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Tuo nonno
solo per un istante
e mi ricordo
TUO NONNO
Ricordo, e allora mi sento così giovane, con dolcezza un vecchio signore seduto su una seggiolina di legno accanto a casa sua.
Una piccola sedia bassa, di castagno, con le stecche dello schienale lavorate a fiori regolari. Vorrei averla oggi, e tenerla in un angolo, senza niente. Nessuno ci si metterebbe a sedere, forse la gatta ogni tanto. Potrei posarci lo sguardo di sfuggita e prendere dal suo legno caldo il ricordo quotidiano di tuo nonno.
Fa caldo, è agosto ma l'aria è fine di paese di montagna, i colori sono netti e non c'è il tremolio del calore che ci ha seguito nel viaggio fin qui. Lui siede curvo e in silenzio, sogguarda la piccola vita che passa nella strada di pietra piegato sul bastone, gli occhi azzurri dalla cornea un po' gialla, le scarpe di panno, gli devono far male quei vecchi piedi della malattia un tempo dei signori.
Intorno volano aspre le voci delle sue donne, le donne che hanno segnato la sua vita con impervietà maggiore delle pietre della montagna, le donne che lo piazzano al mattino davanti al portone di casa e lo ritirano nell'ora della sera, come le visciole sul terrazzo sciroppano al sole.
E' lì e non lo è, un statua che respira, che gli manca solo la parola. Non gli mancano raschi nei polmoni e nella gola, ma neppure questo gli è concesso, la figlia lo redarguisce quando in casa risuonano i suoi suoni, la sua presenza. L'ho salutato all'arrivo, gli ho sorriso perché mi è stato subito simpatico, ma non so nemmeno se mi ha visto o ha capito chi sono, se gliene importa qualcosa.
Passano i giorni e gli passiamo noi davanti quando ce ne andiamo in giro a trovare il modo di tormentarci e non capirci sotto i castagni o nella piazza, in quelle strade di montagna così silenziose e paurose, sconosciute per me.
L'imbarazzo mi paralizza quando la figlia lo rimprovera come un cane fastidioso, mi sento in colpa io per lei, per il mio compagno che non la prende a schiaffi per questo, e anche per me che taccio. Per tutti, che si muovono come se lui non ci fosse.
Eppure c'è, sta lì al sole e mangia, trascina il corpo su per i due gradini della cucina, guarda ma solo entro i pochi gradi della visuale per lui possibile, non gira la testa non alza il capo.
E un giorno siamo seduti accanto, lui sulla seggiola bassa e io su quei due gradini, gli altri per una volta sono lontani e non ci sentiranno e così parliamo. Ricordo una lunga storia, immagini fortissime, una sensazione di realtà incredibile in questo momento della mia vita, in cui vivo sempre con la testa da un'altra parte e non qui.
Siamo stati lì uno per l'altra, mi ha raccontato di quando era giovane. Non mi rattristava, era bello, si ha solo l'età che si ha, non si è giovani né vecchi, e con i muli andava a lavorare sulla montagna e ci volevano ore e ore ad arrivarci. Era dura, la montagna è un'amante difficile e forte, e leale.
Poi la partenza per una città con un nome magico che sembrava gli fiorisse sulle vecchie labbra in un sorriso che andava oltre i fumi pesanti da lui stesso evocati, rumore, nostalgia: Detroit. Le macchine, tante tante Ford, e io incredula avevo di sicuro la bocca socchiusa a gustare la sua esperienza e il suo viaggio in un luogo così lontano, distante dalla montagna e i semprevivi come dal futuro pieno di donne e bambini, dal ritorno in un paese di dieci case con un freddo da intirizzire le ossa tutto l'anno. Detroit, come dire Disneyland, e il suo stupore infantile ancora vivo nel racconto, il respiro di un altro mondo.
Io volevo sapere ancora, ancora di questo nonno non mio che comunque ritrovavo dopo tutta la vita, stargli accanto altro tempo senza impellenze banali. Lasciateci in pace, noi due qui oggi.
E' stato solo quella volta, non è successo più ed io no l'ho più visto, e poi è morto, e comunque che ne so. Dal quadro ripreso dalla foto che gli feci mi sorride senza smettere mai, guardandomi con quei suoi occhi che a volte si fissavano rivolti ad immagini confuse, voci perdute.
Anch’io conservo della sua storia, gelosamente, alcuni ricordi senza contesto: dolci rotondi col miele, gli zoccoli scintillanti di un cavallo, una ruota panoramica ferma contro l’azzurro.
Ogni tanto li tiro fuori come vetri luccicanti, e li alzo verso il sole.
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