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Il mondo piccolo di Maria Ausilia Piroddi. Recensione di Raffaele Sari
“Quando il mondo si fa piccolo” di Maria Ausilia Piroddi. Una nuova pubblicazione dell’editrice messinese doraMarkus (doraMarkus.editrice@tiscali.it)
di Raffaele Sari
“Quando il mondo si fa piccolo” (edizioni Doramarkus, Sassari 2006) è un libro autobiografico firmato da Maria Ausilia Piroddi, l’ex segretaria della Cgil Ogliastra condannata all’ergastolo perché ritenuta mandante di due omicidi e, di recente, assolta in primo grado dal reato di associazione mafiosa.
Si tratta di un libro di resistenza, resistenza umana e femminile; chi scrive è una donna, moglie e madre. E da questo non bisogna prescindere, per non fare l’errore di privare della dimensione umana la cronaca, le drammatiche vicende giudiziarie e la testimonianza qui narrate.
Da qui bisogna partire. La lettura è da subito avvincente, coinvolgente come la confessione più intima.
Nel piccolo mondo carcerario si consuma tragicamente un universo di storie, di colpe vere e presunte, di occasioni perdute, di progetti incompiuti, di appuntamenti mancati, di brusche interruzioni. Qui è precipitata una donna, una bellissima donna, forse colpevole anche di questo, rapita al suo mondo e nascosta in un labirinto di irrazionalità, di attesa e dolore. Da qui giunge la sua memoria, un angosciante mescolarsi di immagini, fra passato e presente, frantumate e sparse nel tempo sospeso della carcerazione, ora lucida cronaca, ora febbrili pensieri a ritroso, al ritmo ossessivo dell’ansia di recuperare la vita, gli affetti, la stima dei propri cari, e non ultima la propria autostima. Quella donna scrive e descrive il piccolo mondo carcerario dove soffoca il suo grande mondo interiore; lo fa con una prosa scarna che non concede nulla alla retorica, che non versa lacrime, inaridita e sopraffatta com’è dal dolore e dallo stupore che le è esploso dentro alle 5 del mattino di quel lunedì 11 gennaio, quando la polizia le invase la vita, il suo piccolo mondo domestico, le sue stanze, i suoi cassetti, i suoi ultimi pensieri liberi.
Le carceri, fatte di luoghi, di volti, di voci e lamenti, di strazio, sono ciò che in terra rendono, anche ai non credenti, l’anticipazione dei gironi dell’inferno, dove uno Stato luciferino infligge alle anime dannate dal caso o dalla colpa, dall’errore o dalla società, la sua peggior pena: la deprivazione di quanto aveva d’umano chi vi entra. Maria Ausilia Piroddi era una donna con una famiglia, un lavoro, delle amicizie, della stima, degli interessi, un carattere forte ed orgoglioso; fino a che la carcerazione l’ha privata di tutto questo. Giorno dopo giorno, mentre sprofondava nel fango delle accuse che le venivano rivolte, mentre cercava disperatamente una difesa, una reazione, un moto di ribellione, il suo mondo perdeva colori, affetti, forza, riducendosi, restringendosi, deprivato di tutto o di molto, fino a diventare piccolo, piccolo, stretto ed angusto, come la cella di una delle carceri dov’è stata rinchiusa. Confessa d’aver persino temuto per l’affetto e la stima dei suoi cari, d’aver visto sgretolarsi amicizie che credeva granitiche, d’aver perso poi tutto il resto, fino a perdere, in un alba che poteva essere l’ultima, la voglia di vivere, di resistere.
Ora resiste. E per resistere scrive, racconta, di sé e di quel buco nero, di quel mondo piccolo dov’è precipitata. Non importa quale condanna gli sia stata inflitta, né da quali accuse ha saputo difendersi, la sua vicenda è rinchiusa fra le pagine di questo libro, con tutte le contraddizioni, le ombre e le domande irrisolte che l’hanno scandita, spesso sotto i riflettori dei mass-media, alla morbosa curiosità dell’opinione pubblica, poi d’improvviso inghiottita dall’oblio, dalle invalicabili mura delle carceri, che trasformano urla in silenzio. Un libro sobrio, ma forte, forte e preciso, come un pugno allo stomaco. Scrivo questa recensione mentre carezzo la nera e ruvida copertina del libro, mentre guardo le immagini della autrice che presenta il suo libro a Nuoro. Scruto il suo viso, il suo dolore, il sudore che le imperla il viso, la malattia che deperisce i lineamenti di quella femminilità ogliastrina che le brillava negli occhi, nei capelli, nelle espressioni del viso; cosa ne resta?
“Il carcere – scrive la Piroddi – imprigiona il corpo ma non l’anima…il carcere non è riuscito a distruggermi”.
Raffaele Sari
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