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UN'ALTRA AMERICA ANCORA
Pacifista, "rivoluzionario gentile", esponente della "controcultura", scrittore "on the road", visionario, paradossale, "Voltaire del ventesimo secolo", "ecologo della natura e della mente", "voce critica dell'America"... Di definizioni ne sono state date a bizzeffe, sui media di moltissimi Paesi, di Kurt Vonnegut all'indomani della morte (mercoledì 11 aprile). Un grande scrittore dal carattere allegro che peraltro con la morte aveva avuto già diversi contatti ravvicinati: preso prigioniero dai tedeschi, nel febbraio del 1945 assistette al massacro di moltissimi commilitoni nel bombardamento di Dresda da parte degli stessi americani, assieme ad oltre 135 mila civili germanici, scampandovi per un pelo (e a questo episodio dedicò nel 1969 uno dei sui romanzi capolavoro, "Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini", a metà fra la realtà e l'estraniazione fantastica); nel 1984 tentò invece il suicidio con un mix di alcol e barbiturici, in preda a un periodo di depressione nera; a fine anni '90, poi, rischiò di perdere la vita quando si assopì al tavolo di scrittura con una delle immancabili sigarette accese (ne fumava almeno una sessantina al giorno), il suo appartamento di New York prese fuoco e lui finì in coma intossicato dal fumo (anche da questo episodio nacque un libro, "Dio la benedica, dott. Kevorkian", del 1999, dedicato al medico processato più volte negli Usa per avere praticato l'eutanasia su richiesta di numerosi pazienti, e in difesa della "dolce morte").
La morte, infine, è arrivata davvero per lui, a 84 anni. Ma non causata da una malattia: per una banale caduta dalle scale invece, ancora una volta in casa, che gli ha prodotto danni cerebrali irreversibili. E si spera che sia stata davvero "dolce" per una personalità che proprio nella compresenza di vita e morte aveva trovato il presupposto principale dell'intera sua opera: da "Distruggete le macchine" (o "Piano meccanico", del 1952) a numerosi romanzi di fantascienza (ma non proprio, in verità: piuttosto, storie che nell'immaginazione trovano la sostanza fondante per parlare del reale mondo contemporaneo): "Le sirene di Titano" (1959), "Madre notte" (1961), "Ghiaccio-nove" (1963), fino a "Galapagos" (1985), "Barbablù" (1987), "Hocus Pocus" (1990), "Cronosisma" (1997). Tutti tradotti in Italia da Nord, Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, Elèuthera. In questi libri ci sono la vita e la morte del pianeta, dell'esistenza umana, delle capacità critiche dell'individuo, dei sogni, dei desideri, ci sono il riso e anche il ghigno drammatico, l'ironia e la sofferenza, la voglia di esserci e la voglia di sparire davanti al disfacimento delle società occidentali.
Opere che nella loro "furia indagatrice" e divagante, però, spesso negli ultimi anni avevano finito per diventare un po' ripetitive anche, perfino un tantino pedanti: come se su un disco con la voce di Mark Twain si fosse incantata la puntina (e probabilmente a Vonnegut sarebbe piaciuto questo paragone, lo avrebbe fatto ridere a crepapelle). Forse il periodo più creativo fu quello tra gli anni Sessanta e Settanta, quando l'autore era "tornato sulla terra", per così dire, e a cavallo del "Mattatoio" disseminò la propria personalità, i suoi innumerevoli umori e pensieri, in romanzi abitati da personaggi sempre in bilico fra l'estrema lucidità e la follia, oppure facendo dei suoi protagonisti dei veri emarginati sociali, drop-out (anche se a volte perfino miliardari o geni degli affari e della tecnica, o magari ex criminali nazisti) capaci di pronunciare verità profonde e impensate sotto forma di banalissime frasi pressoché senza senso. Anche con effetti, a tratti, di comicità scatenata alla Stanlio e Ollio.
Libri da leggere tutti d'un fiato e che, arrivati all'ultima pagina, instillano una sensazione di "pienezza", un senso di consapevolezza del mondo tanto acuto quanto ironicamente distaccato, un'aspettativa di così concreto disfacimento della civiltà militar-tecnologica - di morte incombente, insomma - da desiderare di vivere la propria esistenza il più pienamente possibile, di riempirla ogni attimo di contenuti, emozioni, passioni: "Dio la benedica, signor Rosewater o perle ai porci" (1965), "La colazione dei campioni o addio, triste lunedì" (1973), "Comica finale" (1976), "Un pezzo da galera" (1979); con un'appendice sul decennio successivo ne "Il grande tiratore" (1982). Opere che mettono a nudo anche il rapporto di odio-amore che legava Vonnegut alla fantascienza (una volta si rivolse agli scrittori di questo filone con una frase che divenne famosa: "Vi amo, figli di puttana") e alla narrativa di invenzione in genere, da cui traeva continuamente ispirazione, in realtà, ma dalla quale cercava al contempo di affrancarsi, insofferente come era ad ogni etichetta.
Eppure, proprio alla fantascienza era legato anche questo suo più fecondo periodo. Mi capitò di scoprirlo in persona circa vent'anni fa (era il 1987, se non ricordo male), quando Kurt Vonnegut venne nella città in cui vivo e lavoro, Palermo, per ritirare un premio letterario. Il mio giornale mi incaricò di intervistarlo (a quei tempi ci si occupava di cultura ancora con una certa serietà, ora non più da tempo) e io mi presentai nell'albergo dove alloggiava piuttosto teso, preoccupato, soprattutto intimidito dalla statura del personaggio.
E di statura ce n'era davvero. Due metri di omaccione con una corona di grigi capelli ricciuti, baffoni chiari, scarpe da tennis (di misura almeno 46), camicia a quadri, jeans sdruciti e una perenne sigaretta fra le dita lunghissime. Ma una persona di una dolcezza, di un'umiltà, con una sua straordinaria fragilità, insieme, che mi mise subito a mio agio a suon di battute spiritose e di risate che facevano risuonare tutta la hall. Parlammo per almeno tre ore: riempii un intero quaderno di appunti (sapendo che per l'intervista sul giornale avrei potuto utilizzarne al massimo un decimo; però conservo ancora gelosamente quel quaderno scolastico) e lui non si sottrasse ad alcuna domanda, anche le più contorte o divaganti o "maliziose", diciamo così. Come quando cominciò a parlare malissimo delle opere di Thomas Pynchon, "che dopo le prime pagine butto regolarmente via", disse con un'altra sonora risata.
La scoperta di questo intricato rapporto fra Vonnegut e la fantascienza arrivò con la risposta ad una domanda che mi frullava da anni nella mente, dopo avere letto alcuni suoi libri: chi era quel personaggio che appariva regolarmente nei romanzi degli anni Settanta? Kilgore Trout, lo aveva chiamato lui, ed era uno squinternato, emarginato scrittore di fantascienza "trash", appunto, povero in canna, che per mantenersi faceva mille mestieri e pubblicava innumerevoli racconti, in cambio di pochi soldi, su riviste pornografiche o "underground". Nel 1974, peraltro, un affermato scrittore di fantascienza, reale e pluripremiato questo, Philip José Farmer, aveva scritto un romanzo proprio sotto lo pseudonimo di Kilgore Trout. Era lui, quindi?
Nuova grande e sonora risata di Vonnegut, a questo punto. E risposta che mi spiazzò, aprendomi però all'improvviso un intero e sconosciuto orizzonte. No, non era Farmer. Quel personaggio era ispirato a un altro grande della fantascienza. Anzi, a uno scrittore ancora più grande, capace di travalicare i limiti del genere per influenzare buona parte della letteratura americana del ventesimo secolo: Theodore Sturgeon. Anch'egli un omaccione di quasi due metri, fra l'altro, che Vonnegut mi descrisse così: capelli lunghi e lisci, chiari, barba biondiccia, una specie di Gesù Cristo insomma, trasandato nel vestire, solitario ma gentile e tutto sommato molto socievole, amante delle passeggiate in riva al mare, che aveva fatto davvero mille mestieri per vivere, anche quando era già famoso, per poi raggiungere una relativa tranquillità economica diventando uno degli autori della famosa saga televisiva "Star Trek".
Un autore che non conoscevo, a quei tempi. Ma che dopo la conversazione con Vonnegut diventò per me una specie di ossessione. Pian piano riuscii a procurarmi la quasi totalità dei suoi libri (alcuni, per la verità, sono tuttora introvabili), a leggerli tutti, a studiarli, a scoprire che è stato davvero un altro dei più grandi scrittori americani del Novecento, senza etichette di genere. E così fui in grado anche di ricostruire lo strano intreccio che si era creato fra lui, Vonnegut e Farmer.
Erano tutti e tre autori "trasgressivi", controcorrente, pieni zeppi di umanità, pacifisti e fortemente critici con il cosiddetto "sogno americano". Farmer negli anni Cinquanta era stato il primo a narrare una storia d'amore e di sesso nella puritana fantascienza, "Gli amanti di Siddo", un umano e un'aliena. Scandalo. Sturgeon nel 1960 pubblicò "Venere più X", un romanzo apparentemente fantascientifico (solo apparentemente, però) che aveva come tema centrale la sessualità, "convenzionale" e non, assieme alla procreazione e ai rapporti di coppia fra individui non necessariamente di sesso diverso. Doppio scandalo. Vonnegut fece di Sturgeon (uno dei suoi maestri, lo definì, nonostante le notevoli differenze di scrittura) un proprio personaggio, del cui nome di fantasia Farmer a sua volta si appropriò (in un evidente omaggio) per firmare una sua opera.
Mi resi conto di avere scoperto un'altra America, per mezzo di Kurt Vonnegut. Capii che non c'era solo quella degli Hemingway, dei Faulkner, dei Dos Passos, dei Fitzgerald, né solo quella dei gialli "hard boiled", Hammett e Chandler, o dei grandi ebrei, Saul Bellow o Philip Roth; o della "beat generation"; oppure quella classica dei Melville, degli Hawthorne, dei Mark Twain. C'era anche un'America che ragionava su di sé. E che lo faceva parlando d'altro, viaggiando per pianeti o incontrando alieni, oppure rendendo aliena se stessa. Che corteggiava la morte attraverso il riso, corteggiava la vita attraverso la sofferenza o attraverso la stessa morte, che corteggiava il mondo attraverso altri mondi o immergendosi nel suo stesso "sottosuolo".
C'è un'America, cioè, che non si rassegna alla parte di potenza più o meno "coloniale", di dominatrice, di nazione che spreca risorse naturali ed esistenze umane. C'è un'America che vuole ridere di se stessa, perfino. Che ogni tanto vuole fermarsi a pensare. C'è un'America che vuole dialogare, anche, senza preconcetti e senza imporre la propria "verità" o la propria presunta, superiore "democrazia". C'è un'America, alla fine, che vuole essere soltanto un luogo da scoprire. Un luogo del mondo. Come tutti gli altri.
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