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Forum: Libri

23 febbraio 2007

L'ASTRONAVE, IL MANICOMIO E IL LAGER

"L'ospedale dei dannati", di Stanislaw Lem
Autore: Mimmo Gerratana

Il polacco Stanislaw Lem (nato nel 1921, morto quasi un anno fa, nel marzo del 2006) non è stato soltanto uno dei più grandi scrittori non americani (o non anglosassoni) di fantascienza. Anzi, egli stesso si era sempre dimostrato insofferente a vedersi catalogato in un genere preciso. Eppure si tratta dell'autore del celeberrimo romanzo "Solaris" (1961), basato sullo scioccante incontro fra l'equipaggio di un'astronave terrestre e un'intelligenza che occupa, sotto forma di oceano, l'intero pianeta del titolo: un'intelligenza talmente estranea alla nostra, talmente aliena, da sfuggire a qualsiasi tentativo di analisi, di interpretazione o anche solo di stabilire un qualsiasi tipo di contatto; ma in grado allo stesso tempo di dare corpo reale, letteralmente fisico, ai ricordi e agli incubi umani. Così famoso, letto e tradotto, questo libro, da avere avuto ben due trasposizioni cinematografiche: la prima nel 1972 per la regia del russo Andrej Tarkovskij, la seconda nel 2002 ad opera della coppia statunitense Steven Soderbergh-George Clooney.
Ma non solo. Lem aveva al suo attivo aveva altre opere che hanno scavato (sfidando il più delle volte l'ideologia ufficiale e la censura del passato regime comunista-staliniano) nel sempre controverso rapporto fra la scienza, le sue applicazioni tecniche e l'insondabilità dell'animo umano: basti citare "La nube di Magellano" (1955), "Pianeta Eden" (1959), "L'Invincibile" (1964), "Cyberiade" (1965), "Memorie di un viaggiatore spaziale" (1971), "Il congresso di futurologia" (1973), "Il pianeta del silenzio" (1986), tutte tradotte in una trentina di lingue. Storie in cui l'autore polacco, peraltro, metteva a convivere la chiave ironica (a tratti perfino comica, in ciò facendo anche da maestro a un altro grande autore scomparso prematuramente, l'inglese Douglas Adams a cui si deve il ciclo di romanzi che prende il via dall'esilarante "Guida galattica per autostoppisti", pure questo diventato recentemente un film) con profonde riflessioni filosofiche; e ciò in un genere letterario che per gran parte ha sempre sofferto di una certa e accentuata seriosità, oltre che di una spesso ingenua fiducia nel "progresso", quando non di vere e proprie carenze nella caratterizzazione di vicende e personaggi. Con notevoli eccezioni, naturalmente: Theodore Sturgeon, Clifford Simack, Philip Josè Farmer, Philip K. Dick, Ursula K. LeGuin, Ray Bradbury, Robert Silverberg, Norman Spinrad, Thomas Dish, William Gibson negli Usa; Arthur Clarke, Michael Moorcock, James G. Ballard in Gran Bretagna; i fratelli Arkady e Boris Strugatskij in Russia).
Tuttavia l'autore polacco aveva ben ragione di sentirsi "stretto" in un solo genere. E non soltanto perché aveva scritto pure numerosi saggi, testi critici, teatrali, sceneggiati radiofonici e televisivi, racconti e romanzi tutt'altro che fantascientifici, ma soprattutto perché questi affrontavano le medesime tematiche che gli stavano a cuore, benché da angolazioni o in ambientazioni diverse, rendendo quindi le sue opere un unico corpus, un grande e quasi ininterrotto affresco sulla condizione dell'uomo, sul suo essere-nel-mondo (come direbbe Heidegger), sulla sua possibilità, meglio la sua capacità, di stabilire un rapporto con ciò che lo circonda e lo incarna: la natura inanimata, la vita biologica, il pensiero, l'ingegno, la ragione, l'immaginazione, l'istinto, il sentimento. Specie nelle prove narrative di stampo realista: qui, addirittura, il contrasto fra la tecnologizzazione dell'esistenza indotta da stati e regimi (democratici o totalitari che siano) e le inesplicabili profondità dell'animo fa totalmente a meno dalle digressioni che spesso interrompono lo sviluppo delle storie "spaziali". E in tali opere, così, questa opposizione finisce inglobata nella trama stessa, o meglio diventa parte integrante del tessuto tematico e linguistico. Con il risultato di rendere le storie più dense, concentrate, più accentuatamente umorali. Più "narrate", si potrebbe dire. Per certi versi, addirittura sperimentali. In ciò ponendo Lem - magari con un piccolo azzardo benché non privo di motivazioni - nel grande solco dell'avanguardia europea della prima metà del Novecento. Come minimo, assieme al suo grande conterraneo Witold Gombrowicz.
E' il caso de "L'ospedale dei dannati", romanzo scritto nel 1948 ma pubblicato solo nel '55 (sempre per problemi di censura) e che soltanto da qualche mese è uscito in traduzione italiana, presso Bollati Boringhieri. Qui Stanislaw Lem mette in atto una vera e propria operazione dialettica nel senso hegeliano: ossia ricorre alla più avanzata (per i suoi tempi) teoria scientifica regolatrice del mondo, la relatività di Einstein, per dimostrare l'insensatezza della scelta di affidarsi esclusivamente alla scienza come fonte di verità e di condotta esistenziale. Nella scienza, in altre parole, trova i suoi stessi anticorpi. E lo fa con uno stupefacente lavoro sul tempo narrativo: quello percepito dal lettore, nei ritmi che si alternano all'interno del racconto, ma soprattutto quello intuito dal protagonista della storia, in base al luogo e alla situazione in cui via via si trova (il sistema di riferimento einsteiniano, insomma).
Il personaggio principale è un giovane medico (come peraltro medico era lo stesso autore). Da poco laureato, partecipa al funerale di un parente e vive l'atmosfera tipica delle famiglie che si riuniscono in tali occasioni: invidie, rancori, pettegolezzi, senso di estraneità ricoperti da una densa patina di ipocrisia. Con una narrazione qui lenta, che pare procedere per strattoni successivi come se fosse sottoposta a una tensione. E la tensione in effetti c'è, ma incombe dall'esterno, fuori dalla porta di casa: siamo nel 1940 e la Polonia sei mesi prima è stata invasa dai nazisti. Fuori c'è la guerra, quindi, però nella cerchia familiare se ne avvertono solo gli echi attraverso i piccoli cortocircuiti nei rapporti fra i componenti.
Il protagonista viene quindi assunto in un ospedale psichiatrico. Vi trova degenti ridotti in condizioni appena vegetative, sporchi, laceri, soprattutto trattati come vere e proprie cavie da psichiatri che praticano esperimenti strampalati, operazioni chirurgiche degne della peggiore macelleria di un Mengele. Il fine è la scoperta scientifica, i pazienti sono agnelli sacrificali sull'altare della verità (presunta). E in questa parte la narrazione pare letteralmente sospendersi, avvilupparsi intorno a se stessa, rimbalzare sulle pareti del nosocomio come una mosca in un bicchiere. La guerra ancora non è fisicamente dentro lo sviluppo del romanzo, ma l'universo concentrazionario del lager c'è già tutto, pur senza essere menzionato, altrettanto efficacemente che in Primo Levi.
Il giovane medico si guarda intorno smarrito, compone cartelle cliniche rinunciando a capirne spirito e senso, cerca di sondare l'umanità presente nell'ospedale anche attraverso conversazioni metafisiche con un poeta d'avanguardia un po' matto e un po' visionario, ma soprattutto privo di sensibilità emozionale, chiuso in un suo mondo ipotetico fatto di esperimenti ideologici e linguistici (anche lui, come gli psichiatri) che finirà per portarlo (in ciò alla stregua dell'intellighenzia polacca dell'epoca) al totale annientamento. Ma è fermo, il giovane medico, paralizzato, chiuso come in un bozzolo. Inerte e impotente. Immobile in quel tempo, storico e letterario, che pare abbia il freno tirato. Anche quando incontra un gruppo di operai che poi si riveleranno partigiani: ma lo capirà troppo tardi per potere compiere una scelta con un minimo di consapevolezza.
Il tempo della narrazione accelera all'improvviso quando il protagonista si trova faccia a faccia con i tedeschi in una strada di Varsavia. E più avanti sembra addirittura precipitare a rotta di collo verso il baratro finale (questo capitolo si intitola non a caso "L'Acheronte"), quando i nazisti irrompono nell'ospedale massacrando tutti i degenti, a gruppi di venti, in un'operazione di sterminio scientificamente pianificata per eliminare ogni soggetto debole o deviante. E' qui che il protagonista cerca di scuotersi, di salvare quanti più ricoverati possibile assieme all'unica collega che per loro ha mostrato un qualche interesse, che ha cercato almeno di ascoltarli. Ma è un tentativo disperato: in pochissimi riusciranno a sfuggire allo sterminio. Il pozzo nero dell'abiezione, della perdizione, pare senza fondo. E il giovane medico vi precipita irrimediabilmente dentro senza trovare appigli, così come la narrazione che qui pare togliere letteralmente fiato al lettore, corre senza freni adesso, come lanciata dentro un cunicolo buio.
Ma proprio da questo pozzo oscuro affiora la promessa conclusiva di salvezza. Di qui ha origine una vera e propria rinascita che sembra incarnare in sé le teorie in quegli stessi anni elaborate da Adorno e Horkheimer ne "La dialettica dell'illuminismo". Solo un atto non scientificamente motivato può salvare l'umanità delle persone. Solo una decisione "insensata". Perché la scienza da sola porta alla morte, alla distruzione, allo sterminio. Il medico e la collega fuggono dall'ospedale trovando rifugio in un fienile. E in questo luogo buio e freddo lei gli dona e prende il suo corpo. Ridando calore alle loro membra e insieme allo spazio intorno. Un atto sessuale senza vero amore, senza alcuna premessa: senza motivazione, insomma. Una scelta dettata da semplice istinto animale, ma non per questo meno tenera, non per questo meno vitale o amorosa. Una scelta non scelta, perciò, eppure urgente, eppure necessaria e perfino a suo modo motivata. Che riporta la narrazione a un ritmo lento, ora, cadenzato e stavolta privo di tensione. Anzi, no: con la tensione eccitata e insieme distesa di un ritorno alla vita, di una nuova fuoriuscita dall'utero materno ma con una reale consapevolezza di sé.
Il tempo percepito dal lettore e dal protagonista si allarga a questo punto come un oceano (forse lo stesso dell'intelligenza aliena abitatrice di "Solaris"), sconosciuto eppure attraente, ciclico e anche caotico, senza limiti e tuttavia in moto perpetuo verso qualcosa, una meta fuori di sé. Non necessariamente conosciuta, però. Anzi. Un luogo che attira proprio perché non si può conoscere con la ragione, non si può valutare con metri quantitativi, che costringe a misurarsi continuamente tanto con le proprie certezze consolidate quanto con le proprie inquietudini.
E' luogo dell'ignoto, questo. Dalla cui prospettiva Stanislaw Lem trova il modo di replicare (indirettamente) alla famosa affermazione di Adorno sulla Shoa. "Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie", scrisse il pensatore tedesco. No, sembra invece dire l'autore polacco, non è una barbarie se all'insensatezza della scienza, al dominio della tecnica, alla vera barbarie del massacro razionalmente pianificato si risponde facendo ricorso alla propria intima e radicale insensatezza.
In una parola, alla propria follia.

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