suggerimento. In effetti era capitato già in diverse occasioni che qualcuna si introducesse nel discorso all'ultimo momento, avanzando ipotesi interessanti o proponendo soluzioni vantaggiose. In qualche caso perfino decisive.
Alcune affermarono subito che avevano paura di Kojevas, che era ormai chiaro come si trattasse di un mago che per qualche motivo si era infiltrato fra di loro, forse con il proposito di sterminarle. Aveva pure rallentato il tempo la mattina precedente, se n'erano accorte tutte. Poteva essere stato solo lui, visto che tutti gli altri erano stati neutralizzati. Bisognava quindi annientarlo in fretta, rafforzando l'incantesimo di dissociazione che aveva avuto successo con il resto dei maghi, oppure avvelenandolo con le erbe custodite nella medicheria. Al limite, aggiunse una, si poteva anche trafiggerlo con le lance, se le sostanze letali si fossero rivelate inefficaci. Quell'uomo era potente, un pericolo mortale per il popolo di Huanghe: bisognava fare subito qualcosa.
Annuirono in molte. Ma non tutte. Hegelel obiettò a un certo punto che se avesse voluto mettere in pratica un incantesimo distruttivo, così potente come sembrava, Kojevas lo avrebbe già fatto. No, ci doveva essere dell'altro che lo aveva portato fin lì, osservò. Prima di tutto, forse, avrebbero dovuto provare a scoprirlo. Forse non era il semplice annientamento delle donne che perseguiva: il suo disegno poteva anche essere molto più complesso e sottile, qualche forma sconosciuta di condizionamento che si basava sulla persuasione, più che sulla costrizione o sulla violenza. Gli uomini a volte sapevano essere obliqui e contorti quanto e più del sesso femminile, aggiunse con un sorriso.
Ci fu un'interminabile discussione, in cui le due posizioni si fronteggiarono quasi muro contro muro, resa ancora più caotica da numerose considerazioni intermedie, interrogativi, affermazioni ancora più nette o ripensamenti. Fino a quando una delle guerriere più giovani e arrivata di recente da una fattoria della parte centrale dell'Impero, appena avvicinatasi al capannello, azzardò l'ipotesi che il metodo più semplice per capirne le reali intenzioni poteva consistere nel mettere Kojevas alla prova. In fondo, loro erano migliaia e lui solo uno: se si fosse rivelato pericoloso avrebbe potuto anche annientare qualcuna di loro, ma non si sarebbe di certo salvato, avrebbero trovato il modo di eliminarlo.
Sul gruppo tornò a calare il silenzio. Ma durò poco. Dopo qualche mormorio sommesso, le donne cominciarono a scambiarsi cenni d'assenso e alla fine tutte convennero che la proposta della giovane guerriera si era rivelata la più ragionevole e anche la più facilmente praticabile. Tornarono insieme verso la tenda, quindi. Le maghe prima di entrare spalancarono il telo d'ingresso, in modo che l'intero ambiente fosse visibile dall'esterno, mentre una nutrita schiera di combattenti si fermò appena fuori dalla soglia.
Kojevas non aveva mosso un muscolo. Sempre sotto la minaccia delle lance, era rimasto per tutto il tempo in piedi, lo sguardo assorto sul focolare che gli scoppiettava davanti. Aveva pensato a Kantorchak, alla fattoria e ai campi, agli utensili che si riprometteva di costruire, si era pure chiesto se Feuer fosse riuscito a raggiungere la sua confortevole stalla accanto alla casa. Ma la sua mente, soprattutto, era tornata spesso sulla schiava di suo padre che lo aveva cresciuto e accudito: era da anni che non ne rammentava l'aspetto, le movenze frettolose, la voce sempre come incerta e sussurrante. Erano anni, sì. Eppure quell'immagine premeva adesso con insistenza per tornare a campeggiare nitida nella memoria.
Le donne gli si disposero intorno e rivolsero lo sguardo verso Hegelel. Era lei che aveva mosso i primi dubbi sull'eliminazione del mago, quindi toccava a lei, come investita da un tacito incarico, metterne alla prova le reali intenzioni. Lei capì e gli si fece vicino. Lo fissò per qualche secondo dritto negli occhi e gli chiese, con un tono un po' di esortazione e un po' di sfida, di portare a termine il compito che si era fissato. Insomma, se il suo scopo era distruggere il popolo di Huanghe, come non solo lei sospettava, che ci provasse pure: tutte le donne erano pronte a battersi.
Kojevas guardò le labbra carnose che avevano appena pronunciato quelle parole, il viso dagli occhi a mandorla, la corporatura massiccia di Hegelel. La trovò di nuovo bellissima. Anche più di prima, pensò. E istintivamente cominciò a recitare la formula di un altro e complesso incantesimo di mutamento. Fra le huanghiane cominciò a diffondersi un brusio insistente.
Potevano vederlo accadere con i loro occhi. Tutto intorno, nel campo, i fangosi sentieri appena tracciati si trasformarono in strade ben lastricate e pulite, i rigagnoli fetidi si prosciugarono, i terreni nudi lasciarono il posto a immense coltivazioni di cereali, verdure, ortaggi, pascoli brulicanti di greggi e mandrie, giardini fioriti. Sul greto del fiume apparvero barche, reti, varie altre attrezzature per la pesca. L'acqua si incanalò in condutture fino a miriadi di fontane zampillanti. Le fosse usate come rudimentali dispense diventarono capannoni di legno, freschi e asciutti. Le tende si dissolsero per tramutarsi in costruzioni di solida pietra circondate da prati verdi e profumati, divise in stanze comode e spaziose, complete di mobili e letti, con balconi e finestre che incorniciavano la luce del sole. E comparvero anche carri, scuole per i bambini, un grande e attrezzato ospedale. L'accampamento in pochi minuti era si era tramutato in una vera e propria città, una metropoli da fare invidia persino alla capitale dell'Impero.
Kojevas si accasciò a terra. Lo sforzo di un incantesimo così potente lo aveva lasciato senza forze. Non ne aveva mai compiuti di così grandi in una sola volta: la sua fattoria era stata trasformata a poco a poco nel giro di molti mesi. Dovette chiudere gli occhi e lasciarsi crollare disteso sul pavimento della grande casa: anche la tenda della maghe aveva cambiato aspetto, infatti, per diventare un basso e largo edificio dalle immense porte spalancate. Riaprì per un attimo le palpebre quando si accorse che un paio di braccia forti lo stavano sorreggendo, accompagnando il suo corpo a distendersi comodamente su un soffice divano.
Era piacevole la stretta delle mani che gli sostenevano le spalle. Ma non era solo quello, capì dopo qualche attimo. Sentì anche una mente che bussava con discrezione sulla soglia dei suoi pensieri, interrogando il suo passato, il suo presente, il suo intimo. Permise a quella mente e entrare e di diffondersi dentro di sé, mostrandole ogni sentiero e tutti gli anfratti più nascosti. Parlò a quella mente e lasciò che lei gli parlasse. Parole gentili, frasi dolci. Hegelel. Anche il suo nome gli suonava dolce. Riaprì gli occhi allora e cercò le sue mani. Le prese e le strinse. Erano calde e forti, delicate allo stesso tempo. Pronunciò ancora una volta il nome di Hegelel e capì che ormai non aveva più segreti per lei. E che lei aveva deciso di affidare le proprie mani alle sue.
Dopo qualche minuto riuscì ad alzarsi, con le dita di lei sempre strette fra le sue e gli occhi di tutte le donne fissi su entrambi. Si avviarono insieme verso la porta e uscirono dalla bassa costruzione dirigendosi verso un altro piccolo edificio, circondato da un giardino in cui crescevano fiori e piantine di aromi. Un raggio caldo di sole ne illuminava l'ingresso. Vi si avvicinarono mano nella mano. E ancora sulla strada, lei gli stava già sussurrando all'orecchio tutti i propri più oscuri segreti.

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