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Forum: Libri

8 novembre 2006

FOTO DAL FUTURO

Questo volume nasce dalla storia del progetto omonimo realizzatosi con studenti provenienti da quattro diversi istituti superiori di Arezzo e provincia, la cui finalità principale era quella di “rafforzare le capacità progettuali dei ragazzi/e costruendole assieme a loro, partendo da un’investigazione identitaria e muovendosi in direzione di un’immagine del futuro, aiutando gli studenti a svilupparla, costruendo un progetto su di sé.”
Autore: federico batini

Il progetto intendeva dunque farli lavorare “sulla creazione di un’immagine, su un’idea, una fotografia che fosse un incrocio tra l’immaginazione e il progetto, che si muovesse tra decisione e speranza,” ad analizzare la propria storia personale e a tracciare il proprio futuro e le proprie aspettative.
Il percorso di orientamento era diviso in due fasi: una specifica e una comune a tutti gli istituti, utilizzando sia strategie orientative individuali che di gruppo.
L’incontro stimolante con la lettura e con tre giovani scrittori (Ugo Cornia, Paolo Nori, Giampiero Rigosi) ha elevato la narrazione a strumento di consapevolezza e di crescita per gli adolescenti, uno strumento per imparare ad apprendere, per capire il passato e avere nuovi occhi per guardare il presente, e poter così progettare per il futuro.
Nella società contemporanea sembra apparentemente superfluo parlare di stimolo o di scelta, in virtù del fatto che siamo bombardati di messaggi, di informazioni, di comunicazioni e stimoli anche quando non ce ne rendiamo pienamente conto.
In realtà è proprio questo il motivo per cui è così importante recuperare l’idea della creatività e della narrazione per inserirla in un contesto come quello dell’orientamento e della formazione.
Questa “tempesta mediatica” crea un senso di smarrimento, di ingorgo decisionale: sballottati dagli eventi siamo in balia dell’incertezza e viviamo come rinunce tutte le opportunità, tutte le possibilità alternative che siamo costretti a lasciare indietro, e che possono, in parte per questo, diventare veri e propri bisogni.
Questo contribuisce a creare un grande bisogno di orientamento: lo smarrimento, senza un forte equilibrio interno, induce a processi di spersonalizzazione, arrivando quindi ad investire la nostra Identità.
Non è possibile non fare delle scelte. Sartre diceva che “l’uomo è condannato ad essere libero”: da quando viene buttato nel mondo è responsabile di quello che fa, non abbiamo chiesto a nessuno di crearci individui liberi, eppure lo siamo, e la nostra libertà fa si che, per tutta la vita, siamo condannati a scegliere, e così è ancora più importante quale scelta facciamo, poiché siamo totalmente responsabili delle nostre azioni.
Per Moreno l’essere umano soffre fondamentalmente del non poter realizzare tutti i ruoli che porta in sé. La sua grandezza, che consiste nel potere sempre di più di quanto non faccia, è allo stesso tempo la sua miseria: l’angoscia che gli deriva dalla pressione esercitata da tutti questi ruoli inutilizzati e che domandano di esistere.
Scrive Pierre Bour: “malgrado questo estendersi a macchia d’olio, in orizzontale, delle possibilità di comunicazione esterna che collocano ogni punto del globo in una rete più o meno fitta, più o meno intricata, l’uomo moderno si trova, paradossalmente, davanti a difficoltà capitali di comunicazione interna, in verticale.” Immersi in questa cultura dell’immagine, in questo soffocamento e immobilità di corpo e mente, visto che lo spazio per la fantasia è sempre più ridotto o comunque canalizzato o pre-ordinato, l’uomo contemporaneo ha bisogno di avvicinare prima di tutto se stesso dall’interno, di trovare o ri-trovare le sue proprie modalità attraverso una loro sperimentazione.
L’orientamento narrativo si colloca in questo panorama con una missione di empowerment più che di semplice supporto: la sua finalità principale infatti è quella di aiutare a costruire delle competenze di scelta, delle competenze dunque autorientative, agendo attivamente sulla restituzione di senso e di significato del proprio percorso, che implica, allo stesso tempo, un’attività di creazione e di formazione di un proprio senso personale, di una propria identità.
Ogni soggetto dovrebbe riacquistare la sua propria “immagine”; Rousseau nell’ “Emilio” scriveva: “sono fatto come nessun altro di quelli che ho visto, oso credere di essere fatto come nessun altro di quelli che esistono.”
L’identità dell’Io può essere definita come un processo intrapsichico che si compie in una matrice relazionale e vi si possono distinguere tre aspetti fondamentali:

1. un’identità personale: gli aspetti intrapsichici dell’identità dell’Io si riferiscono ad un’adeguata concezione di Sé come persona indipendente, efficiente e positiva.

2. Un’identità filosofica: la formazione dell’ identità contiene anche la nozione implicita di autorealizzazione, la capacità individuale di diventare pienamente la persona che si è in grado di essere. La formazione dell’identità aiuta a definire il significato della propria esistenza, creando nuovi valori e orientamenti. La fedeltà può essere l’adesione ad un punto di vista ideologico, ma può anche riferirsi alla valutazione di se stessi, con la sicurezza di sapere chi si è e la coerenza con questa continuità. L’individuo sviluppa un senso di sé come oggetto costante, che gli permette di essere meno dipendente da un’altra persona. Per questo gli adulti dovrebbero offrire ideologie valide e positive per l’identificazione.

3. Un’identità di gruppo: il processo di formazione dell’identità è anche e soprattutto interpersonale. L’adolescenza è, inoltre, caratterizzata dal mandato psico-sociale a formare relazioni significative e positive con i pari. La crescita e lo sviluppo dell’individuo sono direttamente correlati con l’interazione con Altri significativi durante il ciclo di vita.

Si può quindi affermare che il pericolo psicologico dello stadio adolescenziale sia proprio quello della confusione di identità, la crisi negativa della “realizzazione di se stessi” che spinge a cercare di ritrovare un’immagine soddisfacente intorno alla quale ricostruire appunto il proprio senso di identità.
L’identità personale è ciò che ci distingue dall’altro, che ci permette di percepirci come unici, anche attraverso lo scorrere del tempo (essa si rivela infatti attraverso un percorso di crescita, di maturazione); “costruire una visione del futuro,” come scrive Zaccaria, “ha poi esiti positivi non solamente sulla costruzione dell’identità personale, ma anche sulla costruzione di un modello migliore di società.”
Aprirsi ad una storia diversa, e quindi ad uno sguardo diverso, non è poi cosa neutrale: la posta in gioco è la messa in discussione del proprio modo di vedere.
Nella possibilità di altri sguardi, di altre rappresentazioni, di altri valori, di un’altra cultura, è in gioco anche la possibilità dei soggetti stessi di mettersi in scena, di crearsi come tali, come soggetti di quegli sguardi, e di attribuire alla narrazione il ruolo fondamentale di produttrice di idee e di pensiero.
L’autobiografia diventa lo strumento per una crescita emotiva e psicologica: “una necessità che ad un certo punto le persone sentono, una esigenza di dialogo e di ricostruzione che diventa terapeutica […] è come se attraverso il racconto della propria storia si tirasse una serie di fili di collegamento con frammenti spezzati, in modo da rendere accordato quello che non lo è.”
Immersi come siamo in un contesto di incertezza, mobilità, cambiamenti repentini, progettare il futuro come un percorso dotato di senso e significato, risulta essere un processo sempre più difficile e angosciante; per non esserne travolti c’è bisogno prima di tutto di ritrovare una certa stabilità e forza interiore.
Il significato crea se stesso attraverso un significante: è soltanto l’uomo ad avere la capacità (o almeno la possibilità di acquisirla) di dare un senso alla propria storia. L’uomo, asseriva Schopenhauer, è un animale metafisico che, a differenza degli altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e ad interrogarsi sull’essenza ultima della vita: immersi nella visione della nostra vita come nella rêverie bachelardiana, percepiamo lo strato profondo del nostro percorso, del nostro libro. Ma ciò che narriamo non è la realtà, bensì la propria interpretazione della realtà.
La narratività è una delle grandi forme simboliche di tutta la nostra civiltà: l’atto di narrazione riproduce una nostra personale rappresentazione poiché le cose che vediamo sono le stesse che abbiamo dentro di noi.
Genette, che si è interessato al rapporto tra il racconto e gli avvenimenti che esso espone, puntava la sua analisi proprio sul modo del racconto: un racconto può dare più o meno informazioni sulla storia che narra, ma soprattutto può esporla da un certo punto di vista, può dirci cosa il personaggio sa e cosa vede.
Utilizzare la narrazione consente di “ristrutturare capacità metacognitive in ordine al proprio racconto su di sé, in ordine alle proprie euristiche narrative, in ordine alla propria biografia, senza dubbio, in ordine alle proprie scelte, anche declinate al futuro, in ordine all’empatia (le storie degli altri, la narrazione degli altri sul mondo, sulle cose, sui significati da attribuire agli eventi).”
Gettiamo così uno sguardo diverso verso il mondo, uno sguardo capace di richiamarlo a nuova vita, capace soprattutto di rivelarci ciò che normalmente non vediamo, oltre ai meccanismi stessi insiti in questo processo: l’autoriflessività della narrazione ci proietta verso un piano “trascendentale” in cui lo stesso nostro testo prodotto si interroga sul proprio fondamento e sulla sua natura.
Colpisce del metodo narrativo questa sua natura “metaconoscitiva”: si tratta infatti di un metodo riflessivo e critico poiché invita ad una lettura del senso da un punto di vista “superiore”, invita a proporre un’idea e a metterla in discussione nel momento stesso in cui viene presentata. E’ come uno sguardo che interroga se stesso e che, giungendo sino al punto in cui si contempla nell’atto stesso del guardare, raddoppia le misure, duplica la materia: la rappresentazione si sovrappone ad un’altra rappresentazione; l’immagine, come se fosse di fronte ad uno specchio, si sdoppia in “cosa vista” e “atto dal vedere”.
La realtà non è unica e oggettivamente stabilita, ma è strettamente legata al modo in cui gli individui organizzano il suo significato.
Diventa fondamentale allora un lavoro di ricostruzione semeiotica tra significante e significato, che è possibile con un lavoro effettuato proprio sulle, e attraverso, le rappresentazioni.
La rappresentazione è infatti alla base dello sviluppo simbolico; rappresentazione intesa nel senso più ampio del termine, come riproduzione immaginale di una realtà che è sia esterna che interna.
La realtà è sempre interpretata, anche se sembra vera, e riflettere oggi, in un’epoca costruita sull’immagine, sul concetto di “rappresentazione”, di “visione”, acquista la valenza e la forza di un discorso critico su ciò che immagazziniamo e su come lo immagazziniamo attraverso lo sguardo, portando di conseguenza ad interrogarsi sui meccanismi della visione, sul senso dell’apparenza, delle immagini e della realtà che riproducono, e a permettere quindi di averne una forma di coscienza e di consapevolezza.
Il soggetto diventa soggetto attivo nel momento in cui riesce a raccontare e a raccontarsi, non soltanto attraverso il dono della Parola, ma utilizzando la totalità dei mezzi a disposizione come variegate possibilità di cambiamento e trasformazione continua della propria vita.
In “Sei personaggi in cerca d’autore” Pirandello diceva che la vita deve ubbidire a due necessità contraddittorie: fissarsi e modificarsi; l’alternanza può essere contraddizione, ma anche crescita, evoluzione. Ogni fase critica dell’esistenza è tanto critica quanto, in realtà, è necessaria.
Il concetto di “evoluzione” ci porta, in modo naturale e necessario, ad entrare in una dimensione temporale ineludibile (dal momento che è sul tempo che costruiamo la realtà nella quale viviamo ogni giorno!).
Non solo Zaccaria dedica un capitolo del volume ad una carrellata storica sulla percezione del futuro da parte dei giovani di diverse civiltà, dall’antico oriente fino agli anni novanta, ma soprattutto va notato come “Foto dal futuro è una felice espressione che fa riflettere su un movimento del pensiero nel tempo. Narrare se stessi è un processo di riflessione, una critica storica piuttosto che una cronaca. E’ un movimento fra tre tempi (passato, presente, futuro) che li contiene tutti e tre.”
La fotografia è una nuova forma di allucinazione che riempie di forza la vista: falsa a livello di percezione, vera a livello del tempo.
Da una parte il senso delle narrazioni personali (il passato), dall’altra quello delle aspettative e delle speranze (il futuro), riprodotti però all’infinito in una forma presente.
È nel quotidiano infatti che l’individuo ha bisogno di sentirsi libero, nell’Istante che non è più tempo che scorre e inquieta, ma è momento creativo, spontaneo, non indotto ma inducente.
La nostra storia, cioè la storia di ogni singolo individuo, è ciò che nello stesso tempo sta all’origine e crea significato ad un percorso: è l’elemento circolare, l’ “eterno ritorno” che contemporaneamente si è scritto e si scriverà, nella condensazione di un tempo che ormai è passato ma non è ancora futuro e che, se è solo presente, non può che essere un perpetuo movimento.

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